Di Carmelo Ferlito

ECONOMIA, MORALE E FASCISMO NELLE CONFIDENZE DI ALBERTO DE’ STEFANI

 Il presente contributo non intende delineare in alcun modo le vicende biografiche dell’economista veronese Alberto de’ Stefani, ma intende soffermarsi su un suo contributo marginale, ma estremamente significativo, intitolato Confidenze e convinzioni[1]. Le considerazioni di questo saggio prendono le mosse dalla sua analisi circa lo stato della scienza economica e l’approccio metodologico seguito dagli economisti della sua epoca. Dove stava andando, infatti, l’economia politica? Da tempo era iniziata quella sua trasformazione in terz’ordine della matematica, i cui risultati oggi sono sotto gli occhi di tutti: la folgorante sterilità dell’analisi economica si traduce in una incapacità di interpretare i fenomeni reali, che tendono ad essere ingabbiati in schemi rigorosi, divenuti fine e non strumento della ricerca. La svolta marginalista iniziata nella seconda metà del xix secolo per opera di Jevons, Menger e Walras si era sviluppata lungo due direttrici che diventavano sempre più inconciliabili: da un lato, pur con variegate sfaccettature, dai Principi di Menger (1871)[2] prendeva vita la Scuola Austriaca di Economia, fondata sull’aristotelismo (centralità della realtà e subordinazione dello schema alla natura del soggetto indagato) e attenta ai distinguo metodologici[3]; dall’altro, gli Elementi di Walras (1889)[4] genereranno un formicaio di economisti imprigionati in formalismi matematici: una scuola di successo nel Novecento, cui aderirono, anche se non senza importanti distinguo, autori italiani come Vilfredo Pareto[5] e Maffeo Pantaleoni[6], quest’ultimo, lo ricordiamo, titolare dei dicasteri economici nella reggenza d’annunziana di Fiume[7]. La guerra tra i due indirizzi è ancora in corso: oggi, dopo un periodo di dominio del fusionismo tra l’equilibrio economico generale di Walras ed il dogma keynesiano, si assiste ad un risveglio del paradigma austriaco, grazie soprattutto alla riscoperta del pensiero di Hayek[8]. Ma veniamo ora al Nostro, le cui pagine in esame sarebbero poi divenute l’introduzione di Sopravvivenze e programmi nell’ordine economico[9]. L’Autore prende le mosse dalla domanda circa l’opportunità o meno di scrivere un manuale di economia politica destinato agli studenti; de’ Stefani, come vent’anni prima, è scettico, sempre più scettico, sullo stato dell’arte. Perché?

E’ probabile che tale stato d’animo dipenda dalla prevalsa tendenza ufficiale e universitaria, non soltanto nostra, a disumanare, a smoralizzare l’economia, dall’averle tolto il vitale respiro costringendola in dottrine astratte e meccaniche e dall’aver fatto diventare ipoteticamente gli uomini dei punti mobili moventisi, secondo certe leggi di gravitazione degli interessi, in un geometrico spazio economico[10].

Tale critica è affiancata a quella contro l’applicazione del paradigma meccanicistico, ritenuto fondamentale per la descrizione e la conoscenza dell’ordine fisico, allo studio degli uomini e dei loro rapporti, per i quali è assolutamente inadeguato. In fondo, l’economia si occupa proprio di relazioni umane e sociali. De’ Stefani, quindi, vuole rimettere l’uomo al centro dell’analisi economica, scienza che quindi dovrebbe tornare, a detta dell’Autore, in grembo alla politica e soprattutto alla morale[11].

Ecco perché il non più Ministro delle Finanze del duce intende tornare a scrivere: per compiere un dovere, nonostante l’isolamento nell’ambiente scientifico. Così si fa serrata la critica alla direzione presa dall’utilitarismo accademico degli economisti.

L’olio della lampada della vita è l’utilità delle azioni e delle cose per l’uomo qualunque sia il posto che a ciascuna di esse compete nella gerarchia dei valori e cioè il bene che egli può ricavarne: il loro valore di uso concepito in tutta la sua dignità e universalità. Soltanto a questo proposito si può parlare propriamente di valore; nel caso dello scambio invece solo di rapporti. Gli economisti hanno l’aria di parlare del valore d’uso quasi con degnazione e col dispiacere di non potersene esimere e ne parlano quanto meno essi possono, disumanandolo, generalizzandolo, svuotandolo dalla sua concreta umanità, impoverendolo al massimo per adattarlo, sfigurato e irriconoscibile, alle esigenze della dialettica formale e quantitativa.

Così è accaduto che la gerarchia dei valori di uso è stata oscurata da quella dei rapporti di scambio e che l’intrinseca importanza umana di una attività e di un bene venne commisurata all’altezza del prezzo. Avendo pertanto gli economisti concentrata la loro attenzione e attratta l’altrui sui rapporti di scambio e sulla loro interdipendenza, essi hanno inconsapevolmente concorso a creare e a rafforzare il presupposto dottrinale del capitalismo il quale si fonda appunto sulla prepotenza, anche politica, di rapporti estrinseci alla vera utilità dei beni e dei servigi nonchè al contributo del lavoro dell’uomo alla produzione[12].

L’accento sui rapporti di scambio ha permesso, secondo de’ Stefani, l’accentuarsi della dialettica classista, polarizzando gli interessi; a questo proposito, i teorici del corporativismo non sono riusciti a creare uno schema concettuale alternativo, ma sono rimasti impantanati in categorie tipiche dell’elaborazione liberale e marxista. Quindi, avverte l’Autore, è tempo di assumersi le proprie responsabilità e di non far perdere la battaglia corporativa.

Tuttavia, il tempo non è favorevole. De’ Stefani critica duramente la prospettiva morale e filosofica del secolo, incentrata sull’esistenzialismo, sulle soddisfazioni mondane, sull’allontanamento dalla ricerca della Verità; il tutto accompagnato dall’estendersi della disciplina giuridica su ogni aspetto della vita: il diritto sostituisce la morale, la previdenza sociale la carità.

 

L’ordine giuridico crea però ed avvalora l’illusione di un ordine delle anime. Non si può negare invece che ci sia un certo sincronismo tra lo sviluppo del tessuto giuridico e lo smagliarsi del tessuto morale. Il diritto riduce l’importanza politica della morale, donde la crisi morale del diritto, che è in atto e che conferisce al diritto stesso il carattere prevalente di una tecnica normativa ed organizzativa senza un effettivo valore intrinseco[13].

A questo processo se ne accompagna uno analogo nella pratica economica: la spersonalizzazione societaria. Come l’anno seguente avrebbe scritto anche il grande Schumpeter[14], la fine del ruolo dell’imprenditore in ambito industriale, sostituito da manager e consigli di amministrazione impersonali, avrebbe portato una socialistizzazione del sistema.

L’indifferentismo etico delle soluzioni tipiche della scienza economica (equilibrio economico generale di Walras) e della realtà aziendale (pareggio dei bilancio come riflesso dell’equilibrio) produce, secondo de’ Stefani, una generale irrequietezza negli uomini, che li spinge ad un moto continuo e fine a se stesso, nella ricerca esasperata di nuove soddisfazioni a piccoli bisogni. Spenta la sete di Verità, si sono create piccole necessità, che hanno drogato la naturale inquietudine umana, che è anelito di infinito e non di gioie momentanee.

L’altra faccia di questa medaglia è la psicologia storicistica, figlia del materialismo e sorella dell’esistenzialismo, accompagnata alla decadenza della concezione dell’uomo come creatura divina. Infine, Dio è stato tolto dalla politica, venendo ripescato solo quando gli statisti  impegnano in alternative mortali il destino dei popoli[15].

Oppure, l’uomo se ne ricorda quando non trova altro conforto. Per questo, ribadisce de’ Stefani, l’economia politica deve affondare le proprie ragioni nell’etica: per non diventare uno strumento dialettico del materialismo. Il far rientrare l’economia tra le scienze morali (non meccaniche, non sociali, ma morali) appartiene per l’Autore al più grandioso progetto di creazione di un nuovo ordine politico europeo, perché è sulla morale che si può costruire un’unità, non sulle strutture giuridiche: come dovrebbero ricordarlo anche gli amministratori europei contemporanei! […] nella nuova forma di convivenza delle genti europee diversi regimi possono coesistere purchè servano la stessa idea madre e le loro regole non vi contraddicano. Una ragionevole varietà negli ordini giuridici ed economici, aderente all’indole e alle condizioni di vita dei popoli, non pregiudica l’unità europea; ma quel che è uno [Dio], uno deve rimanere ed essere capace di ispirare questa o quella regola e di farle convergere tutte verso la propria unità[16].

L’affermazione dell’Uno è fondamentale, perché la fiducia nei miti diversificati dell’oggi produce relativismo e caducità, uomini scontenti nonostante gli affanni incessanti della frenesia quotidiana. Per questo la formula della laicità dello stato diventa retorica ed astratta, inaccettabile soprattutto nei regimi totalitari: l’economia ed il diritto non bastano a creare un nuovo ordine, una superiore unità politica. Non c’è impero senza una mistica, come scriveva Braudel[17]: l’uomo economico va sostituito con l’uomo morale!

Il nuovo ordine europeo sarà un fatto politico d’importanza trascendente e non un semplice spostamento nei rapporti di forza, frutto di un diverso raggruppamento politico, soltanto se contribuirà al risanamento delle gerarchi materialistiche e ad una sostituzione dei valori ai pseudo-valori. Questo processo rigenerativo estende ed eleva l’ufficio della nuova politica europea anche nei confronti degli altri popoli del mondo e dovrebbe avere un contenuto profondamente revisionistico.

La politica pura considerata come maneggio delle forze politiche e cioè nel suo aspetto tipicamente meccanico e come tecnica del loro equilibrio, si trova di fronte al problema della propria integrazione spirituale e religiosa[18].

Sembrerà strano all’economista contemporaneo questo argomentare. De’ Stefani, in buona sostanza, è partito da un’analisi sullo stato della scienza economica per perorarne un rinnovamento, ma non si è limitato al “proprio orticello”. Attraverso considerazioni metodologiche, e quindi filosofiche, ha preso il volo per sottolineare come il mutamento del registro gnoseologico dell’economia non sia che uno degli aspetti necessari ad un cambiamento più ampio, che riguarda l’intera concezione della vita personale e sociale, cioè della politica, chiamata al compito di edificazione di un nuovo, glorioso, ordine.

A tal fine diviene necessario l’abbraccio con il cristianesimo perché esso costituisce l’atmosfera in cui vive l’anima delle genti ed è questa l’atmosfera che costituisce il presupposto di vita implicito nell’ordine sociale e nei suoi istituti. L’economia divide, l’etica unisce. Questo è il senso della lotta e non si può utilmente dipartirsi da esso[19].

Nell’opera di rinnovamento necessaria il ruolo del Partito, del Partito fascista in questo caso, è cruciale, perché è esso che deve sapere interpretare e rappresentare il travaglio degli spiriti del tempo. Il Partito, dunque, non può limitarsi alla gestione amministrativa della cosa pubblica; non manca, in questa riflessione, una critica dell’Autore proprio al suo Partito, che pare non essere stato in grado di cogliere la debolezza di una concezione dello Stato quale Stato-amminsitrazione. Invece, lo Stato, che è espressione

di una comune sensibilità e volontà etica, si riassume nell’ordine politico. L’organo che attua quest’ordine, traendo l’alimento dal popolo, è, in regime unitario e totalitario, il Partito. Il quale appunto in virtù della sua funzione universale e della sua composizione è anche regime. Il Partito è una realtà etico-politica; è l’organo che la rappresenta, ne attua i propositi e ne assicura le finalità[20].

Proprio a causa di questa missione assoluta, il Partito non può appoggiarsi ad una logica relativista, ma necessita del supporto di un principio assoluto esso stesso. Per il popolo italiano, a detta di de’ Stefani, questo principio non può che essere quello cattolico, grazie ai pregi della sua universalità. Ogni altro appiglio religioso sarebbe destinato al tramonto tipico dei fatti di moda, intellettualistici, salottieri, illusori.

 


[1] A. de’ Stefani, Confidenze e convinzioni, «Rivista Italiana di Scienze Economiche», Anno xiii, Fascicolo n. 9, Settembre 1941, pp. 5-28.

[2] C. Menger, Grundsaetze der Volkswirthschaftslerhre, Wien, Wilhelm Braumuller, 1871 (trad. it. Principi fondamentali di economia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001).

[3] C. Menger, Grundzuege einer Klassifikation der Wirtschaftswissenschaften, Jena, Gustav Fischer, 1889 (trad. it. Lineamenti di una classificazione delle scienze economiche, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998) e Id., Untersuchungen ueber die Methode der Socialwissenschaften, und der politischen Oekonomie insbesondere, Lepizig, Duncker & Humblot, 1883 (trad. it. Sul metodo delle scienze sociali, Macerata, Liberilibri, 1996).

[4] L. Walras, Elements d’economie politique pure ou theorie de la richesse sociale, Lausanne, F. Rouge, 1889 (trad. it. Elementi di economia politica pura, Torino, Utet, 1974).

[5] V. Pareto, Cours d’economie politique, Lausanne, F. Rouge, 1896-97 (trad. it. Corso di economia politica, Torino, Utet, 1987).

[6] M. Pantaleoni, Principii di economia pura, Napoli, Barbera, 1894.

[7] Cfr. R. de Felice, Il carteggio fiumano d’Annunzio – Pantaleoni, «Clio», x, 1974.

[8] Per dettagli su questo tema si possono utilmente consultare J. Huerta de Soto, La Scuola Austriaca. Mercato e creatività imprenditoriale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 e G. O’Driscoll-M.J. Rizzo, L’economia del tempo e dell’ignoranza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.

[9] A. de’ Stefani, Sopravvivenze e programmi nell’ordine economico, Roma, Edizioni Italiane, 1941.

[10] De’ Stefani, Confidenze, p. 6.

[11] Ivi, p. 6.

[12] Ivi, p. 7.

[13] Ivi, p. 10.

[14] J.A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, New York, Harper & Brothers, 1942 (trad. it. Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etas, 2001).

[15] De’ Stefani, Confidenze, p. 14.

[16] Ivi, p. 18.

[17] F. Braudel, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, p. 693.

[18] De’ Stefani, Confidenze, pp. 20-21.

[19] Ivi, p. 24.

[20] Ivi, p. 26.

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