PREMESSA
15 aprile 1944 – 15 aprile 2012
In occasione dell’anniversario dell’assassinio di Giovanni Gentile, pubblichiamo questo saggio di Lino Di Stefano, che ci illustra il percorso filosofico di questo grande protagonista della cultura italiana.
Ministro della Pubblica Istruzione, dall’ottobre del 1922 al luglio del 1924, nel governo presieduto da Mussolini, e senatore del Regno dal novembre del 1922, aderì al fascismo, ma non fece, dopo il periodo ministeriale, attività politica, dedicandosi agli studi e alla promozione e organizzazione d’imprese culturali (tra cui l’Enciclopedia Italiana, di cui fu anche il direttore scientifico). Aderì alla Repubblica Sociale Italiana e nel novembre 1943 fu nominato presidente dell’Accademia d’Italia.
Uomo mite e generoso, si adoperò soprattutto per la salvezza della Patria e per la riconciliazione tra gli italiani. Anche nel periodo della guerra civile Giovanni Gentile non si stancò di cercare ogni via perché si spegnesse l’odio fratricida e l’Italia potesse ritrovare sé stessa nella concordia. Si adoperò personalmente, e lo stesso fece la sua famiglia, per evitare o almeno limitare gli eccessi e le rappresaglie, da entrambi i fronti.
Questa sua indole non poteva non renderlo inviso a chi voleva invece perpetuare il clima di odio, funzionale alle proprie mire di potere. Giovanni Gentile, filosofo di sessantanove anni, che viaggiava senza scorta, per sua scelta personale, disarmato, fu ucciso a colpi di pistola da un commando dei GAP, i gruppi terroristici che, al soldo del Partito Comunista, portarono innumerevoli lutti in un Paese già martoriato dalla guerra. Il filosofo fu ucciso nella sua automobile, mentre tornava a casa, a Firenze, per il pranzo. Era il 15 aprile del 1944. Bruno Fanciullacci, l’assassino, gli sparò quattro colpi di pistola, e poi fuggì in bicicletta, coperto da un complice che si era fermato poco distante a fare da palo. L’autista fece una disperata e inutile corsa all’ospedale, dove fu il figlio di Gentile, medico, a constatare la morte.
L’incredibile medaglia d’oro attribuita a Fanciullacci, e la falsificazione storica costruita su di lui, non possono mutare di una virgola il giudizio morale su quello che altro non fu che un crudele omicidio, che non aveva alcuna giustificazione nemmeno per esigenze belliche, e che fu deprecato dai partiti che componevano il CLN, con l’ovvia eccezione del PCI, mandante del crimine. Con pessima usanza, che tante volte si sarebbe ripetuta, il crimine comunista fu accettato e coperto, come “fatto compiuto” e per non mettere a rischio “l’unità” dei partiti che componevano il CLN. È doveroso ricordare che al crimine non fecero seguito rappresaglie da parte fascista, perché in tal senso si adoperarono i familiari di Giovanni Gentile che, pur nello strazio di una morte così crudele, non scordarono quanto il filosofo aveva incitato gli italiani alla concordia e alla pacificazione.
PD
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GIOVANNI GENTILE A 68 ANNI DALLA MORTE (1875-1944)
di Lino Di Stefano
Pensatore di prim’ordine, Giovanni Gentile affrontò tutte le questioni dell’umano sapere tant’è vero che si può dire, senza tema di smentita, che la sua dottrina si presentò come una vera e propria ‘mathēsis universalis’, insomma, una visione ‘totius scientiae’, considerato che nessun aspetto del sapere, segnatamente letterario e speculativo, sfuggì alla poderosa mente del filosofo.
Da perfetto hegeliano – anzi, per dirla con lo studioso Biagio De Giovanni, “non per caso, egli è il vero ‘hegeliano’ del Novecento italiano” – Gentile intuì che occorreva portare alle estreme conseguenze risolutive la logica e la dialettica. Tema già affrontato dai discepoli di Hegel e, in Italia, ‘ex professo’, da Bertrando Spaventa il quale intravide nella ‘Fenomenologia’ del filosofo di Stoccarda il punto di partenza per una interpretazione gnoseologistica del sistema. Egli aveva, com’è noto, proclamato che dall’unità dell’essere e del non-essere scaturiva il divenire una volta ammesso, però, che dall’essere, concepito come niente, e dal non-essere, inteso sempre come niente, scoccava la scintilla del divenire.
Ed ecco le testuali parole del filosofo tedesco: “Il niente considerato come codesto immediato eguale a se stesso, è il medesimo che l’essere, la verità dell’essere come del niente e perciò l’unità di entrambi. Questa unità è il divenire”. Ma le aporie insite nell’espressione hegeliana erano già state individuate da Trendelenburg, Fischer e Spaventa il quale col celebre ‘Frammento inedito’ – pubblicato per la prima volta proprio da Gentile – si avvicinò più degli altri alla soluzione migliore, anche se solo Gentile, col famoso saggio ‘La riforma della dialettica hegeliana’, condusse a soluzione il processo iniziato da Hegel.
Ma che cosa diceva il ‘Frammento inedito?’. Ciò e cioè che “l’essere – parole di Spaventa – l’oggetto è essenzialmente logico, pensabile, in sé pensato. In altri termini lo spettatore è ancora attore”.
Sulla falsariga tracciata da Spaventa, si mosse Gentile rimproverando Hegel di non essere riuscito a dimostrare come dall’unità dell’essere (puro essere) e dal non-essere (mero niente), potesse sprizzare, l’espressione è di Gentile, “la scintilla della vita”.
In altre parole, il filosofo tedesco s’illuse di far derivare l’immediato dal mediato sebbene, poi, non si sbagliasse nel ribadire che la realtà è processo, palpito, movimento, in ultima istanza, divenire. Ma quando egli parlò di logica e natura quali antecedenti dell’Idea, non fece altro che immiserire l’autentico significato della sintesi a priori kantiana e dimenticare, di conseguenza, che la sintesi precede l’analisi e non viceversa. Non solo. Il filosofo tedesco reputava che il divenire sgorgasse dai momenti dell’essere e del non-essere laddove, come maggiore esattezza, per Gentile, soltanto il divenire è l’atto della mente con cui quest’ultima pensa sia l’essere che il non-essere.
Ragion per cui, rimanendo la sintesi l’unità originaria fondamentale, il vero divenire possibile non è quello hegeliano – srotolantesi dall’analisi alla sintesi -, bensì quello attualistico incentrato sulla sintesi. Questo perché, parole di Gentile, “prima è l’atto, unità sintetica a priori”.
Ciononostante, il filosofo di Castelvetrano non rimase esente da rilievi i quali vennero proprio dai discepoli più vicini al Maestro, ad iniziare da Ugo Spirito e da Armando Carlini. Il primo, accusò il padre dell’attualismo di aver imprigionato in una formula la dialetticità dello Spirito, il secondo, dal suo canto, fece rilevare all’autore del ‘Sommario di pedagogia come scienza filosofica’ di non essere riuscito ad aver ragione dell’alterità. E veniamo al problema della logica intimamente concatenata alla dialettica; dialettica che Hegel si era illuso di risolvere in maniera definitiva, mentre, a detta di Ugo Spirito, non era riuscito a “risolvere quella con sè stessa”.
La logica gentiliana, trattata in tanti lavori, trovò la sua più alta estrinsecazione nei due volumi del più volte menzionato ‘Sistema di logica come teoria del conoscere’, notoriamente, “opera maggiore”, secondo un altro estimatore del pensatore siciliano, e vale a dire Vito A. Bellezza. Talmente opera maggiore che lo stesso Gentile, nella Prefazione del saggio, scrisse che essa costituiva “un punto pel quale bisognerà passare”.
Due erano le finalità che il filosofo siciliano si prefiggeva di raggiungere. Per un lato, superare l’intellettualismo insito in ogni concezione volta a porre l’oggetto fuori del Soggetto pensante, visto che la “vera concreta realtà è il pensiero in atto”, l’affermazione è sua; per l’altro, colmare l’abisso che nella storia della filosofia del secondo decimonono s’era aperta fra l’antica concezione analitica del pensiero definita nella logica aristotelica e la nuova dialettica dell’idealismo inaugurata da Kant e sviluppata da Hegel”.
Il punto di partenza di Gentile, riguardo la logica, è il seguente e, cioè, “tutto il pensabile (…) in quanto oggetto del pensiero è logo astratto; in altri termini, il logo concreto, sempre per il filosofo, “è il solo pensiero a cui guardi la logica”. Questo perché il Pensiero è non solo universale e necessario, ma pure sintesi di logo soggettivo e logo oggettivo. Insomma, soltanto risolvendo il logo astratto nel logo concreto è realizzabile l’autocoscienza e vale a dire l’unità degli opposti costituenti la vera filosofia.
Visione squisitamente unitaria, questa di Gentile, talmente unitaria che nel suo ambito trova la più compiuta unificazione il problema delle categorie le quali sono infinite a patto di risolversi in una, ovverosia nella “categoria del pensiero pensante”. Categoria che è autoconcetto, sintesi a priori, in definitiva, identità di opposti. Ora, una volta ammesso che la logica formale, cioè dell’astratto e del pensato, è sterile in quanto mero momento del concreto, è necessario riconoscere che anche la logica del concreto è tributaria della logica dell’astratto.
La ragione è semplice. La vita del pensiero è tale, cioè autentica, solo se scaturisce dal nesso soggetto-oggetto, pensante-pensato, concreto-astratto; in questo modo, anche l’ ‘altro’ acquista significato nel senso che, per un verso, il concreto deve contenere l’astratto e, per l’altro,parole di Gentile, l’ “alterità dell’oggetto è (…) la vita del soggetto”. In tale maniera, la posizione gentiliana colma la dicotomìa tra la logica aristotelica e la logica hegeliana – facendole diventare una sola logica – e, di conseguenza, per servirci di una felice immagine del filosofo attualista, riesce a far “zampillare l’identico dal diverso”.
A questo punto, bisogna affermare che il sistema di Gentile non si esaurisce soltanto nell’ambito squisitamente teoretico per il semplice motivo che esso affonda le radici anche, e soprattutto, nella sfera socio-economica e politica. E ciò, dal lontano 1896 allorquando sulla Rivista ‘Helios’ di Castelvetrano, il ventunenne studente, un anno prima della laurea, discute intorno ad un argomento allora di attualità e vale a dire intorno alla questione sociale. E, appunto, ‘Arte sociale’ si intitola l’articolo del giovane studioso il quale ne parla, ‘ex professo’, specialmente quando ammonisce, testualmente, che l’ “opera d’arte non è solo quella dell’artista che ritrae la società; ma anche quella che ritrae l’anima onde schiettamente prorompe”. Ma la chiave di volta del citato articolo consiste nell’asserzione gentiliana – ripresa, in seguito, nell’opera ‘La filosofia dell’arte’ (1931) – secondo la quale “l’arte è l’espressione piena d’un contenuto. Il contenuto può essere vissuto dall’artista con la società sua, e può esser vissuto soltanto da lui”.
Il pensatore riprenderà tali essenziali temi ne ‘La filosofia di Marx’ (1899), ne ‘I fondamenti della filosofia del diritto’ (1916) e in ‘Genesi e struttura della società’ (1946, ma redatta nel 1943). Ecco perché possiamo sostenere, con forza, che Giovanni Gentile è e rimane non solo un illustre pensatore metafisico, ma pure un innegabile filosofo sociale; merito, quest’ultimo, riconosciutogli un po’ da tutti i migliori studiosi e, di recente, da uno dei traduttori, in lingua francese, de ‘La filosofia di Marx’, Andrè Tosel. Il quale mette in luce, giustamente, nella Prefazione del libro, voltato col titolo ‘La philosophie de Marx’ come “la philosophie italienne est la seule philosophie européenne à s’être mesurée à Marx”.
Naturalmente, anche Labriola, Mondolfo e Croce si confrontano col pensiero marxiano, ma, a detta sempre di Andrè Tosel – coautore con Gérard Granel della menzionata traduzione – “le Marx de Gentile a conditionné toute l’interprétation de cet auteur en Italie, de Mondolfo à Gramsci et audelà”. Non dimentichiamoci che lo stesso Lenin valuta il saggio giovanile di Gentile degno di riflessione, testuale, “per alcuni importanti aspetti della dialettica materialistica di Marx che normalmente sfuggono all’attenzione dei kantiani, positivisti ecc.”.
Eppure il giovane studioso, pur rivalutando, nel suo studio, Marx filosofo, alla fine, definisce, icasticamente, la concezione del rivoluzionario di Treviri, come “uno de’ più sciagurati deviamenti del pensiero hegeliano”. Tornando ‘in medias res’, aggiungiamo che ne ‘I fondamenti della filosofia del diritto’, Gentile delinea, con maggiore chiarezza, la propria visione sociale dalla quale apprendiamo, per la prima volta, la distinzione fra ‘societas inter homines’ e ‘societas in interiore homine’: la prima, empirica e con lo sguardo rivolto solo ai gretti interessi egoistici, la seconda, per converso, incentrata sui valori spirituali e, ‘qua talis’, moderna perché esente dai limiti individualistici che favoriscono, ‘more oeconomico’, l’hobbesiano ‘bellum omnium contra omnes’ oppure il plautino ‘homo homini lupus’. Il filosofo attualista mantiene, durante la sua mortale esistenza, sempre vivo l’interesse per la tematica sociale – basti, al riguardo, dare un’occhiata ai tanti articoli e saggi apparsi su quotidiani e riviste – quantunque l’orizzonte socio-politico più alto lo raggiunga con l’opera postuma ‘Genesi e struttura della società’, terminata nell’agosto del 1943 – “in giorni angosciosi per ogni italiano”, come si legge nell’Avvertenza – e data alle stampe nel 1946.