“FASCISTELLI”, DI STEFANO ANGELUCCI MARINO – recensione di Gianandrea de Antonellis

recensione di Gianandrea de Antonellis

 

 

lrDopo la pubblicazione di Cuori neri (Sperling & Kupfer) di Luca Telese, toccante ricostruzione delle violenze subite dai militanti di destra negli anni ’70, si sono seguite numerose rievocazioni di quel periodo e praticamente tutti i protagonisti della lotta politica “neofascista” hanno detto la loro.

A fianco di tali memoriali c’è stato anche un tentativo – a dire il vero non riuscitissimo – di usare la letteratura per far conoscere una realtà nascosta: è stato il caso del romanzo Io non scordo di Gabriele Marconi (pubblicato prima da Fazi, poi da Moiméme), che attraverso le vicende di alcuni ragazzi di Terza Posizione vuole dare voce ad una interpretazione della strage di Bologna diversa da quella della vulgata ufficiale (la pista del terrorismo internazionale).

Va notato che la maggior parte dei libri usciti ha analizzato la destra extraparlamentare, parlando del Msi solo di sfuggita: evidentemente ricostruire la storia del partito in questione risulta meno affascinante delle vicende di coloro che avevano scelto la lotta armata.

Fascistelli, romanzo breve di Stefano Angelucci Marino, rompe con la rievocazione degli anni ’70 per concentrarsi su un periodo successivo, l’inizio degli anni ’90, e per la prima volta – Pennacchi a parte – mette il Msi al centro dell’attenzione. Ma non si tratta di uno scritto elogiativo, anche perché il partito di cui si parla è quello di Fini, volto a un disfacimento che avrà come suo sbocco naturale la creazione di Alleanza Nazionale (non lo scriviamo in sigla per non confonderlo con un altro movimento politico di “destra”, di ben altro spessore e degno di tutt’altro rispetto).

Vittorio Brasile è un “fascistello”: cioè non è un fascista, visto che il PNF-PFR è finito nel 1945; e non è neppure un neofascista, dato che la stagione degli anni di piombo si è definitivamente chiusa quando il ragazzo si affaccia alla vita politica. Ma per uno studente che frequenta gli ultimi anni di liceo all’indomani della caduta del muro di Berlino, disgustato dalle giustificazioni imbarazzate dei marxisti, ma nemmeno incline alla mentalità capitalista che sta prendendo piede, omologando tutto e tutti, ed insofferente alla “dittatura” democristiana, non rimane che rivolgersi a quella che sembra l’unica forza politica vicina ai suoi ideali: il Msi.

È dunque solo un “fascistello”, un ragazzo che non fa certo paura come gli squadristi coi manganelli o come gli estremisti con le pistole, ma al quale non si riconosce neppure una valenza ideologica rispettabile: solo un “fascistello”, innocuo e da disprezzare – o, al massimo, da pestare.

Nella sezione missina del suo paese, la gloriosa Civitella del Tronto, Vittorio Brasile incontra “tipi” che si sarebbero ritrovati in pressoché tutte le sezioni della Penisola: l’anziano (e un po’ rimbambito) reduce della Rsi, simbolo della continuità con il Fascismo “vero”; il “tradizionalista” evoliano, unico ad avere un pensiero – anche se mena una doppia esistenza fatta di slanci ideali (nella vita politica in sezione) e di compromessi con la realtà (nella vita privata a casa); i ragazzotti con poco cervello e molti muscoli, sempre pronti a vantarsi delle proprie (inventate?) conquiste femminili; e il segretario, una figura perfettamente delineata, unico consigliere comunale del partito e che è, suo malgrado, al centro del discorso politico del romanzo.

Vittorio è un idealista (e non potrebbe essere altrimenti, alla sua età) e con la sua intelligenza e la sua passione non tarderà a diventare il braccio destro del segretario: vede quindi da vicino l’inevitabile (e coerente) svolta di Fiuggi; assiste alla nascita di un nuovo soggetto politico non dal palco di un congresso in cui si parla di grandi strategie e di alte questioni nazionali, bensì dai banchi del consiglio comunale in cui si agitano semplicemente sordidi interessi di parte. L’onestà, la credibilità missina viene comprata dai caporioni democristiani – siamo in Abruzzo, feudo elettorale di Remo Gaspari – per far dimenticare Tangentopoli e rimanere al governo locale; e il segretario del Msi decide di appoggiare i nemici di sempre, quelli per cui si era battuto durante tutta la propria esistenza, in cambio di un assessorato e di qualche appalto.

Vittorio deciderà allora che non esiste più (almeno nell’ex Msi) una politica ideale, sostituita dalla semplice gestione del sottobosco del potere, a cui non sono estranee tragedie familiari e vicissitudini personali. Non c’è più il fascismo, non c’è più il neofascismo, non c’è nemmeno posto per quei ragazzi che accettavano l’epiteto di “fascistelli”, pur di dimostrare il proprio rifiuto del sistema. Meglio tornare alla vita quotidiana (fatta di studi nella speranza di un futuro lavoro e, soprattutto, di una futura famiglia) che lasciarsi impelagare nei maneggi di quegli ex missini che, grazie ad Alleanza Nazionale, rivelano la loro più intima essenza: essere stati, con poche eccezioni, soprattutto “democristiani mancati”.

La scrittura di Stefano Angelucci Marino, affermato autore teatrale e qui alla sua prima esperienza narrativa, conduce efficacemente il lettore in un mondo politico al di fuori dei riflettori mediatici. Chi ha conosciuto una sede del Msi vi ritroverà figure ben note trattate con corrosivo umorismo; chi ne è rimasto fuori ne verrà a conoscere i vari aspetti, riuscendo sempre e comunque a godersi la penna corrosiva dell’Autore, ironico e disincantato, e capace di cogliere elementi risibili o grotteschi in tutta la galleria di personaggi che propone (tanto che l’adattamento teatrale sembrerebbe uno sbocco naturale dell’’opera).

E alla fine, soprattutto per coloro che vent’anni fa erano idealmente vicini a Vittorio Brasile, rimane l’amarezza di constatare che – a Civitella come a Milano o a Benevento – la maggior parte dei missini erano nulla più che “democristiani mancati”.

 

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