Nel centenario della morte
di Lino Di Stefano
La produzione poetica di Giovanni Pascoli (1855-1912) in lingua latina non è per nulla inferiore a quella in idioma italiano sia per qualità, sia per quantità, tant’è vero che si potrebbe, ‘iusto iure’, collocare il genio di San Mauro – nell’ambito della storia della letteratura latina – immediatamente dopo le ultime grandi voci rappresentate da Claudio Claudiano (370-404 d.C.) e da Rutilio Namaziano (IV sec. d.C.). Il primo, nel poemetto, ‘Raptus Proserpinae’, scrisse tra l’altro, a proposito della grandezza dell’Urbe: ”Hic Cimbros fortesque Getas, Stilichone peremptos/ et Mario claris ducibus, tegit itala tellus./ Discite vesanae Romam non temnere gentes” ( Qui l’itala terra copre i Cimbri e i fieri Goti,/ annientati da Stilicone e da Mario, eroici capi./ Sappiate, popoli temerari, rispettare Roma” ( trad. F. Serpa).
Il secondo, nel celebre ‘Inno a Roma’ – tratto dall’operetta ‘De reditu suo’ – osservò, significativamente: ”Fecisti patriam diversis gentibus unam:/ profuit iniustis te dominante capi./ Dumque offers victis proprii consortia iuris/ urbem fecisti quod prius orbis erat…”( Hai fatto la patria, di diversi popoli, una:/ ha giovato agli sconfitti essere presi sotto il tuo dominio./ Mentre offri ai vinti la partecipazione al tuo diritto/ hai fatto (diventare) città ciò che prima era mondo”. I medesimi pellegrini recantisi a Roma, in occasione del giubileo del 1300, intonavano questo canto per celebrare la grandezza di Roma: “O Roma nobilis, orbis et domina/ cunctarum urbium excellentissima”.
Non a caso, anche il Poeta romagnolo redasse un ‘Hymnus in Romam’ – ricavato dalla raccolta, ‘Hymni’ (1911) – col quale celebrò la maestà della Città eterna, dalle ataviche origini ai molteplici miti: dal primo, ‘Il nome misterioso’ all’ultimo, ‘ A Roma eterna’. I ‘Ioannis Pascoli Carmina’ portano i seguenti titoli: ‘Liber de poetis’ (1891-1910), ‘Res Romanae’ (1892-1906), ‘Poemata christiana’ (1901-1911), ‘Hymni’ (1911), ‘ Ruralia’ (1893-1899) e, infine, ‘Poemata et Epigrammata’ (1874-1911). Il Poeta di San Mauro partecipò molte volte ai ‘Certamina Hoeuffettiana’ banditi dall’’Academia Regia Nederlandica’ cogliendo l’alloro per bel 13 volte; premio consistente in una medaglia d’oro del peso di 250 grammi.
Premesso che il latino fu la lingua del cuore di Pascoli, occorre aggiungere che tanti autori contemporanei si occuparono dell’attività filologica, segnatamente romana, del Poeta; ad iniziare dal grecista e latinista Manara Valgimigli e per finire – menzionandone solo alcuni – a Pasquali, Traina, Paratore e Olivari, tutti d’accordo nel riconoscere, da una parte, il grande valore dello studioso romagnolo e nell’evidenziare, dall’altra, l’incapacità dello stesso di conciliare il mondo pagano e l’universo cristiano. Pure il latinista Giulio Puccioni pose l’accento, alcuni anni fa, sulle colonne de ‘Il Giornale d’Italia’ di Roma, sulla considerazione secondo la quale “il latino, in quanto lingua non parlata, ha costretto il Pascoli a controllarsi di più, ad evitare bamboleggiamenti ed onomatopee esasperate”.
Lo stesso Gabriele d’Annunzio, amico fraterno del Poeta di San Mauro – e per averne contezza basti scorrere le pagine a lui dedicate e scritte ad Arcachon nel 1912, ora nel volume ‘Contemplazione della morte’ – stimò l’autore di ‘Myricae’ sia come autore in lingua italiana, sia come compositore in idioma latino; per il primo rispetto, egli lo definì, non a torto, a nostro giudizio, “il più grande poeta italiano dopo Petrarca” e, per il secondo, “l’ultimo figlio di Vergilio” nonché “il più grande poeta latino che sia sorto nel mondo dal secolo di Augusto ad oggi”. Il Pascoli aveva esordito, ufficialmente, come cultore di lingue classiche allorquando il Ministro della Pubblica Istruzione lo destinò, come docente di latino e greco, presso il Liceo ‘Doni’ di Matera dove rimase dal 1882 al 1884 e dove fu accolto con ospitalità.
In occasione del IX centenario della fondazione dell’Università di Bologna, il Rettore dell’Ateneo della Basilicata, Prof. Cosimo Damiano Fonseca, tenne una prolusione per rendere omaggio ad uno dei più antichi Sudi italiani. Era il 1988 e il menzionato cattedratico colse l’opportunità per rievocare anche la figura di Giovani Pascoli il quale, osserva Emanuele Pizzilli – ‘Omaggio a Pascoli’, in ‘INSIEME’, I.X. 1988 – “in questa terra dalle antiche radici”, sicuramente “fu sollecitato alle sue composizioni liriche, elegiache e bucoliche”. Nel 1897, il Poeta tornerà nel Meridione d’Italia in qualità di professore di lettere latine presso l’Università di Messina.
Com’è facile notare, l’intera attività professorale del Poeta si svolse all’insegna della cultura classica e, naturalmente, in parallelo con quella italiana, a prescindere dall’assunzione, a Bologna, della cattedra che fu di Carducci. A Matera, Pascoli ebbe 34 alunni e, in seguito, scrivendo ad uno scolaro volle ricordarli tutti con tali espressioni: ”Io vivo di voi altri; dei ragazzi di qui mi sono simpatici quelli che nei tratti del viso o nel fare vi assomigliano”, In ‘INSIEME’, cit.). Ora, dell’amplissima produzione latina pascoliana ci piace analizzare il citato ‘Inno a Roma’ che resta, a nostro parere, uno dei suoi componimenti più riusciti.
Premesso che “Faunus erat habitans et saxa Palati./ Necdum tu stabas. Quin tum spectare licebat/ muscoso sparsum Capitoli rudere saxum/ et fractis passim muris albescere dumos/ Ianiculi” ( Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi/ del Palatino, tra le antiche selve/ misteriose. E tu non eri, o Roma./ Anzi per il rupestre Campidoglio/ eran macerie già muscose, e bianchi/ ruderi sparsi si vedean tra i folti/ cespugli del Gianicolo” (trad. Pascoli), bisogna aggiungere, inoltre, che i due fratelli avevano già combattuto sotto il ventre della lupa e che la morte li aveva divisi
Poi, venne aprile e i pastori gridavano: “Ignis pure, potens ignis…/ has absume casas, hos textos abripe nidos: (…) iam nos Aeternum mansuram condimus urbem” ( Fuoco puro, Fuoco grande…/ portati via queste capanne, portati/ via questi nidi:/ (…). Siamo per fare una città ch’ eterna/ duri” (t.P.) Nel frattempo, un uomo arava cingendo il Colle Palatino con un solco mentre “albaque vacca iugum pariter taurusque ferebat/ fulvus” (sotto il giogo era una vacca bianca/ e un rosso toro” (t.P.). Più tardi, il Poeta esclama: “Rheni te ripaesenserunt intus et Istri,/ sivaeque indomitae propriaeque leonis arenae” (Te nel cor le sponde/ sentirono del Reno e del Danubio, / t’ebbero le foreste inviolate/ e le sabbie arse che il leon sue rugge” (t.P.).
A questo punto, dal grande cippo d’oro, Roma creò strade in tutto il mondo e, con la falce e con la spada, conquistò l’orbe terracqueo con i valorosi giovani “sublimes in equis”( erti su lor cavalli” ( t.P.). Intanto, il pontefice e la vergine massimi ascesero il Campidoglio e “gradiebatur passus venerabilis aequo/ prorsus in imperium magnum dea Roma” ( Divina/ (…) con passo sempre ugual, di gloria,/ andava Roma verso il grande impero” (t.P.). Ma, all’improvviso il Poeta lancia un grido di esultanza scrivendo, per un verso: “Salve, Roma potens. Fregisti vomere terras/ ut placidis demum gauderet dumus aristis” ( Salve, o possente Roma! Tu le terre/ hai dissodate col tuo duro coltro;/ la macchia hai franta perché desse il grano/ placido”(t.P.).
E, osservando, per l’altro:” Te profugi condunt vasto maris aequore vecti/ tu profugos certas ingenti tollere navi/ Tu sanctum populis iam pridem limen asyli/ exulibus” (Profughe genti vennero dal mare/ a darti inizio; e i profughi tu sempre/ prendesti a bordo della tua gran nave” (t.P.). La supplica pascoliana è pressante ed egli invita non solo Flora a rinnovare l’arte antica, ma anche a fare in modo che le colline e le vallate siano rigogliose di olivi, viti e spighe, mentre “Rubico niveos immani corpore tauros/ miratur” (Il Rubicone, ecco, già bianchi ammira/ enormi tori” (t.P.).
Frattanto, il Campidoglio restò inviolato fino a quando, però, il barbaro selvaggio invase l’Urbe. Il Goto, infatti, assoggettò Roma e, come vincitore, la lasciò deserta. Così ferita, la città vide scendere su di sé foschi avvoltoi che resero sempre più cupo il clima sulla città morta. Allora il Poeta invoca nuovamente Flora, madre dei fiori, e la incita in maniera che “uberius pariat per te Saturnia/ terra” (questa pia Saturnia terra produca in maggior copia i frutti” (t.P.).
Ora, il Poeta a Flora non chiede i trionfi imperiali, bensì la pace dato che essa gode solo “melle, oleo, vino (…), non sanguine” ( di miele, olio. vino (…), non di sangue” (t. P.). Pastori un tempo, i fondatori di Roma vogliono un sepolcro dedicato al primo eroe, cioè Pallante, in una spelonca rischiarata da una lampada votiva.
Lampada, dice il Poeta che “agit axubias aeterno lumine Roma” ( veglia su Roma con l’eterna luce” (t. P.). Ed ecco il commiato del Poeta: “Aeternum spiras, Aeternum, Roma, viges. Tu/ post multas caedes, post longa oblivia rerum/ et casus tantos surgentesque undique flammas,/ tu supra cineres formidatasque ruinas altior exsistens omni de morte triumphas; / tu populis iuris per te consortibus offers/ mirandam te nunc in primo flore iuventae Pallanti similem”. (…) Roma potens, vitae potior tua tempore lampas”.
( Spirito eterno, eterna forza, o Roma!/ Dopo il gran sangue, dopo l’oblìo lungo, / e il fragor fiero e il pallido silenzio,/ e tanti crolli e tante fiamme accese/ da tutti i venti, tu col pié calcando/ le tue ceneri, tu le tue macerie,/ sempre più alta, celebri il più grande / dei tuoi trionfi; che la morte hai vinta (…). O Roma possente, la possente/ tua più che il tempo lampada di vita” (t.P.). Un grande poeta latino dei nostri tempi – il veroneseTeodoro Ciresòla (1891-1978) – nel suo ponderoso studio ‘Carminum’ (Volumen alterum, Calliani, In Aedibus Manfrini, MCMLXXXXI), ha voluto dedicare un ricordo al Poeta di San Mauro dal titolo ‘IOANNIS PASCOLI SEPULCRUM’.
In esso il poeta veneto scrive, tra l’altro, significativamente: “Mane novo sol perfundit cum lumine terras/ enitet obscura tibi in aede, poeta, sepulcrum/ esiguas radio lucis penetrante fenestras”( Quando il sole di mattina cosparge le terre di nuova luce/ splende, o poeta, nell’oscuro tempio il sepolcro/ mentre il raggio di luce penetra le strette finestre).