GIOVANNI ANSALDO. ALLA RICERCA DELLA BUONA VITA – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

Di molti personaggi si dice che resero autenticamente la vita di un secolo, per i loro profondi addentellati con esso, per averne penetrato le trasformazioni, per aver oltrepassato le epoche che attraversarono riandandone il passato, prevedendone il divenire, comparando le nuove vicende, segnate dal progresso, con la ricorrente vicenda della storia umana, invariabile nelle sue discese e nelle sue possibili risalite.

ansaldoGiovanni Ansaldo può essere annoverato come uno di loro. Nato nel 1895, respirò, nel crogiolo tradizionale della sua famiglia genovese, l’aria dell’Ottocento, dalla sua città mercantile proiettata nel vasto mondo; respirò nell’antica libreria casalinga, nei rapporti con le prozie e col prozio, imponente rappresentante delle professioni liberali, l’emanazione d’un impasto di cattolicesimo, liberalismo, monarchia: tutto il travaglio ottocentesco; donde risalì, sempre per tramiti aviti, al rasserenato clima settecentesco dell’Antico Regime. Nella sua maturità, egli avrebbe meditato e dispiegato le radici borghesi da cui mai si distaccò.

Non che egli, nella sua sterminata produzione di giornalista e di elzevirista, nello scrivere memorie, una biografia di Giolitti e altri saggi, abbia registrato eventi e atmosfere con distacco documentario perfettamente equilibrato, e osservando la scala dei valori rapportati al divino dettato. Il pretendere tanta precisione spassionata trascenderebbe la condizione dei mortali. Però il nipote dell’omonimo fondatore della prima fabbrica di locomotive del Nord Italia, godette d’un grande spirito critico, accentuato sino al pessimismo e allo scetticismo, tuttavia temperati dalla consapevolezza, dall’aperta confessione, che ci mette sulla buona strada del comprendere.

“La famiglia dov’io nacqui era numerosa e complicata di parentele e gerarchie. C’erano mio padre e mia madre, i più giovani e i più allegri; c’erano le mie prozie, donne di garbo, che hanno profumato la mia infanzia colla loro pietà e colla loro letizia, e c’era, su nell’empireo, il barba Luigi […] ziissimo mio; il barba per antonomasia; personaggio noto in tutta Genova per la sua valentia di chirurgo, per la immacolatezza perentoria delle sue camicie […] Ma al di sopra di barba Luigi, e al di là dei parenti vivi, c’era ancora, più alta, più rispettata, più indiscutibile, la gerarchia dei parenti più vecchi, morti; primi fra tutti, il nonno Giovanni Ansaldo, quello che aveva fondato ‘lo stabilimento’ […] e, un poco in disparte, lo zio Francesco Ansaldo, il barba Checco, quello che aveva onorato la casa con gli studii ed ornata coi libri”. Questi, funzionario di prefettura, aveva redatto una edizione critica del Caffaro, preziosa raccolta di annali medioevali.

Figlio di comandante di transatlantici, cresciuto nella vicinanza dei vicoli centrali, che, insieme alla domestica, lo collegava al popolo, egli conservò il culto della colta, disciplinata, capace e industriosa borghesia tradizionale, nerbo della società. Il sentimento della società così imperniata non lo abbandonò; lo soccorrerà dopo il giovanile accostamento al socialismo progressista, al libertarismo. L’essere stato capo-redattore de Il Lavoro genovese, collaboratore de La Rivoluzione liberale di Gobetti, non ne fece un militante politico. Da smontatore dello spirito romantico come del dannunzianesimo, arriverà a considerare la sequela Risorgimento, socialismo (deamicisiano, riformista o rivoluzionario), liberalismo radicale, nazionalismo e fascismo, uno svolgimento del pensiero privo di stabilità ed estraneo specialmente alla sostanza dell’animo nostrano. Egli rinverrà nell’Ancien Régime – e lo sosterrà col tatto e la cautela dovuti alle circostanze – il migliore dei mondi possibili. Ma, essendo esso irrecuperabile – invero dimentico dell’inquinamento illuministico fin da allora penetrato nei regni – si adatterà all’ordine stabilito da uno solo, dopo essere stato antifascista, essersi buscato una legnata in fronte e aver provato il confino a Lipari.

Esplorando la storia della fatidica libreria dello zio Checco, a questi tramandata da Ambrogio Laberio, egli viene a conoscere lo studioso, Magnifico del Doge, divenuto membro del giacobino Consiglio dei Sessanta, e poi fedele di Napoleone. “È lui che dal fondo dei suoi scaffali mi ha insegnato a disprezzare le vociferazioni democratiche di tutti i Consigli dei Sessanta. È lui che, adagio adagio, mi ha fatto capire che, in certi periodi tumultuosi della vita di un popolo, non c’è altro spediente, per assicurare le vecchie librerie, che il governo di uno solo. È lui che mi ha condotto, con le persuasioni dei lunghi pomeriggi in penombra, con le seduzioni dei lunghi silenzi sulle meditate carte, ad essere partigiano convintissimo del governo stretto. Gli amici, che scherzosamente mi hanno accusato di essere un reazionario, non sanno quanto dicono giusto; perché il mio consigliere intimo, è, oggi più che mai, un Magnifico del Settecento, disilluso di una breve esperienza democratica, e voltosi a Napoleone per disgusto dei giacobini” (1934).

Dal diario, ottobre 1932: “La democrazia presenta assolutamente lo stesso carattere delle code allo sportello; è una coda allo sportello del potere. Per arrivare al potere – cioè allo sportello – la distinzione di idee, di sentimenti, di tratti è una differenza inespiabile. Coloro che sono colpiti da questa deficienza è inutile che si presentino allo sportello. Ci sono forse – tuttavia – degli uomini privilegiati, che riescono quasi a sdoppiarsi, a nascondere la propria distinzione di sentimenti e di idee, come si nasconde una malattia segreta, e a farsi largo dinanzi allo sportello. Essi hanno la fortuna di poter compensare i pregi innati con i difetti acquisiti”.

Il suo disincanto ideologico gli consente di inserirsi validamente nel sistema, di cui un poco alla volta sarà partecipe; finché, nel 1935, al tempo della guerra di Abissinia, egli si arruola nell’esercito (era già stato ufficialetto, già interventista, alla Grande Guerra sul fronte francese), e viene destinato in Libia. Il che gli ottiene i titoli per accedere al posto di direttore de Il Telegrafo, il livornese giornale del Conte Costanzo Ciano. Di suo figlio Galeazzo, ministro degli esteri sino al febbraio del 1943, diviene il giornalista e l’intrinseco. Con lui e per lui gira l’Europa nelle sue alte sfere, mandando i sui articoli dalle capitali.

Diversi direttori di quotidiani e di periodici, smessa la carriera di inviati e lontanissimi dalla gavetta di cronisti che li aveva calati tra la varia umanità, sono dei Toro-Seduto, frequentano il giro intellettuale e dei salotti, trattenuti lì. Ansaldo viaggiò molto, vide da vicino e, suo malgrado, passò per molte vicissitudini.

Negli anni della guerra parlava alla radio tenendo la rubrica Avvenimenti e fatti del giorno. Dopo l’arresto di Mussolini, il 25 luglio 1943, tornò volontario nell’esercito, dove già aveva frequentato un corso per ufficiali dello Stato Maggiore. A Ragusa, in Dalmazia, l’8 settembre fu deportato in Germania. Il rimpatrio, alla fine del conflitto, gli riservò un’altra prigionia a Procida, in compagnia di proscritti fascisti. L’amnistia lo restituì alla moglie e ai tre figlioletti, pressoché ridotti in povertà, quantunque il capofamiglia fosse proprietario di immobili. E dalla villa di Pescia, che avevano potuto conservare, lo scrittore riprende le sue collaborazioni, si dedica alla composizione di libri firmati con pseudomini (Il vero signore, 1947; Latinorum, 1947), aiutato da Longanesi; rafforza L’Illustrazione italiana di Garzanti, redige belle pagine sull’attualità e su vari argomenti, stende recensioni. È richiesto, è conteso, ma si muove coi piedi di piombo; resiste, nella precarietà del mestiere, conscio che il passato grava su di lui; prima, avendo cambiato pelle: da anti a pro regime; successivamente, a causa dei suoi radiofonici discorsi di guerra, che il campo di concentramento nazista e il rifiuto di rientrare nella repubblica del Duce, non sono valsi a cancellare.

Il Natale del ’45, si accusava d’aver peccato sempre di orgoglio: “Bisogna mi sforzi di essere, finalmente, cristiano”.

Ma continuò a vedere nero, in quel dopoguerra fazioso, insensibile alle ferocie, inaridito. Sempre nel diario, ricorda d’aver aderito alle cause perse (durante il 1924-25, quella della democrazia; poi, quella della guerra). Ciò si dovette alla volontà di tener fermo, sino all’estremo, quantunque sovente con scarsa convinzione.

Biasima gli americani, le loro rappresaglie, i loro giornali truculenti e il loro pubblico: “una democrazia da Colosseo”, dove la plebe accorre a vedere il sangue, e adesso anche gli impiccati di Norimberga.

“Siamo, in realtà, degli uomini dell’Antico Regime, siamo troppo italiani… disgustati – anche noi – del mondo nuovo che sorge dalle piatte e monotone distese delle democrazie anglosassoni; eserciti in marcia verso la conquista del mondo”.

Sintomo del fallimento è una libertà di stampa assai libertina. Ciò nondimeno, egli si rassegna alla attuale supremazia, che occorre contenere stando sullo stesso terreno. “Perciò siamo democratici” conclude. E sosterrà De Gasperi, prima e dopo la sconfitta del Fronte popolare di Togliatti e di Nenni; mentre si disputa la lotta tra “il totalitarismo di tipo russo e quello di tipo americano”.

Più avanti ripete, quale lungimirante: “La democrazia è in tutto il mondo uno specchietto manovrato da due totalitarismi colossali (quello russo e quello americano) e da noi c’è un paio di minchioni che ci crede sul serio. Il mondo va più che mai verso regimi di assoluto comando e di dura obbedienza, e noi bamboleggiamo col nostro gran principio che ognuno ha diritto di parlare”.

Disistima il Croce, essendo un uomo di non buoni sentimenti.

Pearl Harbor: Roosevelt fece il possibile perché i giapponesi perdessero la testa. Subito dopo l’attacco, egli apparve allegro.

Si sente l’intesa con Leo Longanesi, e giunge naturale l’apprezzamento per Guareschi e Il Candido.

I liberali hanno rialzato la testa e tramano contro la DC e la Chiesa. Sono i prodromi della contesa faziosa che spodesterà De Gasperi, porterà il Centrosinistra, il Sessantotto.

Visto il cattivo uso della critica politica, egli si ritrova “illiberale”.

“Il giornalismo non è mai stato basso come ora”. Fortuna che non arrivò alle soglie del Duemila!

“I gerarchi erano dei monumenti, in confronto a questi portieri di scuola civica”, ossia i protagonisti della rinascita civile.

“La insensibilità pubblica [agli scandali] è il fatto dominante, che spiega come questa repubblica possa essere più corrotta e venale del regime fascista – e di molto – senza che nessuno reagisca efficacemente”.

Qualcuno, leggendolo, intopperà in qualche suo parere discorde, divergente, per lo più, a distanza di tempo. Chi di noi non è incappato in simili cedimenti? Io ho seguito la regola di attenermi ai giudizi ripetuti e importanti.

Nel 1949, esce la sua opera maggiore, Il ministro della buona vita. Egli vi ha apposto il suo nome. Il titolo polemizza con la definizione di Giolitti “ministro della malavita”, dovuta a Gaetano Salvemini.

Nel figlio di antichi funzionari sabaudi, d’una stirpe che aveva molto in comune con la sua, Ansaldo vede colui che si fece strada da sé nell’amministrazione dello Stato, prendendo dai suoi l’esempio, assimilando la buona linfa del ceppo. Saldo, tenace, volitivo, accorto, apparentemente avido di potere, il leone di Cavour, o di Dronero, o con gli appellativi spesso sprezzanti con cui venne chiamato, pervenne a governare l’Italia a lungo, prima della Grande Guerra, ad onta di Crispi, di scandali, di freddezza nei rapporti con Vittorio Emanuele III. Egli seppe manovrare elezioni e parlamento, riuscendo dittatore democratico. Il suo biografo insiste su questo concetto.

Il suo biografo crede di poterlo assolvere dalle imputazioni di compromesso, di calcolo e manovre viziate da ignobiltà. Dubita che la politica possa essere morale, e pecca non prendendo in considerazione le azioni giustificate da una giusta causa, non distinguendole da quelle inammissibili. Altra pecca: la conduzione della buona vita, favorita da un periodo di espansione tecnico-economica, se per virtù di Giolitti, tollerante verso le agitazioni fino a un giusto segno, mantenne il popolo savio nel suo complesso, non lo sollevò abbastanza dalle miserie immeritate, né lo sollevò spiritualmente. Ansaldo ha il torto di svalutare quei moti ideali, cui contribuì la chiamata alle armi nel 1915, trascurati da Giolitti; in seguito, sfuggiti al suo controllo. Ansaldo sbaglia a fare d’ogni erba un fascio, e deve, altrove, riconoscere la forza feconda delle idee non disprezzabili.

Il declino di Giolitti è noto: disgustato delle mene partitiche, di un parlamento peggiorato e inetto, scelse il fascismo; e vi si contrappose quando esso raggiunse il suo sviluppo autoritario.

Ma il pregio magno del libro sta nel panorama storico, che esso offre armonico ed esauriente. L’autore ci si è impegnato, e la riuscita soddisfa, si prova il godimento della lettura agevole e sostanziosa.

Donde, allungando un passo, entriamo nelle belle lettere, nel puro raccontare. Non so se Ansaldo avesse ragione di ritenersi un narratore di corto respiro, incapace di costruire un romanzo. So, per certo, che narratore lo fu, e di vaglia!

Lungamente, scansò gli inviti a comporre dei volumi con i racconti, con i ricordi, con le argute e brillanti colonne di terza pagina, con i pezzi pubblicati a decoro delle riviste. Lui dipartito, Marcello Staglieno lo trasse dall’oblio curando un’edizione del suo Dizionario degli italiani illustri e meschini dal 1870 a oggi; scrisse una postfazione a Il vero signore, riedito, e una introduzione a L’antifascista riluttante. Memorie del carcere e del confino 1926-1927. Renzo De Felice curò il Diario di prigionia 1944-1945. Giuseppe Marcenaro raccolse in due volumi, Vecchie zie e altri mostri (dicitura assai discutibile) e Il fiore del ricordo, un florilegio dei componimenti letterari; all’inizio del secondo millennio, fece pubblicare altri due volumi dei Diari.

Aggiungo i restanti titoli dai quali s’indovina il contenuto: In viaggio con Ciano, Passeggiata napoletana, L’Italia com’era, Gli eredi di una Duchessa.

Da una rimembranza di sé giovinetto, accompagnato dal padre al museo di storia naturale, esce il significativo ritratto del direttore, classificatore dei reperti recatigli dalle spedizioni oltremare.

“Tutti i più audaci pionieri della colonizzazione italiana – dal Sapeto al Bottego – lo conobbero di persona, o furono in relazione con lui. Questo professorino piccolo, minuto, tutto lindo nella persona e negli abiti, precisissimo nelle espressioni, con due occhietti celesti pungenti, era un personaggio nel salotto della villa delle Peschiere, a Genova, dove il Doria accoglieva tutti gli africanisti di allora […] E quando i viaggiatori mandati dalla Società Geografica erano in Africa, e faticavano per raccogliere esemplari di animali rari, e per tirarsi dietro le casse delle raccolte, sapevano molto bene che a Genova c’era quel tale professore, così e così, il quale avrebbe pensato poi lui, al loro ritorno, a far figurare il loro lavoro nei congressi, negli atti scientifici; avrebbe pensato lui – se lavoravano bene – a consigliare al ‘Signor Giacomo [Doria]’ di affidare a loro l’incarico di un’altra spedizione. Finché tra quegli uomini, lanciati nella steppa somala e tra le ambe abissine, non ce ne fu uno – il più grande di tutti – che ebbe l’idea di onorare l’uomo di studio rimasto a Genova, in un modo estroso e gentile. Fu Bottego che ebbe questa idea. Durante l’esplorazione del Giuba, il Bottego trovò due affluenti del gran fiume che erano disponibili per ricevere dei nomi nuovi: ed allora, egli, laggiù nella steppa somala, si ricordò del ‘signor Giacomo’ e del professor Gestro, che gli avevano fornito i mezzi per la spedizione, e gli avevano preparato gli strumenti. E chiamò i due fiumi equatoriali, l’uno uebi Doria e l’altro uebi Gestro”.

I racconti sono in gran parte dedicati alla città natale, alle navigazioni moderne, della vela e antiche, afflitte da stenti e malanni, avventurose. La scrittura è fresca e armoniosa; ad ogni passo, sapida e dilettevole.

Come procedette la carriera del Nostro? Come terminò la sua parabola terrena? Nel 1950 egli andò a dirigere Il Mattino di Napoli, alla cui testa rimase per quindici anni, proseguendo a scrivere per Il Borghese.

Accedette all’offerta avanzata dal Banco di Napoli, proprietario del quotidiano, e da due alti esponenti della Democrazia Cristiana, a condizione di non dover sottostare a critiche come ex-fascista e di non dover andare contro i neofascisti. Nella lettera di accettazione, afferma di non rinnegare il suo passato, né i suoi vecchi compagni di strada, verso i quali non ammetterà invettive e ironie. Riguardo alla richiesta di accettare la Costituzione contraria ai fascisti, egli, pur acconsentendo, si riserva di citarla a sua discrezione.

Quanto alla fede, un brano de Il tafano (1926), illumina il suo sentimento:

“Storia eterna dei tafani e dei liberi pensatori: Si ronza, si ronza, sotto il sole, ubriacati dal rumore delle proprie ali; e giù, delle grandi capate contro le pareti delle chiese, e appena si presenti carne di prossimo, qualche puntura. Poi, ad un tratto, una grande stanchezza; il lago del silenzio davanti agli occhi, le rive dell’Indulgenza, le spiagge del Perdono, aperte e distese; si finisce per intingere due dita nell’acquasantiera e si vorrebbe finire la vita, così, naufragando in questa coppa d’acqua immobile e calma, ristretta come ogni opera d’uomo, ampia come la Grazia di Dio”.

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