Non fu vera gloria  –  di Piero Nicola

Lo scorso 17 aprile è morto lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez. Pace all’anima sua. Si è colta l’occasione per celebrare, una volta di più, questo personaggio, insignito del Premio Nobel 1982, come uno dei massimi artefici della letteratura contemporanea, nonché come autorevole pensatore, intervenuto nella politica attiva internazionale. Il romanzo che gli valse fama e universali riconoscimenti fu Cent’anni di solitudine (1967). Dopo di che, quest’opera rimase il suo capolavoro. Su di essa perciò mi soffermo.

di Piero Nicola

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zz100nnsltdnPoiché i giudizi entusiastici espressi da critici, stampa, saggi e libri scolastici nei confronti di un romanzo e di un autore determinano un fatto culturale di grande rilievo, che influenza il sentire di generazioni e l’intera vita civile, è doveroso cercare di mettere a punto le inerenti valutazioni  obiettive, facendo riferimento ai valori incrollabili.

Come sempre, occorre distinguere i due aspetti. Quello stilistico e quello ideologico. Il primo presenta, qui, elementi che indubbiamente accrediterebbero la definizione di capolavoro. Vi si trova, entro il cosiddetto realismo magico, un formidabile virtuosismo nell’uso dei sinonimi, l’ammirevole creazione di originali metafore, il sapiente dosaggio delle espressioni, che solo talvolta indulgono alla tendenziosità (pure esistente nel contenuto) e, specie verso la fine, scadono nella scurrile e nell’osceno. Ma il miscuglio di vero e di fantastico più o meno allegorico, per quanto vigilato, non evita che il realistico appaia sovente incongruo e inverosimile.

  Quanto alla struttura, l’andamento della narrazione è piuttosto quello del racconto (racconto interminabile di circa 400 fitte pagine) episodico e frammentario. Infatti, manca quasi completamente la descrizione di un fatto che sia ben sviluppato per ambientazione, per svolgimento e dialoghi, e viene meno uno sciolto filo conduttore della storia singola come di quelle parallele. I dettagli significativi non mancano, ma sempre nell’ambito d’una rapida successione degli avvenimenti. Inoltre si riscontra un abuso delle anticipazioni, cui seguono ritorni alla vicenda che, cronologicamente, le ha precedute. Ne consegue che, nonostante la meraviglia delle invenzioni stilistiche sovente sorprendenti al pari delle sorprese narrative, la lettura risulta faticosa, se non monotona, almeno per il lettore comune. Lo dimostra la puntuale inserzione di richiami e collegamenti.

  Riguardo allo stile, sono innumerevoli coloro che ne diedero prove eccellenti e superiori, soprattutto restando nel classicismo, nella linearità, nell’apparente semplicità. Per fare un esempio impressionante, Liala e Milli Dandolo dimostrarono una suprema abilità in questo campo. Del resto, lo stile non è che un mezzo, adeguato alla materia elaborata. E se, si può convenire che la materia di G. G. Marquez è quella di un’umanità sanguigna, passionale, esuberante, propria delle popolazioni latino-americane, tuttavia il Nostro non era forzato all’uso del realismo magico, perché esso si addice alla franca ironia, alla farsa, alla parodia, al tema epico, piuttosto che a quello drammatico e sociale. François Rabelais, che in un certo senso inaugurò il realismo magico, Cervantes, Swift, generalmente non vengono citati in proposito. Gli americani che descrissero il violento e picaresco Sud degli U.S.A, ne fecero a meno. Il fantastico, qui, a ben vedere, costituisce iperboli che eccedono le realistiche situazioni, le fantasie e le allucinazioni dei personaggi. D’altro canto, realismo magico è una contraddizione in termini.

  Pertanto, anche sotto l’aspetto estetico, la composizione del Marquez reca difetti e non è dato osannarla, elevandola a mitica scrittura.

   Il tema del libro è quello di una famiglia di pionieri entro la vasta Colombia, i quali, a capo di una comunità, fondano il villaggio di Macondo in una regione sperduta e circondata da terre paludose o inospitali. Il capofamiglia José Arcadio Buendia, sotto le suggestioni di Melquiades, uno zingaro sapiente e mago che gli procura un laboratorio di alchimia, si dà a ingenui e gravi esperimenti, a spedizioni che porterebbero a raggiungere le invenzioni del progresso.

  “Sfiniti per la lunga traversata, appesero le amache e dormirono profondamente per la prima volta dopo due settimane”.

  Vien da pensare alle avventure de Il destino si chiama Clotilde (1941) di Giovanni Guareschi, ambientate in Sudamerica, di certo, scevre di drammaticità, ma alle quali l’irreale conviene molto meglio.

  La moglie Ursula è il perno responsabile della casa. I figli José Arcadio (caparbio e privo di immaginazione) e Aureliano (sveglio già prima di nascere, futuro capo rivoluzionario) continuano nell’inclinazione agli eccessi e alle stravaganze ereditata dal padre. Nell’ambiente disordinato e inizialmente affatto senza Dio, si respira un’aria da Far-West, dove alle sregolatezze e alle dissipazioni latine si mescola il sopruso e l’arbitrio. José Arcadio ha un figlio illegittimo, Arcadio, da una donna libera. Poi scompare invaghito di una zingarella. Aureliano diventa orefice. Le autorità tentato di stabilire l’ordine governativo. Aureliano s’innamora della figlia novenne del correggitore. Intreccio di amori, di matrimoni, di fidanzamenti, di tresche, di gelosie, di rapporti con prostitute. Arrivo di forestieri, del prete, scandalizzato dall’incredulità degli abitanti. Prodigi miracolosi di dubbia origine. Contrasto politico tra conservatori e liberali. Aureliano conduce la rivolta. Dopo anni di guerre, piene di atrocità, egli cede al compromesso propiziato dai politicanti del suo partito. Intanto si ripete la vicenda delle nascite, dei matrimoni, degli adulteri. Entra in scena una moglie di Aureliano, figlia di alta nobiltà castigliana, decaduta e cattolicissima, presentata in una luce impietosa. Intanto una Compagnia bananiera nordamericana ha fatto affari con le piantagioni sfruttando la manodopera. Il governo l’ha difesa con una strage operata dai soldati. Col passare del tempo, è come se tutto ciò non fosse avvenuto. Macondo ricade nella sua solitaria povertà. Infine i figli della nobildonna tralignano rispetto alle sue aspettative, non smentendo il sangue dannato della folle stirpe dei Buendia. Si sono susseguiti i bagordi, le morti dei giovani, dei vecchi e dei vecchissimi, senza sacramenti, nell’indifferenza di chi scrive, che pure osserva e commenta.

  L’autore introduce momenti e periodi di felicità negli amori leciti e illeciti, nei vizi delle fornicazioni. Egli conclude con un determinismo inaccettabile: la stirpe era condannata a cento anni di solitudine, ossia di vite e fini sconsolate e non redente.

  Ogni essere umano, anche per via ereditaria, possiede una natura d’un dato tipo, ma la peggiore che gli sia toccata non è mai una condanna, perché la grazia divina soccorre tutti, i quali possono e devono trarne profitto.

  Veniamo dunque al significato, al risultato. A questo punto s’impone di ribadire un chiarimento essenziale. C’è un preconcetto che va assolutamente demolito e capovolto. Giacché esiste un punto di vista e l’opera artistica non è un’oggettiva registrazione di personaggi e di fatti, si presume che il punto di vista cattolico condizioni e menomi l’opera stessa. È esattamente il contrario. Una visione anticattolica o indifferentista costituisce una privazione della verità innegabile, e perciò inficia e rende ingannevole il lavoro pubblicato.

  La maggior parte dei presunti geni e maestri della letteratura agisce così? Pazienza. La bontà delle cose non appartiene al mero giudizio del mondo.

4 commenti su “Non fu vera gloria  –  di Piero Nicola”

  1. Carla D'Agostino Ungaretti

    Finalmente trovo il coraggio di dire pubblicamente che quando, circa trent’anni fa, presi in mano il libro, non riuscii ad andare oltre la pagina 50, tanto mi sembrò noioso. Ma guai a dirlo, all’epoca! Tutti sembravano ubriachi di Garcia Marquez. Potenza delle mode! Ora ho scoperto che molti della mia generazione, diventati più vecchi e più saggi, hanno avuto la mia stessa impressione.

  2. Sì, Cent’anni di solitudine fa buona compagnia a Il Nome della Rosa nel bagaglio culturale delle mezze calzette… Queste letture piacevano molto alla borghesia-veramente piccola-piccola- degli anni Ottanta… Dimentichiamoli rileggendo Guerra e pace, Anna Karenina, ecc.

  3. Dionisio di Francescantonio

    Anche giudicandolo solo dal punto di vista letterario, “Cent’anni di solitudine” non è grande letteratura, e certo nemmeno buona nel senso etico a cui fa riferimento Nicola (anche se ci sono molti scrittori, specie in epoca moderna, capaci di scrivere bene senza essere anche buoni maestri; questo purtroppo bisogna riconoscerlo). Quando uscì piacque ai radical chic che non hanno mai saputo distinguere tra vera arte e arte fasulla perché viziati dall’ideologia. Infatti a quel tempo tutto ciò che arrivava dall’America del sud per loro era valido perché da lì venivano anche i fermenti rivoluzionari che amavano tanto. Chi è abituato da sempre a frequentare la buona letteratura non si fece ingannare, a dispetto del conformismo culturale che imperava allora come oggi.

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