Giudizio di Pirandello su D’Annunzio e Pascoli – di Lino Di Stefano

Dai “Tre Foglietti dispersi”, inediti.

di Lino Di Stefano

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Luigi Pirandello (1867-1936), ebbe la fortuna di vivere – a cavallo tra il XIX e il XX secolo – quando ancora erano in auge personalità del calibro di Giosué Carducci (1836-1907), di Giovanni Pascoli (1855-1912) e di Gabriele D’Annunzio (1863-1938) sicché anch’egli  formulò, com’era naturale, dei giudizi nei riguardi dei due colleghi.

Del Pescarese fu anche amico, con tutte le riserve del caso e viceversa, ragion per cui i menzionati  ‘Tre Foglietti dispersi’ – pur non essendo ancora stati pubblicati – sono a disposizione degli studiosi anche perché redatti dall’Autore con la macchina da scrivere sulla quale, è noto, il drammaturgo amava scrivere anche se con un solo dito, com’è facile constatare guardando alcune fotografie al riguardo.

La questione ineriva al quesito a chi si dovesse conferire la palma del più grande poeta italiano del periodo e, per usare le parole di Pirandello, “di sapere  chi debba, di tempo in tempo, riconoscere e considerare …il suo maggior poeta vivente”.

Il drammaturgo così proseguiva: “Morto Giosué Carducci, che per tale fu meritamente riconosciuto e considerato lungo tempo, il popolo italiano si trovò davanti due candidati al posto di maggior poeta vivente: Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli”, visto e considerato, che per l’Agrigentino, “i due candidati si erano tra loro riconosciuti e considerati”.

Così aggiungeva lo scrittore siciliano: “L’uno fu per una costa, l’altro su per l’altra, tutti e due alla fine si sarebbero ritrovati su la vetta del mondo, s’intende della gloria: Io non intendo di negare a Gabriele D’Annunzio il titolo e il vanto di maggior poeta vivente d’Italia tanto più che egli, a mio modo di vedere, risponde in tutto e per tutto al tipo del letterato italiano quale la tradizione così detta classica, o la retorica per consolazione nostra lo foggiava”.

“Cioè – continuava l’Agrigentino – un letterato che poteva anche darsi la pena di pensare per conto suo purché i pensieri tolti in prestito altrui sapesse convenientemente vestire d’una forma che, non nata dentro a un tempo col pensiero, doveva naturalmente esser soltanto esteriore, senza intimità quindi, e, per inevitabile conseguenza, artificiosa”.

“Un letterato – scriveva sempre Pirandello – la cui arte, priva d’un contenuto ideale suo proprio, doveva per forza ridursi a una mera esercitazione verbale…, di cui essa, la retorica…, morto Giosué Carducci i due candidati ebbero la cattiva ispirazione di darsi  la voce (Oh, velata di pianto) da una costa all’altra del mondo – rispose loro un urlo di protesta e d’indignazione del popolo sinceramente commosso”.

“Poi l’uno – parole sempre del drammaturgo – senza rispettar l’altro, ghermì dal letto del morto una torcia funeraria e saltò su la vetta, solo. La chiamò fiaccola, lui, quella torcia da morto, e si mise ad agitarla lassù, come tutti sanno, proclamandosi da sé unico erede”. E, nessuno, a nome del testamento, del poeta, rispose no. Ma si trattava, in fin dei conti, della gloria”. Qui, termina il giudizio di Pirandello.

I due Autori erano, nonostante tutto, anche un po’ amici tant’è vero che esistono delle lettere quantunque, in questa sede, ci limitiamo a citarne solo due, entrambe del 1934, e relative alle loro opinioni a proposito della rappresentazione della ‘Figlia di Jorio’.

Nella prima, del 9 settembre, D’Annunzio ringrazia Pirandello per la “prova fraterna”, così egli la chiama, per allestire la messa in scena, appunto, della ‘Figlia di Jorio’ e che nessuno – è sempre l’Autore de ‘La fiaccola sotto il moggio’ che parla – rivolto all’amico, “saprà intonare il verso del mio dramma come tu solo saprai e insegnerai agli attori”.

Il poeta abruzzese si accomiata dal drammaturgo siciliano pregandolo di  “abbracciare per me, con l’affetto e l’ammirazione ch’egli di me conosce, il grande nostro Guglielmo Marconi”. Nella seconda, del 18 settembre, Pirandello si dichiara “lietissimo che quanto tu mi dici della tua mirabile opera concorda con la mia interpretazione”.

In questo modo, prosegue l’Autore dei ‘Sei personaggi’: “Sento anch’io ‘La figlia di Jorio’ come una grande canzone da accentare popolarescamente, con ardore e con toni schietti. Farò di tutto perché gli attori sotto la mia guida si guardino da quella preziosità letteraria di cui altre volte si sono compiaciuti”.

Ed ecco il congedo del narratore: “Ti abbraccio con la gioia che mi sia offerta l’occasione di darti questa prova di fraternità artistica”. Com’è facile arguire, fra i geni delle lettere italiane, vissuti fra due secoli, esisteva reciproca stima e rispetto e le citate due missive lo dimostrano ‘ad abundantiam’.

Per quanto riguarda, invece, i rapporti fra Pirandello e Pascoli, occorre subito dire che esiste un’affinità fra i due Autori; somiglianza insita nella loro posizione stilistica che potremmo anche definire ‘innovativa’ in quanto ambedue furono interpreti del cosiddetto’decadentismo’.

Ad onta di ciò, nel 1897, Luigi Pirandello, sotto lo pseudonimo di Giulian Dorpelli, pubblicò – sulla ‘Rassegna Settimanale Universale’ – una recensione non molto favorevole alla 4^ edizione delle ‘Myricae’ pascoliane.

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