Giovanni Gentile ispiratore del Novecento italiano – di Piero Vassallo

Philosophia quaerens fidem

Viviamo in un paese nel quale sopravvive una sorta di guerra civile strisciante, per cui ci si può liberare dal passato solo se si ha il coraggio di storicizzarlo, se cioè si ha la forza morale prima che intellettuale, di mettere tutte le cose al loro posto, non per giudicare ma per capire e per liberarci da inerzie mentali che continuano a operare dentro di noi e che trascendono spesso la nostra volontà e anche le nostre intenzioni” (Sandro Fontana)

di Piero Vassallo

 .

GentileGiovanniLino Di Stefano, autore di un imperdibile saggio sul pensiero gentiliano e sul suo benefico influsso nella storia italiana contemporanea, dimostra che Benedetto Croce, quando sentenziava che Gentile è un “filosofo teologizzante“, intendeva  screditare e squalificare il sistema dell’atto puro, negandone la sua utilità e  la sua appartenenza alla modernità [1].

 Se non che è vero il contrario: la fede cristiana, professata dall’uomo Gentile rincorreva l’esausta modernità, pensante nel filosofo Gentile.

 In realtà la filosofia dei moderni, negli anni segnati dall’egemonia gentiliana, rappresentava una forza esausta e sul punto di esser assorbita e scialacquata dal nichilismo, galoppante nelle catastrofiche conclusioni dei dissacratori di Hegel: Alexandr Kojève, Martin Heidegger, Jean Paul Sartre, Walter Benjamin e la setta neognostica di Francoforte.

 Consapevole del destino incombente sul pensiero moderno, Gentile, cercava l’ubi consistam dell’estenuata filosofia hegeliana, e si chiedeva: “Ci può essere civiltà dello spirito senza amore e solidarietà? E che è spirito se non amore, e perciò solidarietà o quell’universalità che è unità di tutti?”.

 Gentile era un credente in segreto conflitto con il proprio pensiero filosofico. Un geniale erudito Vittorio Vettori, sosteneva che “secondo Gentile moralità e religione coincidono nel segno del Cristianesimo” e al proposito citava il brano in cui il filosofo di Castelvetrano aveva affermato che “il punto di vista morale della dottrina della vita, sorge quando dell’amore, come accade col Cristianesimo, non si parla più come di un fatto naturale ma come di un’azione: quando esso è additato come un dovere: Ama il Signore Dio tuo sopra ogni cosa, ama il prossimo tuo come te stesso” [2].

 Il credente Gentile intendeva consegnare/convertire a Cristo il refrattario/irriducibile vertice speculativo della modernità, e perciò aveva concepito un’ardua se non disperata interpretazione/correzione dell’idealismo hegeliano. Manlio Corselli sostiene addirittura che, nel 1943, Gentile era sul punto di dichiarare l’allineamento della sua filosofia alla sua fede cristiana.

 In questo senso Gentile è un ultimo e un primo: ultimo dei pensatori moderni e primo dei cristiani tentati di fuggire dalle prigioni della s-pensante modernità. (Quella modernità che, già estinta e sputtanata, elettrizzerà e catturerà la debolezza mentale dei teologi rampanti nelle fumose aule del Vaticano II).

 La filosofia di Gentile, in definitiva, è ultima nel miglior senso. Lo ha compreso padre Cornelio Fabro, che di Gentile fu ammiratore intrepido, al punto da assumere, nel triste e minaccioso anno 1946, la presidenza della Fondazione Gentile.

 Ammiratore, non adulatore, non conciliatore, il grande Fabro. La sua definizione della dottrina dell’atto puro, infatti, chiude le porte al compromesso del pensiero cristiano con la filosofia neo-idealista, prodotto finale del pensiero in cammino al seguito di Cartesio e Spinoza: “l’essere qui non è anzi tutto assoluto e perciò fondamento dei molti e dei diversi, non è l’Essere: è semplicemente fenomeno che dissolve se stesso nel porsi del suo divenire” [3].

 La confutazione di Fabro si chiarisce quando è confrontata con la sentenza di Michele Federico Sciacca opportunamente citata da Di Stefano: “Il pensiero di Gentile, per le sue difficoltà interne, per la sua possibile risoluzione in una posizione realistica e teistica segna un punto per il quale bisognerà passare”.

 L’intenzione di Gentile, dunque, non fu infeconda, poiché Dio scrive sopra le parole imperfette dei puri di cuore, una schiera cui Gentile appartenne. Lo rammenta il filosofo Lino Di Stefano [4], autore dello splendido saggio, che,  nel settantesimo anniversario della tragica morte di Gentile, celebra la fecondità storica dell’attualismo.

 Balbino Giuliano, peraltro, aveva riconosciuto senza esitazione che il movimento che ha avviato la rinascita della filosofia italiana, ebbe “la sua espressione più viva e feconda nella scuola idealista di cui erano maestri allora concordi il Croce ed il Gentile. Non solo la filosofia ma tutta la cultura italiana  ha sentito l’influenza di questa nuova concezione che aveva il grande merito di affermare la spirituale essenza del soggetto umano ridonandogli il pieno senso del valore della sua attività creatrice libera dagl’impedimenti delle astrazioni materialiste[5].

 Di Stefano rammenta che il primo segnale della fecondità dell’idealismo è la introduzione, nella cultura politica italiana dell’umanesimo del lavoro, una dottrina concepita per superare sia l’alterigia padronale sia il concetto marxiano di alienazione e per stabilire, infine, che “il lavoro non è un giogo per la volontà e quindi per l’uomo; è la sua libertà: esso è l’atto in cui la libertà consiste”.

 L’attualismo, in definitiva, proponeva il superamento dei contrapposti sistemi dell’alienazione: “Il liberalismo che considerava lo stato una semplice concrezione di atomi, … il collettivismo che faceva dello stato lo stritolatore della libertà dei singoli”.

 La circolazione della filosofia di Gentile nella cultura politica diede ali all’orgoglio dei lavoratori dipendenti e incrementò quella solidarietà sociale, che fece dell’Italia il modello proposto a quanti, nel mondo, aspiravano alla soluzione della crisi del 1929 e alla riforma dello stato, che aveva tollerato l’esistenza della macchina speculatrice, causa conclamata delle crisi perpetue.

 Si stabilì intanto un confronto fattivo tra l’attualismo e la filosofia a monte del corporativismo cattolico e i suoi interpreti a destra, Giuseppe Bottai e Carlo Costamagna [6].

 Sagacemente, Di Stefano elenca i positivi influssi delle idee di Gentile nella vita del Novecento italiano: la riforma della scuola (in seguito ultimata da Giuseppe Bottai) la fondazione dell’istituto dell’Enciclopedia italiana, la valorizzazione dell’arte di Mario Sironi, l’interpretazione dell’opera di Luigi Pirandello, il contributo allo sviluppo della pedagogia e della psicologia, la strenua resistenza al neopaganesimo germanico, il riconoscimento della dignità spirituale del lavoro.

 Ha dunque la ragione il compianto amico Sandro Fontana, che suggerisce una lettura della storia del Novecento disintossicata dagli sdegni tracotanti e stizzosi degli storici che pontificano all’interno della incrollabile parentesi elevata dallo sdegno di Benedetto Croce. L’opera di Di Stefano, dunque, è un prezioso contributo offerto agli studiosi (sopra tutto ai giovani studiosi) che intendono leggere la storia del Novecento senza lasciarsi avvolgere dal filo paralizzante delle “parche” faziose.

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[1]  Cfr. “Gentile l’uomo e l’opera”, edito a cura di Tommaso Romano, Isspe, Palermo 2014
[2] Citato da Giuseppe Panella, “Introduzione all’opera di Vittorio Vettori”,edizioni Polistampa, Firenze 2014, pag. 35
[3] Cfr.: Cornelio Fabro, “Giorgio G. F. Hegel La dialettica”, Edivi, Segni 2012, pag. 155.
[4] Lino Di Stefano, nato a Casacalenda nel 1938, allievo di Renzo De Felice, con il quale si è laureato, è uno dei più illustri rappresentanti di quella cultura post-fascista, che fu rifiutata e dilapidata nel trivio da una classe politica destinata a naufragare nell’analfabetismo. Ha pubblicato oltre trenta opere di filosofia e di letteratura.
[5]  Cfr. “Il valore degl’ideali”, Zanichelli, Bologna 1946, pag. VII-VIII.

[6] Carlo Costamagna fu autore di una dottrina del fascismo diversa da quella pubblicata da Gentile nella Enciclopedia italiana.

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