Il Mezzogiorno d’Italia ultimo in Europa per occupazione giovanile
di Clemente Sparaco
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La Sicilia, secondo quanto rilevato dall’Eurostat Regional Yearbook 2015 (il rapporto che l’Eurostat, l’Ufficio Statistico della Comunità Europea, pubblica annualmente), è la regione europea col più basso tasso di occupazione. Solo il 42,4% dei Siciliani tra i 20 e i 64 anni risulta avere un lavoro. Né fanno meglio le altre regioni meridionali, tre delle quali occupano fra gli ultimi sei posti per numero di occupati fra le oltre 250 regioni europee. Per la cronaca la Calabria ha il 42,6% di occupati, la Campania il 42,7%, la Puglia il 45,7.
A fare da corollario a questo primato negativo, ce ne sono altri altrettanto negativi, come quelli della scarsissima occupazione femminile (appena il 29,6% delle siciliane tra i 20 e i 64 anni lavora), dell’altissima disoccupazione giovanile, nonché della disoccupazione di lunga durata, ovvero di coloro che restano senza lavoro per oltre un anno.
Questi numeri confermano quelli diffusi dal SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) il 30 luglio di quest’anno (Anticipazioni sui principali andamenti economici – rapporto annuale), che evidenziavano per il Sud la peggiore crisi economica del dopoguerra, con una diminuzione dell’occupazione dal 2008 del 9% (contro un calo dell’1,4% al Centro-Nord) e un tasso di disoccupazione giovanile al 56%.
La strutturale ed endemica carenza di lavoro nel Mezzogiorno d’Italia ha tuttavia una nuova fisionomia. Non si tratta, infatti, come per il passato, di braccianti divenuti emigranti con i cartoni legati dallo spago a fare da valigie. I disoccupati del Sud sono oggi in prevalenza giovani formati professionalmente, che stentano a trovare un’occupazione. Sempre il rapporto SVIMEZ attestava che solo il 24,7% dei diplomati e il 31,9% dei laureati, lo trova a tre anni dal conseguimento del titolo di studio. Ed è questo un altro record negativo che non ha riscontro in Europa, nemmeno nelle economie in forte difficoltà della Spagna e della Grecia.
Per le modalità che la caratterizzano, nella disoccupazione giovanile si nasconde, quindi, un dramma fatto di aspettative deluse, oltreché una frattura generazionale.
Infatti, nei decenni a cavallo fra la fine del millennio e i primi anni 2000 il calo di occupazione giovanile era dovuto ad un aumento significativo di scolarità e di iscrizione all’Università. Dall’inizio della crisi (2008) evidenzia invece mancanza di opportunità di lavoro qualificato, adeguato cioè al titolo conseguito. Nel Sud – si legge nel rapporto dello SVIMEZ – “il processo di aggiustamento in termini di maggiore flessibilità e minori costi continua sostanzialmente a realizzarsi a scapito prevalentemente dei giovani, estendendosi dai bassi livelli di istruzione ai più alti che fino a poco tempo fa avevano garantito, sia pur con un certo ritardo, un’occupazione. Una percentuale notevole e crescente di giovani – tra cui anche profili che in passato avrebbero facilmente trovato lavoro – sconta periodi sempre più lunghi di disoccupazione e di inattività, con effetti che in molti casi diventano irreversibili”.
L’alternativa è secca: o scoraggiati o emigrati. Tuttavia, per onestà, dobbiamo riconoscere una terza categoria, legata ad un sistema di potere nel tempo divenuto un malcostume: i raccomandati. Per questi ultimi gli accessi al mondo del lavoro sono veicolati in canali privilegiati e assolutamente riservati. Ma per buona parte dei giovani meridionali si tratta piuttosto di scontare l’emarginazione dai processi produttivi, malgrado i lunghi anni impiegati tra lo studio superiore e l’Università, e, quindi, un’intima profonda frustrazione. Non è un caso, perciò, che Calabria e Sicilia condividono il più alto numero in Europa di “Neet“, sigla indicante i Not engaged in Education, Employment or Training, ossia quei giovani scoraggiati, fra i 18 e i 24 anni, che non lavorano, non studiano né hanno avviato un percorso di formazione.
C’è sempre a fungere da valvola di sfogo l’emigrazione verso il Centro-Nord o l’Estero, emigrazione divenuta ormai prevalentemente di diplomati e laureati. Tra il 2001 e il 2014 sono, infatti, emigrati dal Sud verso il Centro-Nord oltre 1.667 mila meridionali, a fronte di un rientro di 923 mila, con un saldo migratorio di 744 mila unità. Di questa perdita di popolazione il 70%, 526 mila unità, ha riguardato giovani, di cui poco meno del 40% laureati, con una perdita inestimabile di risorse umane altamente qualificate e un conseguente depauperamento del tessuto demografico, economico e sociale.
La difficoltà di essere giovani al Sud emerge anche da un altro dato, questo assolutamente nuovo: il crollo della natalità. Nel Mezzogiorno ormai il numero delle morti sopravanza quello dei nati vivi, che si è attestato nel 2014 al livello minimo dall’unità d’Italia (174 mila nati). Le gravi preoccupazioni di natura economica indotte dalla crisi hanno determinato una drastica riduzione della fecondità, ossia dei numeri di figli per donna, per cui oggi anche in tale ambito il Sud è ultimo in Italia ed in Europa.
E’ un dato scoraggiante che, unitamente agli altri, fotografa una situazione di profonda e radicata rassegnazione.
8 commenti su “Gioventù bruciata del Sud – di Clemente Sparaco”
Commento al crollo delle nascite al Sud: è un dato che fotografa soprattutto lo sbarco lì, 30 anni circa dopo il Centro-Nord, della mentalità antifamiliare e di quella di rivalsa della donna.
Lo dico per osservazione diretta, frequentando spesso il Sud – che, in ogni caso, gode di una “normalità” umana molto superiore a quella del resto d’Italia.
Ha completamente ragione, caro Raffaele!
Concordo inoltre penso che il calo demografico non possa essere imputato solamente alle questioni economiche, tanto per fare un esempio: in Germania i dipendenti guadagnano quasi il doppio rispetto all’Italia ma fanno meno figli di noi…
Se non hai una fede difficilmente avrai una speranza pertanto a che futuro pensi? Che senso ha fare una famiglia e dei figli…?
Infine queste statistiche non fotografano mai esaurientemente la situazione meridionale in quanto molte persone al sud lavorano in nero…ciò non toglie comunque le gravi problematiche connesse al mondo del lavoro, soprattutto fra i giovani.
Quanto dice è senz’altro vero. Tuttavia, questi dati consegnano il Sud Italia all’ultimo posto nella classifica europea per quanto riguarda occupazione giovanile, occupazione femminile e giovani scoraggiati che non cercano più lavoro né studiano. Se consideriamo questo dato in un contesto non solo italiano (ad esempio, paragonandolo a quello che avviene in Grecia, Spagna, Portogallo, dove abbiamo tessuti sociali molto simili) scopriamo una specificità italiana e meridionale, in particolare. Anche riguardo alla natalità il crollo, a differenza di quanto avvenuto altrove, è stato repentino e si è accentuato in coincidenza della crisi. I motivi per cui non si fanno figli sono vari, ma quello del lavoro che non c’è o che si deve cercare altrove è una specificità meridionale. C’è infine un’assoluta perdita di speranza circa il futuro cui si guarda con rassegnazione e disincanto. Non si ha la forza di immaginarne uno diverso.
Concordo con tutti gli ottimi commenti.
Però io mi faccio a volte questa domanda: i laureati disoccupati sono la maggioranza
dei giovani?
Quelli che si “accontentano” di studi di grado inferiore trovano più facilmente lavoro?
Cioè come operai?
Perché non molto tempo fa fecero vedere in TV dei giovani “laureati” che si erano
dedicati con buoni risultati all’agricoltura.
Cioè ci sono ancora dei giovani che vogliono fare i braccianti, gli operai?
Forse la mia è una domanda stupida..
Però quanto dice Raffaele: “… il Sud – che, in ogni caso, gode di una “normalità”
umana molto superiore a quella del resto d’Italia.”, mi sembra molto bello e
significativo.
Concordo, da “nordico”, con questa sua ultima affermazione. Ho sempre pensato e detto, anche agli amici un po’ leghisti, che la vera salvezza culturale, sociale e religiosa dell’Italia risiede nel Sud e nella sua capacità di conservare i valori tradizionali, il saper vivere e gustare la vita, il gusto per la cultura ed il riconoscimento e la valorizzazione differenze tra uomo e donna. Leggere questo articolo mi ha un po’ scoraggiato. Spero che questa lunga malattia che è la disoccupazione non abbia fiaccato definitivamente il nostro Meridione.
Da donna dico che la scarsissima occupazione femminile non mi sembra un dato negativo, troppe donne tolgono il lavoro ai padri di famiglia, dispiace ancora di più che questa frase sia scritta da un uomo come ormai spesso succede. Ci sono già tante femministe, non si sente il bisogno anche di “femministi”.
Perché ci siamo dimenticati che nella famiglia classica la madre
era la donna di casa, che curava la famiglia e la casa, il padre
lavorava e i figli studiavano.
In seguito alcune mamme furono costrette a lavorare per ragioni
economiche, e affidavano i figli ai nonni.
Poi alle donne “piacque” lavorare e, quando possibile fare carriera,
e la famiglia classica cominciò a dissolversi..
Mi ricordo che su La Nazione alcuni anni fa pubblicarono un articolo
che parlava di una donna, con nome e cognome, che aveva rinunciato
al lavoro e alla possibile carriera per curare marito e figlioli, e
cercavano di far “bastare”, con sacrifici di tutti, lo stipendio del babbo.