di Piero Nicola
“Ahimè, l’uomo non mira che a’ sorrisi
dell’effimere cose e non s’avvede
quali maschere son, e quali sien visi.
“Fortunato, se gli persiste fede
per illudersi ancor dopo deluso
e non s’attende a più alta mercede!
“Ché un dono è la vita già per sé concluso,
dono di un Dio che a celebrarLo il canto
e a mirarLo ci diè faccia e non muso”.
Le tre terzine, tratte da una poesia di Rime dell’amicizia (Mondadori 1943, ristampa del 1960) compendiano il rimettersi dell’artista a Dio ineffabile, irraggiungibile, al suo misterioso dono di vita. Con esso, la creatura tenterebbe invano di afferrare il segreto della creazione, di uguagliarla con le proprie composizioni. Con esse, egli deve contenersi celebrando il Creatore, contemplandolo, se non vuol seguire la caduta di Lucifero, nella vanità e nella disperazione.
Scolari e studenti cresciuti al tempo della ricostruzione sulle macerie di case, fabbriche, opere pubbliche, avevano modo, tra i conforti loro offerti dalle antologie, di attrezzarsi con i versi e le prose scelte di Francesco Pastonchi (1874 – 1953).
Il suo curriculum ci prende poco spazio. Nato in un paese della Riviera vicino a Sanremo, da padre toscano e madre ligure, crebbe e si laureò a Torino. Nel 1902, aveva già pubblicato il volumetto di liriche Italiche, aveva collaborato a La Stampa e cominciava ad essere critico di poesia sul Corriere della Sera. Su questo giornale egli scriverà sino alla morte. Frattanto, vedono la luce altre raccolte di versi da lui perfezionati nel senso classico; reca in Italia e all’estero le sue dizioni, soprattutto letture dantesche; il suo unico romanzo Il violinista riscuote un buon successo; è nominato professore di lingua e letteratura italiana all’Università di Torino e membro dell’Accademia d’Italia; è autore di tre lavori teatrali.
Da un mio vecchio libro di testo Letteratura e Tecnica per gli Istituti tecnici superiori, ricavo un brano da un pezzo a sua firma, sotto il titolo Festina lente:
“Specie voi che non credete alla vita, missione da compiere per un fine ignoto di là da noi e da ogni nostro intendimento, a che vi serve correre? Progresso. Ambigua parola. Progresso… in qual parte di voi? A me sembra che tanto più vi illudete progredire da un lato, più regredite dall’altro […] Le distanze terrestri? Minime, minimissime, imponderabili: e le celesti, quelle percepibili ai nostri sensi, anch’esse. […] E non vi avvenne mai di pensare che la massima velocità è raggiungere se stessi? […] Uomo creatura antinaturale, contraddittoria! Sogni la gioia, e ti procuri la tristezza; ti presumi logico e vivi illogicamente. La tua unica salvezza è creare, essere artista, a immagine del Creatore sommo, a immagine di Dio. Ma oggi hai confuso anche questo segno spirituale, divino, e t’imbestî nel senso. Domani riconoscerai il tuo errore: ti ravvedrai. Felici quelli che assisteranno a tal ravvedimento”.
Pastonchi andò, da pensatore, sino all’estremo dell’orizzonte artistico. Non contentandosi dell’estetica, ne smontò le tecniche più raffinate non perdonando una certa perfezione di canto accorato o di cerebrale compiacimento, che annullavano il vero trascendente, negavano Dio. Raggiungimento da lui operato, nel tempo, essendo passato attraverso l’intellettualismo e l’ammirazione di maestri e colleghi alquanto agnostici o rivolti alla gnosi. Ci tornerò sopra tra breve, considerando il suo Ponti sul tempo del 1947.
Mi soffermo ancora sulla ricordata antologia della mia verde età, per rilevare, in articolo di terza pagina, un altro volto dell’uomo votato alla rettitudine. Egli allibisce quando, dal libraio, sente un tale che si lagna perché i volumi ordinati, sebbene li abbia urgentati, tardano ad arrivare. Il libraio crede di mettere in pace l’incredulo professore dicendogli che urgentare è entrato nell’“uso comune tra gente d’affari”. L’aneddoto serve a dare la stura a una requisitoria, dapprima, contro le spicce e brutte abbreviature, anche quelle che “non contraddicono alle regole della nostra lingua”, come è per i disastrati (i profughi dell’alluvione nel Polesine), e poi biasimando la moda di “scrivere come si parla”, eventualmente mettendosi al riparo della presunta lezione del verismo manzoniano.
“Ah! Don Alessandro, di quanto mal fu matre quella vostra preoccupazione linguistica! Non il vostro grande romanzo: il quale portava già in sé, prima di sciacquare i panni in Arno, una soluzione […] e apriva una nuova era al nostro linguaggio. Né certo I Promessi Sposi vennero scritti come si parla; anzi misurati, ritmati interiormente […] Ma non della vostra mirabile scioltezza […] voglio intrattenermi […] Altro mi preme, cioè rivolgermi a taluni scriventi d’oggi. Vedano essi quanto avviene in quella Francia che è stata sempre un poco loro maestra, ed è tuttora con un misto di americano; in quella Francia che, gelosa della sua letteratura […] e più quando sembra ribelle e arruffata al massimo, sotto sotto invece cura l’espressione, per decenza di scrittura […] Conoscere e usare correttamente la propria lingua è un dovere cittadino, un serbarsi fedele alla propria gente. Una lingua è una bandiera. Chi la rinuncia si sbanda, imbarbarisce. Non v’è scusa, politica o sociale, che l’assolva: tutte le ragioni capziose vadano alle forche. La lingua che mi fu data […] che nasce dal mio sentimento e dal mio intelletto armoniosamente accordati, non si può tradirla senza snaturare se stessi, rinnegare la propria origine, la propria stirpe, la propria famiglia […] Colui che, uomo d’affari, ostenta il suo praticismo con lo sbrigarsi velocemente anche nel parlare, si avvia a diventare non un europeo o un uomo di specie universale, ma semplicemente un paria della civiltà […] Finora tutti i tentativi di unicità sono rimasti senza seguito, perché una legge di vita, e non si abolisce, è la varietà. Anche una lingua rappresenta il tenace prodotto di un clima, di un Paese, e non si trapianta”.
Pastonchi ammette che sempre fu dato “il predominio della diffusione a una delle lingue formate, secondo la maggiore attività della sua gente. Così avvenne per l’italiano…” Ma ciò “non disturba il campo di ciascuna altra lingua, se anche le sciacqua ai bordi e infiltra qualche vocabolo. Apporti di che una lingua, riconiatili seguendo la propria indole, si arricchisce. L’arte (un linguaggio è un fatto artistico) le fa buona guardia”.
Ponti sul tempo riunisce ricordi di personaggi conosciuti (Carducci, Pascoli, Gozzano, Valery, Voronoff, Puccini, la Duse…) intessuti di pagine scorrevoli e nobili su motivi letterari moderni e antichi. Vi emerge il fiore di una vita di artista tra artisti, il raffinamento di critico umanista, il gusto della vivente classicità, sanata e risolta nel Creatore.
Per un’andata in scena dell’ottocentesca commedia di Giacosa Tristi amori: rilettura e rivivere un’epoca, una comunità all’ombra d’un campanile. Emma, madre e moglie, non si strappa dalla figlioletta e dalla sua casa per seguire l’amato, essenzialmente “perché lì si è formata e lì si deve irrigidire e dissolversi”. L’annotazione prosegue addentrandosi in quel mondo: “cose che ancora nel Novecento, intorno al quattordici, non erano molto mutate. Le mutò la guerra. Lo spacco avvenne in quel punto: benché, a considerarla, anch’essa la guerra appaia una risultante da molte cause concorrenti, massima questa che la vecchia società aveva tanto abbassato il suo centro di gravità, dall’ideale al pratico, che barcollava e doveva cercarsi un nuovo equilibrio”. Di contro, Pastonchi rivà alla “cara provincia d’un tempo”, dove: “che riposo quel sapersi di tutti, già collocati, senza sorprese, ciascuno al suo ufficio, e alla messa in Duomo la domenica insieme orando”. “Certo la signora Emma ha avuto dal suo ‘triste amore’ momenti di segreta ebbrezza che non avrebbe conosciuto nella facile distrazione di una grande città; e avrà patito il suo sacrificio [sebbene il marito acconsentisse alla separazione] in un’offerta e in un superamento di se stessa che la innalza. E poi mi viene un pensiero matto: che questo crederci diversi, oggi, sia un’illusione, perché più si ampliano i limiti materiali più si allungano i tentacoli del desiderio, e il rapporto non muta. Provincia ristretta di allora, provincia aperta d’oggi, piccola o grande città… il vivere dentro noi è medesimo: medesimi i combattimenti gli odi gli amori, e forse là, in più strette mura, più difficile ma più eroico il perdono e più prossime le altezze, quelle altezze che l’anima ha da raggiungere in un suo grado angelico, se si voglia lasciar dopo di noi una forma che valga”.
Il poeta-professore frequenta i vertici della mondanità. A Ginevra si festeggia la chiusura stagionale delle sedute alla Società delle Nazioni. Dopo il ricevimento ufficiale, egli pranza con un coriaceo mercante di cannoni, con Lucienne, disincantata canzonettista parigina, e con l’oratore francese Briand. Annoiata dell’aria di Ginevra, ella dice: “Questa vostra Società delle Nazioni… quelle tromperie!… Un panache gris sur des affaires”. Naturalmente l’amabile Briand le dà torto. Rimasto solo con il mercante d’armi, che confessa di non avere patria (“Sono nato su un piroscafo. La mia patria è nel mare. La terra mi spaventa. O viverci pastore, sulla montagna, lontano da tutte le vostre capitali infette”) e ha giudicato “già una riuna il nuovo Palazzo della Società delle Nazioni”, Pastonchi gliene chiede il perché e se pensi “che tutto ciò non sia che una rappresentazione vana, un gioco, un’utopia”. È peggio: “Voi, poeta, credete alla favola della pace. Io non posso. Conosco troppe cose, il fosco retroscena di questa farsa. Qui si traffica per la preponderanza di due nazioni. Voi comprendete. Lucienne ha dato una definizione esatta: un panache gris sur des affaires. Presto non sarà più grigio ma insanguinato […] altro che la rovina di un palazzo. Una catastrofe…”
In strada, il conoscitore dei retroscena si è appoggiato alla casa di Calvino, e il suo compagno glielo fa notare. La risposta: “Io sono cattolico, per caso. Con queste belve d’uomini, come potrei avere una religione? Eppure il mondo ha bisogno di fede”.
Da allora Pastonchi lo perse di vista. Finché: “Ieri uno che tornava dalla Costa Azzurra, e fabbrica macchine da guerra, mi diede, tra le altre notizie, questa, che il famoso mercante di cannoni… era morto improvvisamente in un albergo di Montecarlo”.
Pastonchi ebbe una calda simpatia per Gozzano, recensì i suoi libri, rifiutò la classificazione del poeta nel crepuscolarismo, lo vide più volte lungo il tormentato cammino e all’inaridirsi della sua vena. I passi dedicati a quelle interviste, ai commoventi incontri, sono tra i migliori di Ponti sul tempo. Egli gli attribuisce “persistite malinconie con febbrili impeti di desideri (particolari alla specie della malattia) ma su tutto una vigilanza dell’intelletto, una visione delle cose così nitida da parere talvolta atroce […] per cui è verità il suo verso ‘sorrido e guardo vivere me stesso’. E che altro avrebbe potuto fare, poiché vivere come gli sarebbe piaciuto non poteva? La sua rassegnazione è di forza, con una conquistata saggezza che annulla le ribellioni. Il suo tempo non gli offriva idealità per cui, anche malato, combattere spiritualmente cercando di seguitarle. Nato nel 1883, era cresciuto in un’aura di praticismi rivolti alla creazione della ricchezza più quale possesso che quale strumento: nume il denaro, e, suoi templi pesanti, sovraccarichi di fastose architetture, le banche. Carducci respira ancora nella sua grandezza, ma ansando e invano crucciato delle deluse invocazioni a una nuova Italia […] Impera D’annunzio, il D’Annunzio edonista, della vita goduta […] Tutta la gioventù ne segue il barbaglio”.
Vicino a deporre il respiro e la spoglia, Guido Gozzano giaceva nel convento di Subiaco. Padre Dogliotti “assisté il poeta per le estreme devozioni”. Avendo sotto gli occhi la lettera che il religioso ha inviato a Silvia, cara amica e confidente dell’ormai celebre Guido, per informarla sui suoi ultimi giorni, Francesco Pastonchi sottolinea una frase che non riesce a condividere. “Giungere con le mani vuote di doni dinanzi al suo Signore a cui avrebbe voluto offrire più che solo un povero avanzo di vita”. Padre Dogliotti vi premette che quando il morente aveva detto “Peccato!… ora che mi avvicinavo…” non udì “altro lamento da lui: non era preoccupazione della sua opera che lasciava immatura e incompiuta, né rimpianto della gloria che gli aveva arriso”, ma si rammaricava di aver mancato di ordinare a Dio i doni del suo talento. Tuttavia “anche così era contento”.
Il nostro interprete ritiene invece che “la fede, che illuminò le ultime ore” del caro Guido fosse “già in lui nascosta sebbene inconfessata e non regolata secondo dogmi […] come esiste nel fanciullo” che è all’apparenza indifferente e blasfemo. “E come dunque la sua poesia, quella vera che di lui ci avanza, non sarebbe un dono, se non da colmargli le mani, da non lasciarle vuote d’offerta dinanzi al suo Signore?”
La tesi è alquanto sdrucciolevole, non regge all’oggettività. Uno scritto senza Dio, non saranno bellezza e cari sentimenti da soli a riscattarlo, ma potrà trarre in inganno chi abbia l’inclinazione a ingannarsi. Ad ogni modo, sarebbero occorse diverse avvertenze e censure. Bisogna pure notarlo. Pastonchi ricorre a Cavalcanti e Guinizello, due Guidi gentili, che qua e là non tralasciano il cielo e il suo Re, e a loro associa il “terzo Giudo”. Il parallelo sa, più che altro, di letteratura.
Segnalo il capitolo ove compare una riunione di: alcuni pittori, uno scultore, un poeta piemontesi, in vivace conversazione intorno alle diverse arti. Stanno sulla modesta terrazza di casa Delleani a Pollone, sopra una collina del Biellese che è propaggine d’alto monte e sovrasta le terre digradanti alla Pianura Padana. La scena dei convenuti e le digressioni da essa nel tempo e in luoghi, danno la misura della perizia artistica dell’autore e, insieme, della sua abilità descrittiva.
Delleani: “‘Infine io non capisco niente delle pitture degli altri’ ride ‘e nemmeno della mia’.
“Non capisce niente. È un uomo in contatto con la natura. Questa lo afferra e gli comanda, e se lo tocca ben dentro, allora… Un sincero. Può illudersi sulla profondità dell’impressione, non sulla realtà: non c’è mai in lui pensiero d’utile, di fare per un fine. Fa perché deve. Dipingere ogni giorno imperterritamente gli è un bisogno come respirare. Di buon mattino se ne va come un cacciatore in cerca di un motivo: non sa quale; aspetta che gli capiti a tiro. Si pianta là davanti al suo paesaggio, apre il suo sediolo, siede con la cassetta aperta sulle ginocchia e l’assicella infissa nel coperchio e dipinge. Per cogliere l’attimo in veemenza schiaffeggia i colori con la spatola. Esaurito il fervore, se ne torna a casa carico d’opera, lietamente. Non distingue, non giudica”.
Sul finire del libro, abbiamo la schermaglia garbata, spesso sotterranea, tra il memorialista e Valery, durante un soggiorno di costui in quel di Sanremo. Anche nel lucido, sofisticato costruttore di composizioni scettiche quanto abbaglianti, egli scova e tira alla luce l’umanità. “Mi confessava per bocca del signor Teste [personaggio uscito dalla mente di Valery, e che ne rispecchierebbe l’animo ideale], già assolvendosi calmo dell’empietà: ‘Io confesso di essermi fatto un idolo del mio spirito; ma non ne ho trovato un altro’. ‘Perché ti sei rifiutato di cercarlo con umiltà’, risposi io, in me”.
Un altro giorno: “‘Caro signor Teste,’ lo salutai riconoscendolo e dandogli del tu come a un autentico fantasma, ‘lo so che sei tu il sognatore di tal mostro. E mi rallegro per tanto e perseverato sacrificio all’irrealismo. Ne hai articolato la tua ragion d’essere, il tuo allibito dramma, la tua grazia in agguato. Ma sei troppo testimone di te stesso […] un cervello allo specchio. Parli troppo col tuo medesimo. Ora codesti dialoghi da sé a sé, quando non mirano altamente tragici alla ricerca di Dio come nei grandi santi, minacciano di parer narciserie […] Qualche volta sento di te un’ammirante pietà come per oppresso titano. Ma non posso, scusami, che riesortarti: Sii più uomo, rientra nell’azione; non guardarti più vivere, vivi. Altrimenti resterai sempre un mito letterario’.
“Teste dondolava il testone sorridendo obliquamente, e pareva ripetermi con un persuaso compatimento: Mon impiussance est mon origine, mon impiussance est mon origine”.
Altrove: “‘Ditemi, dove risiede la sovranità di un’aquila? Nelle ali. Ebbene sapreste immaginare un’aquila con sole ali, senza artigli che predino, becco che divori, stomaco, ventre che digeriscano? Sarebbe mostruoso. Ecco, io definisco la poesia pura il mostro tutte ali’”.
Tra le immagini poste al termine del ponte scavalcante il passato, innanzi all’imminente sconquasso della guerra è ritratto nientemeno che Churchill sulla terrazza d’un ristorante di Antibo (Antibes), prospiciente il lido balneare, “affacciata lì sopra come una tolda”. Pastonchi vi reca l’impressione della stele commemorativa d’una danzatrice quindicenne che saltavit et placuit (danzò e piacque). Egli viene dal museo in compagnia del “più amabile degli arciduchi russi”, che partecipò all’uccisione di Rasputin. Nella variopinta e discinta mondanità, i divi di Hollywood, i personaggi del gran mondo fanno una figura artificiosa e, in fondo, misera al cospetto dell’antica sponda mediterranea, segnata dalla classicità greco-latina. Solo Orazio, l’amico napoletano, che “si gode in quella schiuma esotica, e insieme scanzonato la morde”, mette una nota genuina in quel self-service cui partecipa il primo ministro inglese, e nella “banda” che, salita dalla spiaggia, “cerca vuole divertirsi, agganciata dalla noia”.
La tempesta bellica è trascorsa, “finito un mondo, e senza gloria, per sempre”; egli incontra per caso Orazio “spaesato peregrino”.
“Francesco mio, ti ricordi di Antibo? E la tua danzatrice, non l’hai più rivista?”
“Ma sì, la rivedo” egli dice e pensa. “Non s’è più partita da me. E finalmente ha ripreso a danzare […] Veramente avvertivo, senza definirlo, oltre le dure parole guerriere, un che d’aereo sorvolare le ruine e la strage. Veramente una speranza gentile resisteva, nell’ora truce, ricingendo di circoli ritmici la giovinezza lanciata a combattere. Ella era quest’aura: latino spirito solare, divina misura che superandoli accorda odio e amore. Ella è che ora io vedo sfiorare nei riposi col volubile piede la fronte del vinto”.