Infaticabile erudito, in ostinata e deprecata navigazione contro la corrente mondialista, generata dal masochismo radical-chic, Lino Di Stefano propone, nel denso e avvincente saggio, “Pascoli poeta d’Italia e di Roma“, edito in questi giorni da Bibliotheca, raffinata casa editrice romana, una puntuale e riabilitante lettura dell’opera di Giovanni Pascoli.
Un pregevole saggio di Lino Di Stefano
di Piero Vassallo
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Il poeta di San Mauro, infatti, è sconsigliato dal potere culturale instaurato dal debolismo culturale, perché risolutamente ostile ai dogmi dell’uguaglianza buonista, che traducono e rincorrono il todos caballeros! di Carlo V, incoronando agitatori di nacchere stonate e roventi poetesse.
Nell’Italia di Pascoli, invece, era sconsigliato e stroncato lo spaccio della poesia oggi qualificata dall’interruzione della sorda e banale riga prima del margine destro.
In quella diversa stagione – ohibò – gli studiosi e i critici letterari apprezzavano addirittura i componimenti scritti da Pascoli nella sospetta e poi compromessa lingua dell’antica Roma.
Agli amici, Di Stefano ha colpevolmente nascosto la sua straordinaria padronanza della lingua e della poesia latina. Una qualità che gli consente di proporre una splendida/sorprendente traduzione di “Thallusa” una splendida composizione latina di Pascoli. Impresa che avvicina Di Stefano ai grandi studiosi della lingua di Roma, Ettore Paratore e Giulio Puccioni, ad esempio.
Compromettente è l’ammirazione di Gabriele D’Annunzio per la poesia del romagnolo e allontanante la spietata definizione di Benedetto Croce “di quel particolare sentimentalismo romagnolo che si manifesta nel Pascoli”. Onde il lapidario e altezzoso gioco di parole, che offre la misura cabarettistica e pre-televisiva della critica crociana: “Pascoli, un piccolo grande poeta o, se volete, un grande piccolo poeta”. La Littizzetto non saprebbe esprimersi meglio.
Irritabile e impaziente [secondo Enzo Vittorio Alfieri, che pur non fu estraneo al sacro salotto], Croce denigrò Pascoli perché [lo rammenta Alfieri] “certi suoi giudizi sono errati, ingiusti, incomprensivi, in ogni caso datati: condannò Pirandello per il suo cerebralismo e per la sua semi-filosofia, come fu portato dal proprio ottimismo filosofico a sminuire Pascoli e a ridimensionare Leopardi”.
Non senza ragione, Di Stefano rammenta che Croce tormentò anche la Divina Commedia, che ridusse in frammenti, stritolata nella morsa dell’antinomia poesia-non poesia.
Sentenziante sulla lunghezza d’onda frequentata dal costruttore delle storiche parentesi, l’allievo Luigi Russo sottolineava con la matita rossa “l’origine impura ed egolatrica delle riesumazioni romantiche” di Pascoli.
In realtà Pascoli (è la tesi sviluppata magistralmente da Di Stefano) ebbe il merito di far uscire la letteratura italiana dalle anguste strettoie della provincialità e di rinnovare un antico prestigio: “Pascoli ha innalzato la lirica italiana a livello europeo con felici rievocazioni relative sia alla campagna, vista nelle sue componenti malinconiche, ma anche al sentimento del mistero delle cose e del mondo che ci stanno attorno e al senso della precarietà e della indecifrabilità dell’esistenza”.
A ragion veduta Di Stefano sostiene che Pascoli apparitene al decadentismo, concepito in senso positivo. Invano il lettore cercherebbe nei componimenti di Pascoli quella tetra e talora laida immaginazione del nulla che invade la letteratura e il giornalismo filosofico dei decadenti rigettati dal mito del progresso.
Il decadentismo di Pascoli, infatti, è rimpianto e nostalgia della fede smarrita nella opprimente selva dei dolori familiari. Non l’acrobatica retorica declinante le fantasie intorno all’ateismo che, contorcendosi, afferma che non può non dirsi cristiano.
Nei versi di Pascoli si manifesta il dolore del ritorno: “Le campane che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morte, specialmente a morto. Troppo? Ma la vita senza il pensiero della morte, cioè senza religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico”.
L’opera di Pascoli non può essere gettata nella pattumiera in cui si decompone l’ateismo dei moderni.
La luce crepuscolare emanata dalle poesie che hanno commosso generazioni di buoni italiani possono ridestare la coscienza delle nuove generazioni, ubriacate e avvelenate ma non conquistate dal nichilismo in corsa sulle piste della disfatta storicista.
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2 commenti su “Giovanni Pascoli, ateo devoto ante litteram – di Piero Vassallo”
Tutto ciò mi conforta e mi consola poiché fin da bambina ho amato la poesia pascoliana e anzi, una volta adulta, ho ritenuto che nelle sue atmosfere cariche di dolore e di nostalgia e di attaccamento agli affetti familiari e ai valori veri dell’esistenza, si potesse rinvenire un innegabile e commovente senso religioso della vita.
L’ateismo del.poeta Giovanni Pascoli è una ribellione pacata, ma non sempre, per il dolore della perdita del.padre da bambino e poi della madre, costretto ad arrabattarsi per mantenere le sorelle più piccole. I benpensanti facilmente puntano il dito contro di lui, ma il Signore che è al di sopra di ogni assurda logica perbenista umana, lo avrà perdonato nella Sua infinita Bontà e Misericordia.