Elogio della caccia e del vero cacciatore – di Matteo Donadoni

Rimandare per vent’anni il conseguimento della licenza di caccia non è stata, bisogna ammetterlo, una delle mie decisioni più geniali. Rimandare e non cacciare, chiaramente. Ora la speranza è di poter dire con Roger Scruton:La mia vita si divide in tre parti, nella prima ero infelice, nella seconda ero a disagio, nella terza cacciavo”.

Nello stesso tempo ho deciso di porre in essere uno degli atti più reazionari (oltre alla caccia) che si possano compiere nell’asfissiante mondo globalizzato: coltivare un orto domestico. Cacciare un animale selvatico, coltivare da sé (o allevare) gli alimenti che finiranno sulla tavola per i nostri figli sono, fra le attività alla portata del singolo, quelle che più ne stimolano l’attività mentale e in modo più evidente ne esplodono la potenza liberatrice dai gangli della tecnologia finanziaria del moderno Stato servile.

Non appena un uomo si accosta all’arte venatoria, o pone mano alla zappa, compie un atto di supremazia sulla propria vita. Tutto ciò porta alla riflessione spontanea: ma come è successo che le due attività manuali più logiche e più naturali di un essere umano si siano trasformate in costosissimi hobby? Ciò che per i nostri nonni era vita quotidiana – oltre che un’arte -, oggi è svago e tempo libero per borghesi imbolsiti e annoiati.

E svagarsi costa. Comprare una vanga nuova di qualità costa quasi come comprare un fucile usato e questo costo viene ammortizzato in termini ortofrutticoli con mesi di lavoro, sempre che si siano fatte le cose ad arte e che la natura, clima permettendo, porti frutto. Cacciare, d’altra parte, costa quanto comprarsi l’intero reparto macelleria del supermercato.

Questo in termini economici. Ma non si va a caccia per riempire il freezer. O non si dovrebbe. Quella sensazione, la soddisfazione di riappropriarsi di un fazzoletto di libertà, che spetta all’uomo per diritto divino, è senza prezzo. Passeggiare con il fucile in spalla osservando la gioia del nostro cane che corre libero su terreni di caccia fioriti, dove la mente può spaziare con tutta la libertà che le è propria, non fa solamente bene al sistema cardiovascolare, fa bene al cuore in senso intimo, rende veramente liberi.

Per questo, ma anche per tutta una serie di motivi, ogni essere umano normale dovrebbe anche solamente volere andare a caccia. Un uomo normale. L’uomo normale esiste ancora o è un reperto paleontologico catalogabile per molti nella categoria “specie estinte causa inettitudine all’adattamento alla modernità” o, per pochi, in quella di “desiderabilia”?

La caccia ha permesso all’uomo di adattarsi a tutte le differenti situazioni climatiche del pianeta, ma soprattutto ha permesso all’umanità di superare le carestie, nonché l’ultima era glaciale. Ho il sospetto che suddividere l’umanità primitiva in cacciatori e raccoglitori sia un’operazione mitopoietica degli antropologi. La struttura dentale umana indica che l’uomo è animale onnivoro. Certamente molto prima di addomesticare gli animali, gli uomini furono cacciatori e, all’occorrenza, i raccoglitori, diventati agricoltori e allevatori devono aver fatto ricorso alla caccia per non essere spazzati via dalla lotta per la sopravvivenza. Tutto ciò, peraltro, fino a pochi decenni fa. Non erano cacciatori solamente i lord inglesi dalle sfavillanti giubbe rosse, ma ogni contadino inglese (o italiano) era generalmente anche un cacciatore.

Caccia e agricoltura possono ben coesistere sullo stesso territorio in regime di mutuo aiuto. Dimenticare o voler far dimenticare la cultura rurale tradizionale tramite un’acculturazione progressista coatta, impartita dai nuovi innaturali costumi imposti dallo Stato, vuol dire contribuire non solo ad alienare l’uomo dal proprio habitat naturale, ma dalla propria stessa natura. Tarpare quel richiamo ancestrale che ogni bambino ha nelle proprie vene, vuol dire tentare di fargli dimenticare di essere uomo. Non si sostiene qui il ritorno nostalgico all’arretratezza tecnologica, ma la difesa di una vita rurale nient’affatto alternativa allo sviluppo, in cerca di un nuovo equilibrio fra natura e tecnica, che renda il mondo un posto più accogliente per l’uomo, senza però snaturarne l’essere intrinseco, come sembra invece imporre la postmodernità.

Anche in ciò ha grande responsabilità quella scuola – pare non ne azzecchi più una – che si mobilita per Greta e il suo mondo di fantasia in fiamme, ma che nulla fa per spiegare ai bambini cosa sia la vera caccia, quali siano gli animali cacciabili e perché, mentre spiega in modo parziale i concetti fondamentali riguardo all’ecosistema e le varie specie animali in rapporto fra loro e con l’uomo. In alcune realtà del nord Europa, invece, la caccia viene insegnata nei primi anni della scuola primaria. In questo modo caccia diventa sinonimo di rispetto.

Prendere la decisione di diventare cacciatore significa rendersi conto di esserlo già. Commettere l’ingenuità di dirlo, invece, significa incontrare una serie di noie dialettiche. Ho notato spesso che l’antica ars venandi viene generalmente confusa con il bracconaggio. La gente normalmente concepisce la caccia – in ciò non certo senza una certa dose di responsabilità da parte di sedicenti cacciatori – come inutile atto di crudeltà (dato che non si caccia più per sostentarsi) o come sport sadico praticato da persone che godrebbero dell’uccisione di innocenti passerotti (peraltro non cacciabili). Dunque, molti non cacciatori oggi confondono la caccia con il bracconaggio, ma essere contro la caccia perché colpiti da casi di bracconaggio sarebbe come essere contro l’umanità perché esistono gli assassini – è questo l’esito infausto di certe ideologie.

La caccia non è questo. La caccia è una delle grandi opere di ieri oggi e domani, qualcosa di talmente normale da risultare apparentemente banale, ma qualcosa di naturale, atavico e vitale, una di quelle attività come prendere il tè con la nonna senza pensare al tempo che passa, pulire i fucili con propri figli senza bisogno di parlare, guardare il tramonto dalla veranda sul davanti, e sapere che è per te.

La caccia è la prima forma di ecologia. È il paradosso venatorio: andiamo a caccia perché amiamo gli animali. Anche l’uomo è un animale, ma è anche ben di più: “Qualsiasi uomo può essere lodato, e a ragione. Anche soltanto stando in piedi su due gambe fa qualcosa che una vacca non sa fare” diceva Chesterton. Perciò l’uomo deve cacciare da uomo, non da animale, non da bruto. Esiste un’etica della caccia, la quale discrimina il cacciatore dal bracconiere. Cacciare per un giovane è passare al bosco, direbbe Jünger.

Cacciare è anche ascesi. Cacciare è calma, silenzio, contemplazione del creato. Cacciare è sentirsi parte di un intero, di un disegno intelligente dove ogni cosa ha il suo posto, con ordine e perfino pace, perché l’ordine naturale è accettazione del proprio stato. Cacciare è dedizione, sapersi dare, del cacciatore e della preda.

Alla fine, inizio a pensare che il cacciatore cerchi la preda per trovare se stesso. La aspetta come si aspetta la vita, il fatto che vi giochi un ruolo fondamentale la morte non è secondario, ma è solamente perché ne è parte. La morte è parte integrante della straordinaria vicenda umana, nonché della struttura ontologica del divenire del nostro universo. Del valore totemico della preda parleremo un’altra volta, basti dire che sbaglia chi vede la caccia come esercizio crudele, la caccia esercizio di morte, vero, ma finalizzato alla conservazione della vita (sintesi del paradosso venatorio).

Si va a caccia, in questo mondo globalizzato e cementificato, per essere ancora parte della natura, fino in fondo. Per sentirne il profumo. Si va a caccia per restare umani, perché, in fondo, parafrasando Scruton, il vero profumo della caccia lo senti solo a casa tua.

14 commenti su “Elogio della caccia e del vero cacciatore – di Matteo Donadoni”

  1. Davvero poetico questo quadro di sana vita agreste dove la vita, lontana dalla frenesia cittadina ritrova il suo naturale senso avvicinandosi altroché alle meraviglie della creazione, anche al Creatore. Ma caro aspirante o praticante cacciatore, si è mai imbattuto in un fagiano dai magnifici colori o nella sua compagna mentre dal bordo della strada, attorniata dai suoi piccoli cerca di sfuggire a chi passa? O le è mai capitato di scorgere (come è successo a me) un batuffolo peloso sotto una pianta di melanzana mentre ci si appresta a fare raccolta e scoprire un leprotto immobilizzato dalla paura? O aprire il portone di casa di prima mattina e vedere lì su un angolo forse la mamma di quell’incauto frequentatore di orti? Avrebbe lei il coraggio di puntar loro contro il fucile? O puntarlo contro qualche uccello che vola libero nel cielo? Io no. Nel caso di cinghiali che sono aumentati a dismisura invece…
    Beh, insomma, ho il cuore tenero e sulla caccia sono ondivaga e se tutte le cose ci sono state date per farne buon uso, facciamolo pure. Sempre a gloria del Buon Dio, però.

      1. Io ho scoperto la felicità del cacciatore da bambino, avevo dieci anni e mio zio mi portava con se quando andava a caccia contro la volontà di mia madre e con l’avallo di mio padre. Mio zio era un abile cacciatore, aveva ottimi cani e prediligeva la caccia alla lepre. Uscivamo all’alba da casa, io portavo la cartucciera a tracolla e lui la sua splendida doppietta Bernardelli. A quel tempo gli uomini uscivano tranquillamente di casa col fucile a tracolla, tutti lo avevano in casa, andavano al bar vicino, prendevano una grappa e poi si saliva per i monti. Giornate bellissime, tra l’azzurro del cielo ed il vento di tramontana, per cui provo una nostalgia struggente.

        Poi è arrivato l’animalismo ideologico, i parchi inutili, l’ecologismo radical chic, mio zio è morto, la Bernardelli è fallita ed io non ho più potuto mangiare le meravigliose pappardelle alla lepre di mia nonna.

        Sono passati molti anni da allora, ma anche io finalmente ho smesso di rimandare ed ho riscoperto quanto il buon Dio ama i cacciatori (veri reazionari doc assieme ai veri contadini).

  2. Claudio Zavaroni

    Non ho mai pensato che i cacciatori fossero criminali, ne conosco diversi e con qualcuno sono anche buon amico.
    Ma che i non-cacciatori (quelli cioè che amano semplicemente camminare per contemplare o fotografare o filmare la bellezza del creato e quelle meraviglie di Dio che sono gli animali selvatici ) non potessero veramente sentirsi parte della natura e nemmeno restare umani , mi sorprende molto.
    Quindi per amare la natura e il vero ruolo dell’uomo al suo interno bisogna ammazzare lepri, fagiani , cervi, caprioli, ecc…ecc… ?
    Rimango perplesso (a dir poco).
    Cordiali saluti.

    1. Certo che no, ma nemmeno dobbiamo farci assediare e rovinare da lupi, orsi, cinghiali, nutrie, cervi, ecc. Se lei fosse agricoltore o allevatore, o amante delle passeggiate solitarie nei boschi, in montagna, forse darebbe un po’ meno poetico e più realista pur rimanendo buon cattolico

    2. Ha ragione Donandoni, cacciatori si nasce anche se non lo si diventa, per questo quando lo si diventa ci si accorge di esserlo sempre stati. Ma è anche vero che molti uomini non lo sono e non lo saranno mai. Questo non fa certo di loro uomini di serie b, sig. Claudio, ci mancherebbe, ma provi a pensare ad un bimbo che non ha mai potuto correre su un campo di neve perchè vive in Sardegna e provi a portarlo su un campo di neve immacolato e lasciarlo fare. Alcuni forse resterebbero fermi, persino intimoriti, ma riesce ad immaginare la gioia di un bambino che corre in mezzo alla neve fresca per la prima volta nella sua vita?

      Certo la neve non piace a tutti, ma può farti molto felice.

      La caccia non consiste prosaicamente nell’ammazzare lepri e fagiani cervi e caprioli, è invece un modo
      limpido, nobile e persino spirituale di affermare l’umano primato di fronte al creato.
      Chi va a caccia ama la natura ma ama anche il suo essere uomo.
      Cacciare eticamente e da cattolico diventa preghiera e persino atto di fede e di lode a Domine Dio.
      L’autore lo ha capito e spiegato bene.

  3. jb Mirabile-caruso

    M. Donadoni: “La morte è parte integrante della straordinaria
    …………………vicenda umana…”. “Del valore totemico della
    …………………preda parleremo un’altra volta…”

    Ma l’uomo, dr. Donadoni, non era stato creato immortale? O forse anche questa è diventata una favola non più credibile dai cosiddetti uomini-adulti?

    Grazie per averci informato in anticipo che ci sarà ‘un’altra volta’, cosicché io potrò avere la possibilità di saltare a piè pari la Sua prossima esibizione retorica sul ‘valore totemico della preda’!

    Roba da matti!!!

  4. Ai perplessi e ai cuori delicati dirò che sono totalmente d’accordo con l’Autore. Il mio povero papà era cacciatore “sano”, ossia rispettoso delle leggi umane e di quelle naturali. Amava davvero e sinceramente animali e piante, ne distingueva le fattezze e le proprietà; andava spesso da solo e più raramente in compagnia di silenziosi suoi simili. Mi insegnava il passare delle stagioni, le abitudini, i colori, i sapori. Non ho mai conosciuto nessuno tanto armonico e funzionale all’ambiente naturale dove viveva (aperta campagna, nella pianura padana). Amando lui, non si poteva non amare il contesto naturale nel quale era inserito; e viceversa. Scrive l’Autore: “la caccia è una delle grandi opere di ieri oggi e domani, qualcosa di talmente normale da risultare apparentemente banale, ma qualcosa di naturale, atavico e vitale, una di quelle attività come prendere il tè con la nonna senza pensare al tempo che passa, pulire i fucili con propri figli senza bisogno di parlare, guardare il tramonto dalla veranda sul davanti, e sapere che è per te”. Ecco, quello è mio padre. E sono io.

  5. Quando di una persona conosco soltanto il fatto che è amante della caccia inizio a pensarne bene!
    Quando di una persona conosco soltanto il fatto che è animalista inizio a pensarne male!

  6. Bah, cacciatori e animalisti, due forme opposte di estremismo, secondo me.
    Si alla cacciagione, ben cucinata, senza bisogno di sparare su animali inermi in prima persona…
    Si può essere buoni cattolici anche andando dal macellaio, non scherziamo per favore…

  7. Mi fa piacere che si tocchi questo tema, controcorrente. Incancellabili sono i miei ricordi di bambino, quando mio padre mi portava a caccia, la mattina presto ancora buio. Colori, profumi, atmosfere che i più oggi non possono neanche immaginare. La caccia è cultura e i cacciatori sono i primi ad amare la natura; continuo a farlo per questo. Non si va certamente per riempire il frigorifero, ma solo per il piacere della libertà. Ovviamente ci sono anche cacciatori scorretti o attenti solo al carniere, ma gente sbagliata ne trovi in ogni categoria.

  8. Claudio Zavaroni

    Supererò la crisi di identità (ambientalista ? animalista ?), e , a Dio piacendo , continuerò a mangiare carne , continuerò a fare belle camminate tra boschi e montagne, continuerò a bearmi della vista del volo dei falchi e delle corse dei caprioli , continuerò a sentirmi umano e superiore agli animali ; e per tutto questo non ho bisogno di pagare la licenza di caccia e girare col fucile in mano ad ammazzare selvatici, forse sono fortunato…., perché non provate anche voi ?
    Cordiali saluti.

    1. Nessuno, caro Claudio, sta dicendo che si può essere beati nella natura anche senza un fucile. Stiamo, sto dicendo che chi pratica correttamente la caccia può parimenti godere della natura, e di quelle atmosfere molto ben evocate dall’autore ed in alcuni commenti. Le sue parole suonano di stizzosa superiorità. Si chiede invece rispetto per chi pratica quella che mio padre mi insegnò essere una nobile ed antichissima arte, legata all’uomo – al maschio – da sempre. Ma questo forse non lo può comprendere, perché la caccia non l’ha mai vissuta. Perché non prova anche lei?

  9. E’ assurdo: si valuta discutibile non mangiare carne, ma altrettanto discutibile ammazzare animali “inermi”?

    Provatevi voi a stanare e poi a colpire a volo una beccaccia nel sottobosco, oppure
    a restare calmi e continuare a puntare la carabina quando un verro (inerme?) da 120 kg vi punta e carica e poi ne riparliamo.

    In primo luogo gli animali selvatici non sono affatto inermi, lo sono molto più i polli in batteria o i vitelli da carne, ma detto questo, vi siete mai chiesti come si fanno le crocchette di pollo o la carne simmenthal?

    Ve lo dico io: si debbono ammazzare polli con un mese di vita decapitandoli con una mannaia o vitelli dai languidi occhioni, si procede con una pistola per mattazione dotata di uno spuntone di acciaio inox azionato tramite una cartuccia solitamente di calibro 380 con cui si perfora il cranio del capo da macellare.

    Uno splendido cervo fa una fine molto più nobile se ucciso adulto da un cacciatore con un kipplauf dopo una caccia nobile e antica che non morire modernamente azzoppato di vecchiaia con la carcassa divorata dai vermi.

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