di Piero Nicola

 

 

Chi ha detto che in Italia non abbiamo avuto il racconto picaresco? Le cronache di Frusaglia completate con Tutto Frusaglia (1931) ne sono valido esempio, unico esempio, almeno nella modernità; arricchito da un’originale fantasia descrittiva, specie riguardo alla natura e ai suoi fenomeni.

“Era dottore, ma lo chiamavano il Conte per non so che bicocca rugginosa e smerlata che egli aveva su un dirupo. Un gran tempo cattivo dentro gli occhi, un par di baffi da gatto forestiero, due stivaloni sempre fangosi anche d’estate (…) Era quello che sull’aia faceva piangere il figlio a pizzicotti e berrettoni.

“‘Che ha da piangere il suo figliolo, signor Conte?’

“‘Ma state zitti! S’è innamorato di quel galletto e lo vuol portare in casa, il briccone’.

“‘Uh, poverino!’

“E via, le contadine, a far la fuga al galletto per regalarlo al figlio del dottore (…)

“Nato di stirpe eroica, ultimo rampollo di una genia che, a dir suo, aveva messo a sacco e fuoco mezza Italia, faceva il medico condotto come un guerriero dell’evo medio: o ammazzava, o metteva fuori combattimento (…)

“Una sera, a mezza strada da Frusaglia, in una di quelle osteriacce, rossicce e scorticate fuori e un vino dentro da messa cantata, sotto uno di quei cieli a spauracchio che piacciono tanto alle anitre, parlava del tempo antico:

“‘Io vorrei essere un mio antenato (…) Viviamo invece in tempi da cresima, senza asperità, senza fama, senza cimento (…) Abbiamo fatto una guerra nel fango, guerra di malattia, senza slancio, senza bottini. Questa non si chiama vita, ma pentimento’”.

Il soggetto narrante è un irregolare, un poeta, cantore dei casi umani d’un paese tra agreste e libro tombarimarinaro, quasi estraneo al secolo, fervente in una tradizione plurisecolare. Le abitazioni, gli usi dell’agricoltura e della pesca, la cucina, la Religione provengono uguali da tempo immemorabile. Amori, tradimenti, caratteri spiccati, fantastici, si può presumere che siano sempre stati. Ma la penetrante attenzione di cui sono oggetto rende tutto fresco e nuovo, pur restando immutabile nelle passioni, nei mali e nelle virtù. Le automobili, i villeggianti e i turisti stranieri dell’estate, la ferrovia, accanto a quel mondo povero e ignorante, ma vivo e vero, scompaiono, allontanati dalla sua stessa sostanziale indifferenza. Si è parlato di polemiche contrapposizioni, a quell’epoca, tra strapaese e stracittà. Bubbole, riguardo a Frusaglia:  a sé stante.

“‘Arrostisci sempre, perché io possa battere come un diavolo’ comandava al garzonetto.

“Se avesse potuto, con la mazza [di fabbro] in mano, nudo il petto, scalare al tramonto le montagne, a sole caldo, avrebbe storto anche il sole.

“Ora non più. Simile ad un grande albero ardito cui un ragazzo, così per gioco, abbia piantato un chiodo nel tronco, egli immiseriva giorno per giorno. Soffriva di un male incerto, vago, sperduto. Aveva negli occhi non so che lontananze (…)

“Così scompigliata, la signorina Bice, con le vesti lacerate, pareva una nube di maggio passata tra una siepe di spini. Era pur sempre una nube e odorava di maggio.

“‘Senti, Elisa, ho pensato. Preferisco uno scandalo (…) L’avrò con uno scandalo”

La ragazza lo ama, ma è promessa a un benestante che non vuole. E lo scandalo ci sarà. “Quando la Bice vide il padre, la giunta e il sor Rolando (…) prese la testa del fabbro fra le braccia, e ne baciò in uno spasimo la bocca”.

Dominio del vocabolario, delle figure retoriche e verismo. Molti istruiti credono che dopo Verga occorra aspettare il neoverismo alla Pavese, con uso di espressioni vicine al dialetto, dello stile parlato che introduce al neorealismo. Non è così.

Cercherò di spiegare l’arte di Tombari. Quando si è in vena d’essere mattacchioni, portati dall’estro, ci si diverte col linguaggio candido e da sempliciotti, che mette anche l’ascoltatore in una condizione di superiorità. Si dicono cose argute, sapienti, efficaci, con l’apparenza della casualità, dell’ingenuità. E’ un gioco. Si presume che un’ebbrezza ci renda poeti. Tombari ci riesce davvero, a suo agio. E non bara. Sublima la realtà con la sua narrazione sempliciotta, colorita e tutt’altro che facile. Ma lascia il gioco scoperto, offre al lettore l’intesa. Invece ce ne sono che hanno adoperato o adoperano il parlato senza sottinteso, come se dietro la semplicità ci stesse proprio un semplice ispirato, e non un autore con tutto il suo sapere, la sua abilità e, spesso, il suo sudore.

D’altronde, egli ci fa vedere il mondo coi suoi occhi per sua natura appuntati sulle vivezze, franchi, incantati e disincantati ad un tempo, colmi del regno animale, vegetale, celeste e marino, e pieni di una calda umanità; con una naturale compiacimento nel colorire.

Tuttavia Frusaglia, densa di immagini, di invenzioni, di compendiosità da meditare, va presa a piccole dosi, centellinata, o si rischia di fare indigestione. Il bel virtuosismo impareggiabile, fitto di iperboli, di scherzo, è più che accettabile, ma, dipendesse da me, ne farei una cernita antologica. Perché no? Anche dei grandi si considera il capolavoro, e il resto vien relegato tra le cose minori. Perché non estrarre il fior fiore?

Scavezzacollo, incostante negli studi, il protagonista lavora e cambia lavoro, in terra e imbarcato; va in guerra, ma – dice – non sarà la guerra di trincea a guadagnarlo all’eroismo. Reduce, prende il diploma delle magistrali. Dopo breve esperienza di maestro in un paesetto sperduto sullo scabro Appennino, torna in famiglia. Intanto scrive, si propone agli editori milanesi. Frequentando una palestra di pugilato, covo di malaffare, viene coinvolto in un processo, assaggia la prigione, ne esce scagionato. Giunge la pubblicazione della sua raccolta delle Cronache, e l’insperato premio, la fama.

Ne La vita (1930), che ricevette il Premio dei Dieci, egli stende buona parte di questa sequenza autobiografica, poi integrata e ultimata con L’incontro (1960).

“Mariolina piangeva di rado, e io a badarla mi divertivo. Le parlavo come si parla ai gatti, le facevo il solletico sotto la gola; poi stancandomi, la infilavo in qualche buco a miagolare o a sbizzarrirsi come più le conveniva”.

Sarà il suo grande amore, infelice non già per contrasti insanabili, ma in primo luogo per quel male d’amore imponderabile, che colpisce quelli che ne provano la felicità. A un’eletta creatura che non dico, troppo in alto il suo nome, bassi i miei rozzi fantasmi. Questa la dedica del suo primo libro.

“‘Buona Pasqua’ mi sorrise Maria sorgendomi al fianco. Le presi una mano a trarla dalla calca: sentii che scottava. Era come se avessi incontrato l’essere mio celeste, la mia vera anima”.

“Quando fui felice non ebbi più pace.

“Troppo ristretto a contenerla, a comprenderla, la felicità quando arriva, se non si è maturi ad accoglierla… (…) ‘E se ti tradisse?’ Poiché io ero sudicio, tutto era sudicio”.

Egli è scapestrato, sensuale, la tradisce e la fa soffrire. Lei no, religiosa, modesta, casta, bella e malata; morirà mentre lui è a Roma a raccogliere il riconoscimento della sua fatica letteraria. E non potrà mai perdonarselo.

Anche sua madre è devota, egli invece, immerso nel Creato, stenta a darsene ragione. Come tanti che vogliono comprendere la Verità autonomamente, e già prevenuti contro il clero e il dogma, la sua conquista cerebrale, metafisica attraverso un animo poetico, andrà un po’ fuori strada, sfiorando il panteismo e la gnosi, dopo aver compreso che il mistero del male nel mondo, responsabile Iddio, si risolve nel sacrificio e nella sua offerta che ci è data. Questa parte finale dell’Incontro è forse la meno bella, la più insistita.

Prima dell’epilogo, egli ricorda la sua vicenda civile.

“Presi parte alla guerra civile.

“Io così contrario alle opinioni, fui per la più stolta e difesi i violenti.

“Non fui per la libertà. Fra la libertà e la patria scelsi questa, e perdetti quando la patria perdeva.

“Non m’opposi alla caduta del tiranno (era già caduto,) mi opposi al tradimento.

“Quando la legge è con gli ipocriti, meglio esser con la verità fra i ladroni.

“La mia condotta non soggiaceva a una costrizione, sorgeva da una ribellione. Dio non accende il fuoco, ma lo semina: così ogni uomo, o prima o poi, per bruciare le scorie dovrà ardere (…) Denunciato, braccato, (la casa incendiata e fucilato in effigie)…”

Barabba: “Chiunque sia: ieri come oggi, quel popolo che ha assistito indifferente al massacro dei suoi figli migliori, andrà ogni sera a piangere al cinema per degli eroi da burla”.

Allorché nel 1944 il fronte attraversò le Marche nella sua salita implacabile e distruttiva, egli, da profugo, riparando al Nord, scrisse una Lettera aperta a Bendetto Croce. “Giuro di scrivere senza ombra di animosità (…) Dio è molto buono quando, distrutta in noi ogni sopportazione, ci spegne con l’odio anche il dolore, fino a renderci un nulla e metterci carne ed anima alla sua mercé (…) Ed io lo ringrazio ora che mi sento più vicino a Lui”. “Siamo uomini, signor Croce, e tutti ci lasciamo prendere dall’animo anziché dallo spirito. Così presi dall’odio per Mussolini – e magari qualcuno dalla gelosia e fors’anche dall’invidia, chissà – si è voluto abbattere l’idolo e lo si è abbattuto. Ed ora eccoci qui: la massoneria ha vinto e la libertà ci è piombata addosso con la casa. Ma ne valeva la pena, ditemelo voi!” “Infine, massima bestemmia contro lo Spirito, si fa ideale del tempo all’indietro: dovremmo andare a ritroso, dall’oggi all’ieri, a ierl’altro”. “Non c’è niente di celato che non dovrà rivelarsi: se è grano nascerà grano, se gramigna nascerà gramigna”. “Ma intanto ditemi perché noi, proprio noi dovremmo negare e rinnegare noi stessi e renderci soggetti a stranieri…” “Ma parliamo di guerra: per quanto tremenda e ingiusta possa essere non sarà mai così spaventosa come quella pace che già si vuole e si esalta”. “… l’arte non la concepiscono se non effimera purché chiassosa e di effetto immediato; e già parlano di frusta e bastone, e peggio ancora di educarci a mezzo di quelle università di cui potrei dire qualcosa di personale e piccante, se fosse lecito ridere”. “Se questa lettera sortirà l’effetto di richiamare gli italiani se non a un destino a un dolore comune, sarò felice d’averla scritta dovessi morirne”. “Non crediate che io voglia mostrarvi da una parte gli eletti e dall’altra tutti i reprobi. No: quella è propaganda per i gonzi; e davanti a Dio bisogna stare con dignità”. “Non voltatevi, signor Croce, non andate al passato. Egli [Dio] è qui. Ci è davanti. Non pensiamo più al vecchio, pensiamo all’antico semmai, all’eterno. Distruggere l’uomo vecchio per il nuovo, ecco ciò che vuole da noi”.

Fabio Tombari, ragazzo del ’99 passato a miglior vita nel 1989, compose altre opere: La morte e l’amore, Le fiabe per amanti, Il libro degli animali, I ghiottoni e, nel dopoguerra, un nuovo insieme di novelle in Pensione Niagara (1969), dove lo stile diviene più sobrio, e al paese talvolta si alterna la città.

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