Dicono che il vecchio Ermo non manchi una domenica. Sempre lo stesso banco. Sempre la stessa linea, la stessa marca di sigarette. Da quarant’anni, la domenica pomeriggio verso le cinque, dopo il consueto pisolino pomeridiano, lo si trovava là: conosceva la strada, non salutava nessuno, solo a volte un cenno muto del suo mento colto e malinconico. Tutti lo sapevano, tutti lo conoscevano, andava e veniva, come la primavera e la pendola di Schopenhauer. E nessuno più se ne curava.

La domenica sera al Tiro a Segno Nazionale l’ultima linea di tiro a cinquanta metri era occupata dalla carabina di Ermo, al secolo Ermogene Castoratti, per farla breve quello seduto con la camicia a quadri, la sigaretta in bocca e lo sguardo acquoso, intento a osservare immagini oltre il terrapieno di protezione laggiù in fondo alla linea di sparo, ovvero l’intero orizzonte, appena dietro al bersaglio forato dall’unico proiettile esploso.

Ermo era così, arrivava silenzioso, estraeva con movimenti lenti e meccanici la vecchia carabina dalla custodia, caricava il colpo e tirava. Un colpo. Poi si sedeva a fumare, d’estate beveva una birra gelata, gli occhi apparentemente persi nel vuoto, solitaria monade armata e, alla fine, spenta l’ultima sigaretta, riponeva l’arma con lo stesso immutato rito, poi, fatti i relativi cenni muti ai presenti, se ne tornava a casa propria. A volte, andandosene, canticchiava un motivetto simile a “When the leaf is on the tree”, ma chi può dirlo?

Col tempo, qualcuno aveva iniziato a prenderlo per matto, forse aveva un incipiente Alzheimer, dicevano persino tirasse un solo colpo perché aveva una sola rotella in testa. Altri, semplicemente, lo ignoravano. Faceva arredamento al profumo di tabacco.

Nel frattempo, ora dopo ora, tiro dopo tiro, sbuffo dopo sbuffo, il fragore dei colpi continuava, bossoli schizzavano e cadevano rotolanti qua e là. Esperti tiratori prodigavano silenzi e consigli ai più giovani, in un complice affare fra uomini, un tacito rito di quelli che, piano piano, si svolgono da sempre in quegli angoli di mondo che non sembrano patire i mutamenti della società, rifugi discreti di comportamenti antichi, di uomini di poche parole e respiri pazienti.

A modo suo, anche Ermo era un ricordo, non era solo arredamento plasticamente accomodato, Ermo era un ricordo vivente di un mondo che fu. Sotto la scorza del vecchio strambo dalle guance secche e la barba morbida, epifenomeno del tempo che va, trainato dalle instancabili giovenche delle stagioni, là sotto viveva un uomo.

Perché gli occhi lucidi di Ermo non erano persi nel vuoto come appariva invece agli altri, lui solo sapeva, ne custodiva nella mente la gelosia delle emozioni. Gli occhi azzurri di Ermo vedevano la sua Linda. La vedevano laggiù nei prati in riva al fiume, nella pura semplicità della sua camiciola a righe, ne seguiva il fluttuare tenero dei capelli sciolti, eternamente giovane nel suo incantevole sorriso.

Presente ancora, come può essere presente solamente l’amore, sentimento senza tempo.

Ricordava a memoria la poesia che le aveva dedicato, quarant’anni prima, una fuggente domenica pomeriggio, con l’ultima luce gialla di maggio fra i fili d’oro dei capelli della giovane. La scrisse di getto, sul retro del biglietto usato del treno:

Ti amo come un salice sul fiume.
Perché per quanto mi sforzi e mi pieghi e pianga,
tu scorri via.
In te vedo il mio riflesso, perché noi due siamo uguali.
Ti amo come il salice sul fiume laggiù,
oscilla, eterno, e mai lo toccherà”.

Non la rivide mai più. Il suo viso bagnato dal sole era il suo ricordo dolce e recondito, scelse non di non cercarla. Non sarebbe stato mai, mai più bello di così.

Non manca mai, la domenica, il vecchio Ermo al banco di tiro. Con la sua carabina, il fumo negli occhi e il resto dell’armamentario, refrattario alla ruggine e alla morte, se non al divenire che tutto divora.

Mi piace pensare che ami sentire lo sparo, il suo unico sparo, come se potesse ancora una volta controllare o mutare il destino parlandogli piano. O come se attendesse all’orecchio d’improvviso una voce, un richiamo gentile dell’unica voce che amava, o forse, chissà, ascoltava solo il colpo che serbava per sé.

Noi sciocchi ridiamo, scherziamo noi superficiali, andiamo di tanto in tanto a sparare per divertirci, perché ci rilassa i nervi o per non pensare ai problemi delle nostre fatue esistenze impiegatizie. Il rumore del ruscello, anche quando lo sentiamo, non ci ferma il cuore nel petto, non sa più espandere le nostre anime malconce, noi invecchiati male negli ultimi vent’anni di lavoro alla ACME. Noi che fummo conservatori in quanto progressisti che non avevano le palle di andare fino in fondo, noi che fummo poeti di un giorno, amanti di una notte, assassini mancati, giocatori perduti. No, tutti noi non lo vediamo nemmeno il poeta dalla barba grigia seduto nel fumo delle sue sigarette. Forse lui vede noi.

Ma, a differenza nostra, il vecchio Ermo in cuor suo lo sa, ancora un poco e la rivedrà.

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