GIOVANNI PAPINI – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

 

È il gigante imbattuto della prosa italiana nel suo tempo e di questo tempo; ovvero essa primeggia in ciò che di essenziale la compone: l’espressione potente, franca, efficace, onesta, attuale, diretta alla veridicità con slancio altruista, superiore a scuole e classificazioni stilistiche. Egli si ripromise d’essere “rapido, caldo, limpido”, e adempì largamente il suo intento.

Oltrepassando noi il lato formale, la sua tematica, il suo pensiero furono intesi a conferire all’umanità il mezzo utile alla propria elevazione, dopo che egli si era impossessato dello scibile e, nella sua elaborazione, aveva consumato le filosofie, dopo che avrebbe realizzato in sé l’uomo integrale, una sorta di superuomo. Il fallimento di quest’ultima mira, durante la prima intrapresa giovanile, diede poi luogo alla conversione cattolica, alla missione apologetica e all’opera fiduciosa per la rinascita dell’Italia, per la sua funzione civilizzatrice. Seguirono le disillusioni, gli ondeggiamenti, placati, in ultimo, nella mai spenta fede nella vita, senza che avesse mai abbandonato il lavoro coscientemente ambizioso – conforme alla sua indole titanica – rivolto a destare, a risollevare, a migliorare in modo risolutivo gli animi, affinché si formasse un popolo cristiano coerente, che determinasse anche la conduzione mondana.

La vita di Giovanni Papini fiorentino, classe 1881, spirato nel 1956, forma il modello d’un grande e coraggioso amante della verità, dotato di genio per la conoscenza (ottenuta con una vasta erudizione ad abbracciare i secoli e ogni paese), fornito della capacità di valutare e usare il meraviglioso strumento della parola scritta, dotato di generosità, d’amor di patria, uomo che esaurisce le sue indagini per afferrare la virtù che produce il proprio e l’altrui riscatto, facendo tutto da solo, ubbidendo a un formidabile temperamento, ma disposto a ricredersi, ad arrendersi a Dio, a cogliere il divino ausilio con cui rientra nell’Ovile e diviene un apostolo laico. Modello certamente eccezionale, ma riducibile, adattabile a qualsiasi buona volontà.

libro papiniQuello stesso temperamento, che lo indusse a farsi promotore della fede, lo rese ardito sino all’errore, quasi disposto a diventare errante pur di persuadere, pur di introdurre il fuoco salvifico negli sviati, nei raffreddati, stoltamente egoisti. Egli non si rassegnò all’idea che l’uomo sia quello che è, e che per governarlo, o esserne il sacro pastore, occorra una prassi sempre difettosa, i ministri siano quelli disponibili e gli sbagli inevitabili. Tanto più dopo la sconfitta italiana, egli concepirà un cristianesimo vissuto, fervente, come unica via d’uscita dalla desolazione, dal crollo delle illusioni.

Suo padre era stato garibaldino, ed egli da bimbo lo ammirava, nutrendo forse per questo più vivo il sentimento della patria. Ragazzo avido di sapere, frequentatore di biblioteche, fonda riviste, consegue il diploma di maestro elementare. Anche perché circondato dalle opere d’arte cittadine, si compenetra dei segni dell’antica gloria, e sogna la nuova. A vent’anni pubblica la Teoria psicologica della previsione. Rifiuta il positivismo che “non riconosceva abbastanza i valori degli elementi più alti e più attivi dello spirito”. Entra nella redazione del Regno, il giornale del nazionalista Enrico Corradini: “L’Italia giovane, l’Italia che può decretare il proprio avvenire, l’Italia nostra si affatica oggi [1903] intorno ad un problema tremendo: quello di dare un contenuto all’anima nazionale”.

L’insoddisfazione lo spinse a fondare, con Giuseppe Prezzolini ed altri, il Leonardo, avverso all’idealismo di Croce come al positivismo. “C’era in quel mio discorso” egli ricorderà, “molta letteratura, molto entusiasmo, forse un po’ d’enfasi, infinite promesse, tremende minacce, e un tentativo di legare in un fascio le idee, le intenzioni, le superbie e le forze di tutti quei giovani che mi ascoltavano e avevano fede in me e in loro stessi”.  Il motto era Non si volge chi a stella è fiso. L’aggressività aveva la funzione, come poi sempre, di scuotere le coscienze e di redimerle. Avendo bruciate le varie filosofie, Papini si ridusse all’utile, al pratico, adottò il pragmatismo. Ma per aspirare al trascendente, al divino: “L’anima più segreta mia era assetata e invidiosa della divinità”. Non accettava di “essere” in modo cartesiano per via della conoscenza, ambiva all’onnipotenza. In opposizione all’idealismo di Benedetto Croce disse che “sotto le ghirlande della grazia italiana” si avvertiva “a quando a quando, il cattivo fiato tedesco, cioè l’Idealismo kantiano ed hegeliano”.

Il Leonardo venne dismesso nel 1907 (“Abbiamo risuscitato la passione per i vecchi mistici”), e egli poco aderì a La Voce del caro compagno ed ex socio Prezzolini. Il suo animo romantico gli vietava di condividere l’attenzione ai casi minori e contingenti, che trascuravano la parte eletta: l’anima. “Volendo agire sull’uomo in senso innalzante, bisogna agire sull’anima; soltanto nella direzione spirituale è possibile sperare in un cambiamento di rotta, in un rivolgimento totale degli esseri e dei valori. Nella vita presente dello spirito è già il seme, il principio della futura vita dell’uomo”. Questa concezione giunge di scottante attualità: nessun criterio morale fa presa e regge, non essendo sorretto da un ideale (beninteso, di buona lega).

Nel 1912 esce Un uomo finito, la cui risonanza sarà quanto mai estesa, allora e a lungo. Egli vi confessa di non essere umanamente riuscito a superarsi, ad essere “un uomo infinito”, ma promette una rinascita battagliera, che difatti avverrà. Piero Bargellini, nella sua prefazione all’Opera omnia stampata da Mondadori a partire dal 1958, dice di quella prova letteraria: “semplice e non dimessa, rude e non ruvida, popolare e non volgare; parlachiaro e parlaschietto, a fronte alta e sguardo diritto; qualche volta beffarda, però mai ironica; in qualche caso scurrile, mai però oscena; in qualche punto violenta, mai però crudele; prima di tutto schietta e soprattutto efficace”. E ricorda un detto papiniano: “Quasi tutti gli scrittori italiani hanno scritto cose che non sentivano in una lingua che non parlavano”.

Bargellini osserva inoltre che “tutti, più o meno, eludevano la responsabilità di liquidare un passato che pesava e spaventava, tanto era glorioso, tant’era costoso (…) Papini voleva invece sapere dove ancora fosse ‘la verità’ delle cose, che in Italia apparivano sempre e soltanto ammantate di letteratura”. Egli fu cólto di molte culture per valorizzare la nostra presentemente, che sapeva essere stata dominante: quando Roma aveva dettato legge con la politica potestà, e quando la dominazione straniera era stata a sua volta conquistata dal diritto romano e dal genio italiano nelle sue diverse manifestazioni.

Nel 1913, insieme ad Ardengo Soffici diede vita a Lacerba, con la quale si affermò una forma di vitalismo, contrapposto ai costumi borghesi. “La vita è tremenda spesso. Viva la vita”. Vi comparvero “fieri pronunciamenti programmatici, intercalati da pagine bellissime di poetici idilli” (Bargellini). Per questo spirito, i due scrittori furono interventisti. “Essi dicevano ‘viva la guerra’, per dire ‘viva la vita’. Poi, da quella guerra, speravano il rinnovamento di vita, non soltanto politica, che essi si erano sempre ripromessi. Anche la guerra, secondo Papini e i suoi lacerbiani, era un modo di ‘agire’, e di agire ‘in senso innalzante’”. “E poesia, patria e fede furono, dopo la guerra, i tre ideali ai quali Papini, votandosi, si serbò sempre fedele, fino a rischiare d’apparire, egli lo stroncatore, l’eversore e l’iconoclasta, addirittura il retore, tradizionalista e conformista”.

Papini non poté essere combattente, date la sua inabilità. Divenne, a Roma, redattore letterario del Tempo. Nel 1907 aveva sposato una bella e saggia ragazza di Bulciano, borgo aprico nell’alta Valle Tiberina, dove egli costruì la loro dimora.

Due in confidenza, dritti come re,

s’andava per le strade, fuor delle poesie:

un fiore per te e una foglia per me –

e sleghiamo le fantasie.

Il secondo suo pieno successo fu la Storia di Cristo (1921), con cui sanciva la propria conversione. Nella prefazione troviamo: “L’autore di questo libro ne scrisse un altro, anni fa, per raccontare la malinconica vita d’un uomo che volle, un momento, diventar Dio. Ora, nella maturità degli anni e della coscienza, ha tentato di scrivere la vita di un Dio che si fece uomo”. “Non v’è tornato [alla fede]” chiariva, “per stanchezza perché, anzi, comincia per lui una vita più difficile e un obbligo più faticoso (…) Ma questo uomo, tornato a Cristo, ha veduto che Cristo è tradito, e più grave d’ogni offesa, dimenticato. E ha sentito l’impulso di ricordarlo e di difenderlo”.

Egli fu di nuovo quasi isolato, a causa del suo ingresso totale nel Regno di Cristo, attirandosi i sospetti e le contrarietà dei politici, nonché le diffidenze del Clero. Queste non del tutto infondate, poiché, lui e Domenico Giuliotti composero il Dizionario dell’Omo salvatico, dove confutavano gli assiomi dell’illuminismo con toni più polemici e violenti di quanto fossero apologetici; e il Nostro era autore d’una preghiera a Gesù, in cui si implorava un Suo tangibile ripresentarsi, ritenuto indispensabile in quel frangente del cattolicesimo.

Essi si erano difesi col bisogno di fare clamore. Già nelle premesse del libro, si avvertiva d’aver usato “termini crudi e risentiti, per vedere se l’anime d’oggi, avvezze ai pimenti dell’errore, potessero svegliarsi ai colpi della verità”.

Circa la preghiera, Papini rimediò con una Seconda preghiera a Cristo, in cui invocava il perdono per non aver concepito “altro rimedio fuor del Tuo riapparire tra noi”.

Accanto alle opere di carattere religioso, egli contribuisce alla fondazione della rivista Frontespizio, e prosegue a fustigare la mentalità del secolo, gli inganni, le scempiaggini, le sciagurataggini, tramite un imperturbabile personaggio di fantasia: Gog (1931) – ripreso ne Il libro nero (1951) – il quale entra in curiosa relazione con vari tipi umani e personaggi altolocati, spesso in situazioni all’apparenza stravaganti.

L’adesione di Papini al fascismo è per l’attuazione di un impero restauratore della civiltà degna di irradiarsi su tutte le genti. Nel 1939 scrive Italia mia. Accetta d’essere accademico d’Italia e presidente dal Centro Nazionale di Studi sul Rinascimento.

Sopravviene la guerra, il ripensamento sulle speranze e su certe convinzioni. Soffre a Bulciano, a La Verna sotto le bombe e i cannoneggiamenti. Non vede luce da nessuna parte, prevedendo il buio a venire. Non ha acconsentito alle offerte di partecipare alle iniziative della repubblica mussoliniana. La delusione è stata troppo forte. Ma rifiuta di condannare il popolo italiano, pur nelle sue enormi miserie morali. La sua certezza che l’Italia resti una nazione eletta va soggetta ad alti e bassi. La sua stessa fede di credente subisce scossoni. Tuttavia con alcuni giovani fonda la rivista L’Ultima e l’Ordine spirituale degli Ultimi; dà alle stampe le Lettere agli uomini di Papa Celestino VI (1946). Papa immaginario, che sprona le categorie sociali come, secondo lui, dovrebbe fare il Papa provvidenziale, un Papa che, anch’esso, chiede a Dio “una seconda infinità d’amore”. Risorge in lui prepotente l’errore della necessità di un Terzo Testamento e di una nuova Pentecoste.

Bargellini osserva che “I suoi libri, ardenti e arditi, se trascinavano anime brade o indifferenti dentro la Chiesa, erano di tal natura da non spingere nessuno ad uscirne. Si potrebbe assicurare che i suoi stessi errori non abbiano mai prodotto erranti”.

Egli fu anche poeta ragguardevole. La mole dei suoi scritti è colossale. Le ultime opere più notevoli furono Il diavolo (1953) e il ponderoso Giudizio Universale (uscito postumo, come anche il Diario). Negli ultimi anni patì il calvario della progressiva cecità e di una malattia che gradualmente lo immobilizzò. Morì “murato” nel proprio corpo, ma consolato, osservante, dopo aver commesso alla dettatura La felicità dell’infelice.

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