GLI APPUNTI DI FRA’ MANSUETO, OVVERO LA BUSSOLA IN CONVENTO. racconto di Alfonso Indelicato

GLI APPUNTI DI FRA’ MANSUETO

OVVERO

LA BUSSOLA IN CONVENTO


di Alfonso Indelicato

 


FOGLIETTO PRIMO

Mi chiamo nel chiostro Mansueto e sono frate francescano. Qui nel convento dove vivo, prego e lavoro non è che quello che accade di fuori non si sappia. Possiamo guardare la televisione un’ora al giorno. E così dal telegiornale ci arrivano tutte le notizie del vasto mondo, e tutti i grandi cambiamenti che sono avvenuti in Italia noi li sapremmo anche se non avessero cambiato la nostra vita qui dentro, come per miracolo fermatisi davanti al portone d’ingresso. Ma poi c’è frate Ronald (ha scelto lui questo nome, quando ha lasciato il secolo) che sta al computer e che ci spiega tutte le cose che impara attraverso internet. E infine ci sono gli abitanti del paese qui sotto nel fondovalle, che vedo e con cui parlo una volta al giorno quando faccio la spesa. Insomma le cose le abbiamo viste, le abbiamo sapute e poi le abbiamo sperimentate pure qui dentro.

Ecco, il fatto è che queste cose a me non sono piaciute quando nascevano, e non mi piacciono tanto neppure adesso.

Sono confuso. Vedo intorno a me tanto entusiasmo, tanto movimento. Ma non mi faccio capace, non so. Ho anche un poco di paura a parlare dei miei dubbi. E a chi, poi, ne dovrei parlare? All’Abate? Ma se è lui che ha portato qui dentro tutte le novità, insieme a frate Ronald e al frate guardiano! A frate Leandro, che dorme nella cella vicina alla mia? E’un buon diavolo di frate, questo, ma ha paura anche dell’ombra sua.  Scriverle al Ministro Generale dell’Ordine? Credo che sarebbe peggio che parlarne all’Abate. I due si vedono e si sentono, sono buoni amici.

Dunque ho deciso di annotare le cose come sono andate qui su questi foglietti, ogni giorno prima delle orazioni serali. Scrivo, e intanto è come se ragionassi con me stesso. Alla luce di questa lampada sul comodino le cose mi si fanno un po’più chiare, non nel senso che le capisco meglio, ma capisco meglio i motivi per cui non mi piacciono, che è già qualche cosa.

I foglietti li nascondo, perché non voglio che li leggano, per ora. Non nella cella, perché in una cella di monastero non puoi nasconderci nulla. Li scrivo, e il giorno dopo li vado a riporre in un sacchettino di plastica nel capanno degli attrezzi vicino all’orto, accanto agli altri sacchetti dove tengo le semenze. Chissà se un giorno li leggerà qualcuno, chissà se serviranno a qualcosa. Chissà.

FOGLIETTO SECONDO

Quando tutto questo sia cominciato, proprio l’inizio di tutto intendo, con precisione non saprei dire. Il nostro Santo Padre Benedetto XVII indisse il Concilio, come si sa, nell’anno di Dio 2018. Concilio pastorale e dogmatico, il che vuol dire, mi spiegarono, che poteva anche cambiare quelle verità in cui noialtri cattolici avevamo sempre creduto. Cioè non proprio cambiarle come si cambia un abito, ma renderle più comprensibili alla gente di adesso.

E adesso la grande questione che doveva discutersi era quella della religione portata dagli arabi, la quale aveva preso piede un poco perché così tanti di loro erano venuti a vivere presso di noi, e un poco perché la nostra religione aveva tanti nemici anche fra gli italiani, e più ancora che pur non essendole nemici la tenevano come cosa senza importanza.

Si diceva (anche questo lo si ricorderà) che il nostro Santo Padre non voleva indire il Concilio, ma che lo avevano costretto a ciò. Sempre a quanto si diceva, egli aveva ceduto per evitare il grande scisma della Diocesi Ambrosiana, coi suoi famosi e sapienti Pastori, i suoi interpreti delle Scritture tanto bravi che nemmeno a Roma ce li avevano, e i suoi milioni di pecorelle di Dio.

Fatto si sta che il Concilio si tenne, dopo molti sì e no, e durante il medesimo avvennero dei fatti importanti che ho appresi anche per via del mio Abate e che ora io ridico come li ho capiti e li so.

Alcuni dei santi Presuli riuniti a Roma affermarono che la nostra cattolica religione era giunta al suo fine, e che quella portata sul continente dagli arabi era in certo modo la sua prosecuzione, ma più conveniente a questo nostro tempo moderno. Un po’come in cucina quando friggo le uova nella padella grande: da liquide si fanno solide e sembra che siano diventate un’altra cosa, ma la sostanza è sempre la stessa. Sostenevano questi santi Presuli che l’Islam essendo una religione più semplice e agevole da capire, senza i fronzoli e le complicazioni dottrinarie della nostra, meglio si adattava all’uomo del giorno di oggi, uso al ragionamento e poco inclinato agli arzigogoli dei teologi. Proponevano dunque essi che il Pontefice, con il più solenne atto che ci fosse, proclamasse che Santa Chiesa stava per confluire nella religione di Maometto come un torrente mezzo seccato e  tortuoso può confluire in un fiume ben diritto e copioso d’acque. La bozza dell’enciclica, dicono, era stata scritta nel monastero di Assisi da sapienti monaci del mio stesso Ordine, ed era stata rivista a Milano in un ufficio della Curia Arcivescovile. Infine era stata sottoposta al Cardinale Epifanti Oldoini da anni dimorante nel suo eremo presso Gerusalemme, il quale l’aveva assentita.

Questa Solvendam Ecclesiam, però, non piaceva al Santo Padre Benedetto XVII. Egli cercò di opporlesi in ogni modo, in ciò coadiuvato da alcuni anziani Cardinali di assai rinomanza e valore.

Si vide così in Concilio questo scandolo: che illustri Presuli discutevano fra di loro non al modo di uomini di religione, ma come sogliono fare i membri dei Parlamenti civili quando tra di loro concionano: con frasi e fino con gesti assai poco fraterni.

FOGLIETTO TERZO

Ma di questo non voglio parlare, per il rispetto che ogni figlio deve avere verso la propria Madre.

Ora avvenne ciò che tutti sanno: che poche settimane dopo l’inizio dei lavori conciliari nostro Signore (comunque oggi lo si appelli) chiamò a sé l’anima del Santo Padre Benedetto.

Grande fu lo sconforto di tutta la Chiesa, e principalmente di quanti non volevano che la nostra santa religione avesse a finire o diventasse tutt’altro da quel che era.

Fatto sta che il concilio fu sospeso, ed ebbe inizio il conclave.

A questo, lasciato il suo santo eremo presso Gerusalemme, intervenne pure il Cardinale Epifanti Oldoini, il quale non aveva potuto presenziare il Concilio perché non era in buone condizioni di salute, ma si diceva che tutto quanto vi accadeva gli venisse riportato così che egli poteva consigliare quei Padri che più lo corrispondevano.

Dicono anche che all’ingresso nel sacro palazzo di quest’uomo sempre serio e composto, grande e solenne nella figura, la gran parte degli altri Padri si alzarono in piedi e lo salutarono con gesti e parole di affetto, ai quali rispondeva col braccio alzato, benedicendo.

Quando, in capo a un mese di discussioni e di votazioni, egli fu papa col nome di Paolo VII, prima della ripresa del Concilio fu stabilita una settimana di pausa per ristorare i Padri dalle molte ambasce di quel periodo tempestoso. In quella settimana la bozza dell’enciclica mai pubblicata Solvendam Ecclesiam fu fatta leggere a molti eminenti Padri. Di alcuni essa ebbe l’approvazione, ma altri la ritenevano fin troppo azzardata, parendo loro che non tutto ciò che era il tesoro delle cose buone e sante della Chiesa di Cristo fosse da sbarazzarsene.

D’altro canto quei cardinali che non ritenevano di dover officiare le esequie della loro Santa Chiesa (così disse in confidenza uno di loro, e la frase si riseppe in giro) orbati della guida e del sostegno del santo Padre Benedetto che era uomo tanto mite di modi quanto di animo fermissimo, erano restati come timidi e ammutoliti. Non gli reggeva l’animo di sostenere le loro convinzioni tutte intere, anche perché la stampa secolare oltre che quella religiosa proprio in quel punto (s’era ormai giunti ai primi mesi del 2019) prese a pungerli e sbeffeggiarli senza il minimo ritegno dovuto alla santità loro. Perciò questi venerabili Padri in concilio non altro facevano che cautamente avanzare dubbi e difficoltà di fronte alle proposizioni dei sodali del santo Padre Paolo VII.

Apparve però anche così, nonostante le cautele e le timidità, che una gran parte dei Padri Conciliari non erano contenti di questo progetto concertato fra Assisi, Milano e Gerusalemme. Pure da parte di alcuni Ordini monastici e da movimenti di laici del popolo di Dio vennero delle critiche. Specialmente da parte di quell’ordine (o qualcosa di simile) che poi è stato sciolto e che era nato in Spagna (non ne ricordo il nome perché non se parla più, ma era un nome latino) vennero usate parole di grande fermezza, che non piacquero al nuovo Pontefice. E insomma di fronte al rischio di uno scisma di grandezza immensa il santo Padre Paolo cambiò il suo divisamento.

FOGLIETTO QUARTO

Quanto avvenne poi fu, come si disse, concordato col sacro Consiglio degli Ulema di Roma? E come posso io frate ignorante confermare o smentire questa voce, che cominciò a circolare e non è poi mai venuta meno? Alcuni dissero che erano stati gli stessi Ulema a consigliare a Papa Paolo la moderazione e l’attesa, ché tanto tutto quanto si sarebbe compiuto secondo il volere di Allah e non c’era necessità di sforzare i tempi. Stesse dunque contento, il Santo Padre, di fare dei gran passi nelle giusta direzione, proprio come li stava facendo, e avrebbe avuto di certo la benedizione e il favore di Allah.

Comunque sia, da quel momento non si parlò più di liquidazione (questa è parola mia, giacché ne erano state usate altre migliori, che non ricordo) della Chiesa e del suo insegnamento, ma di riforma. Questa parola dicevano anche in latino: mi pare che suonasse come riformázio o qualcosa del genere. Si trattava infine di cambiare le verità nostre in modo che assomigliassero alle loro, dico a quelle dei nostri fratelli islamici, ma al contempo che rimanesse ancora una traccia almeno della religione insegnata da Cristo.

Io non sono certo teologo o esperto di ecclesiologia, parola questa che mi è stata spiegata con un po’ di fatica dal mio Abate. Sono un umile frate di pochi studi, perché al tempo del mio noviziato i superiori si accorsero subito che non ero troppo portato né alla lingua né alle matematiche, e mi assegnarono incarichi da poco. In verità mi piace leggere e appena posso lo faccio, ma mi è mancato il dono della profondità dell’intelletto. Non sono che il cuoco del convento e non mi convengono le parole difficili e i ragionamenti complicati. Quindi mi perdoneranno i miei futuri lettori (chissà se mai ce ne saranno) se non sono preciso nel riferire i nomi dei documenti conciliari che portarono tutti i cambiamenti che sono avvenuti. Voglio dire che faccio confusione fra costituzioni, decreti ed encicliche. Non ho mai capito bene che differenza passi fra l’uno e l’altro di questi, tranne che, forse, la Costituzione è il documento più importante e tutti quanti credono nell’Unotrino la devono obbedire.

FOGLIETTO QUINTO

Faccio ora un passo indietro, scusandomi per la dimenticanza e la confusione. Ripensando le cose che ho scritte ieri, mi è venuto in mente che Il Concilio Vaticano III fu preparato e come introdotto dall’enciclica pubblicata nel gennaio di quel fatidico anno 2018, la Novum tempus adveniens (questa volta non ho paura di sbagliare, perché la si trova rilegata in tela in tutte le celle del convento, e così anche nella mia).

E ora trascrivo di seguito, prese alla lettera, le prime righe dl’Introduzione tradotta in italiano:

Venerabili Fratelli, diletti Figli,
salute e apostolica benedizione.

Il nuovo tempo che sopravviene sollecita la Santa Chiesa ad interrogarsi e ad assumere risoluzioni degne della divina missione che le è stata affidata dal suo fondatore. Essa infatti possiede il dono della profezia con Mosè che prefigura e annuncia il Cristo (Atti 3, 22,) poi con  S. Giovanni che dice: “colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali, egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (MT, 3, 11), infine con Cristo stesso che chiama se stesso profeta (Mc ,6, 4) e come tale opera in diversi luoghi dell’Evangelo.

Risulta chiara, così, la disposizione efficace della Santa Chiesa all’interpretazione dei tempi alla luce delle Verità ad essa rivelate. E poiché non è questa società di santi e peccatori  un’entità astratta e quasi estranea dalla storia, ma con la storia nel suo concreto procedere  è mischiata e confusa, viene ad essere anche essa stessa, con le sue prerogative e le forme del suo apostolato, l’oggetto della propria vocazione profetica.

La grande migrazione di popoli di origine araba sul Vecchio Continente ed in particolare nella diletta Nazione ove ha sede la cattedra di Pietro, in corso ormai da un trentennio, non certo esorbita dall’ammirabile piano divino che integra gli eventi della storia dell’uomo e ad essi conferisce senso e compimento. Non può pertanto ritenersi evento contingente che la religione tradizionale di queste popolazioni si sia tanto diffusa presso di noi, ma è essa circostanza che impegna quanti hanno responsabilità di anime ad indicare vie nuove alla riflessione e alla prassi religiosa e morale.

Di fronte a un evento di tale portata due sono gli atteggiamenti da ritenersi erronei. Uno è quello di coloro che, svenduta senzaltro la fede dei padri, ne adottano una falsa estemporanea e completamente nuova adorando il vitello doro (Es. 32, 6). Ma più grave ancora è quello di chi, come lo scriba, non accetta le conseguenze dei tempi nuovi e dice a Gesù: Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?” (Mc 7, 5). (…)

Basta, mi fermo qui stasera, perché il mio Abate mi ripete sempre che in queste prime righe c’è già tutto: c’è lo spirito di moderazione del Concilio Vaticano III e in nuce (non so bene che cosa voglia dire, forse in succo, in un condensato) tutti i cambiamenti che ci sono stati e che ora stiamo vivendo.

Ora ho sonno, copiare la paginetta con questa luce fioca mi ha stancato un poco gli occhi e vado a dormire. Domattina devo alzarmi presto per recitare le Lodi all’Unotrino.

FOGLIETTO SESTO

Voglio cominciare questo scritto di stasera da dove ho finito ieri e cioè dal Signore nostro Unotrino.

Uno dei primi atti del Concilio fu infatti la Costituzione dogmatica del nuovo Simbolo. “De novo Symbolo dogmatica Constitutio”: ce l’ho anche quella qui sulla scansietta sopra il mio letto, ma in compendio, non tutta intera.

Una delle prime questioni che i Santi Padri discussero fu infatti quella della ex Santa Trinità (giacché oggi non la si deve più chiamare così: continuano a farlo solo le vecchiette superstiziose che non vale neppure la pena di stare a correggere, come dice frate Ronald). Il fatto è che i nostri fratelli mussulmani pensavano, e pensano tuttora, che Dio sia uno e uno solo. Del resto, mi spiegò a suo tempo il mio Abate, questo concetto di un Dio unico che però può essere anche Trino ha sempre fatto sì, nella storia della Chiesa, che si portassero avanti delle gran discussioni, concili, liti, scismi, e non so quali altre noiose questioni. I più grandi sapienti teologi ci si sono accapigliati per secoli, e la preghiera che si recitava prima (il Credo, che era chiamato anche Simbolo e oggi è chiamato Vecchio Simbolo) era il risultato di tutte queste discussioni e litigi, tanto che non risultava per niente chiara ai fedeli che la recitavano.

Il Nuovo Simbolo (come ancora mi spiegò il mio Abate, che a quei tempi era sempre in contatto col nostro Ministro Generale) fu anch’esso il frutto di un compromesso fra i Padri Conciliari, ma è certo assai più comprensibile, oltre che più breve. All’inizio c’era in effetti chi aveva proposto una formula che fosse la più somigliante possibile alla professione di fede mussulmana. Suonava così: “Credo in Dio, Signore Unico e Grande”. Ci furono però delle polemiche ad opera, dice l’Abate e dice anche frate Ronald, della parte del Concilio meno contenta delle innovazioni. Questi Padri sollevarono diverse obiezioni, e quando non ebbero altro da dire ricordarono che anche i saggi Ulema avevano consigliato al Pontefice di non fare passi avventati, per non provocare ribellioni nei credenti più cocciuti e più pigri.

D’altro canto non si poteva neppure lasciare le cose come stavano: con quel Figlio e quello Spirito Santo che se ne stavano per conto loro e sembrava che avessero la stessa importanza del Padre. Così la discussione dei santi presuli si accese intorno a due formule: “Credo nell’Uno-Trino” e “Credo nell’Unotrino”.

Confesso subito che questa questione è troppo superiore alla mia mente ristretta di frate cuciniere. Ora dunque lettori miei abbiate la santa pazienza, ché cercherò di spiegarla come potrò (però domani, perché oggi è il 7 luglio, ho spignattato tutto il giorno per la festa della Riconciliazione e adesso crollo di sonno, si capisce pure da come scrivo).

FOGLIETTO SETTIMO

Questa grande questione fu poi chiamata dagli studiosi, per intendersi subito fra di loro, “la disputa del trattino”.

Affermavano alcuni (e si dicevano i seguaci dell’insegnamento del Santo Pontefice Benedetto XVII) che il trattino aveva la sua ragion d’essere, poiché voleva significare che Dio era Uno ma insieme anche Trino. Era l’una e l’altra cosa, anche se la  limitata mente dell’uomo non capiva come. E quando gli avversari loro ribattevano che così si ricadeva nell’errore di prima, e si offendevano i milioni di fratelli venuti dall’Africa, e non si era più dentro lo spirito dei tempi nuovi, essi ribattevano di non preoccuparsi poiché in ogni modo, nel Simbolo, di questa Trinità non si diceva poi niente, non comparendovi né il Figlio né Lo Spirito. Infatti dopo le parole “Credo nell’Uno-Trino onnipotente, Signore e Creatore del cielo e della terra ”, subito veniva: “Credo la Chiesa…” ecc. ecc. Dunque è vero che il trattino collegava “Uno” e “Trino” come se fossero importanti allo stesso modo, ma nei fatti chi voleva sapere qualcosa del Figlio e dello Spirito doveva andarseli a cercare nei vecchi libroni di teologia: e chi si sarebbe mai preso questa briga?

Questo argomento, per la sua prudente moderazione, fu apprezzato anche da molti Vescovi e Cardinali vicini al Santo Padre Paolo VII, ma non resisté a lungo all’obiezione che comunque sia il trattino dà alla parola “Trino” la stessa dignità della parola “Uno”. Su questo punto ci fu anche un intervento, apprezzato assai da molti Padri conciliari, del Ministro generale del mio Ordine francescano il quale dal gran sapiente che è lo scrisse anche lui in latino, e iniziava (lo so perché è qui su nella scansia) “Eadem dignitatem lineola ponit inter verbum et verbum….” .

Dunque si impose, dopo lunghe discussioni e votazioni più volte ripetute, l’altra formula.

I suoi sostenitori spiegarono ai padri recalcitranti che così doveva essere, poiché senza il trattino l’espressione “trino” perdeva la sua “pregnanza” e diventava come un suffisso (“quasi suffissum tantum” ebbe a dire il mio Ministro Generale nello stesso scritto di sopra). Ora io non so bene cos’è un suffisso, ma credo di capire, per dirlo in parole povere, che è una parola collegata a un’altra parola, che è meno importante di questa parola, e che si trova lì quasi per caso. Inoltre, osservarono questi ultimi padri, cadendo il trattino cadeva anche la T maiuscola, e così la parola veniva ad avere ancora minore importanza, trattino o non trattino. E quando i Padri più tradizionalisti, assai irritati e quasi furibondi, dissero ai loro avversatori: – allora toglietela del tutto! – questi ultimi, che si erano consultati con gli Ulema, risposero che prima o poi ciò si sarebbe fatto, ma non stava né a loro né ad altri decidere quando, perché il futuro è solo nelle mani dell’Unotrino e della sua infinita sapienza.

Il riferimento alla seconda e alla terza Persona fu così proibito, come tutti sanno, con il documento “Non est conveniens”.

FOGLIETTO OTTAVO

Ma ora desidero affrontare un altro argomento, che mi è più caro di quello precedente. Con ciò non voglio dire che la questione dell’Uno e del Trino non sia importante, ma è piuttosto affare da teologi e da biblisti che da povero frate ignorante come  sono io. Perché, che cosa deve importare a me oltre a questo quotidiano lavoro di vivandiere e di cuoco, e all’ossequio del dovere di condivisione e di carità verso gli altri monaci? Che cosa se non la preghiera?

Diversamente da certi miei confratelli, che le recitano poco e di malavoglia, a me le orazioni hanno sempre portato conforto e speranza. Ho sempre trovato in esse una vera compagnia, una consolazione quando questa mia vita  di frate mi pesava con la sua solitudine, o quando i miei superiori mi trattavano con asprezza (certo me lo meritavo, a cagione della mia ignoranza e della mia grossolanità, ma non per questo non ne soffrivo). Grazie a queste preghiere che accompagnavano tutta la giornata, mi sembrava che ogni azione che andavo facendo (anche le più umili come lavare le stoviglie dopo i pasti dei miei confratelli) fosse un piccolo dono che facevo al mio Dio, quel Dio che a me peccatore ha donato non questa o quell’altra cosa, ma tutto se stesso.

Mi era sempre piaciuto, appena sveglio, alzarmi dal letto, inginocchiarmi in terra di fronte alle sacre immagini e recitare le Lodi:

Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole:
intendi il mio lamento. 
Ascolta la voce del mio grido,
o mio re e mio Dio,
perché ti prego, Signore. 
Al mattino ascolta la mia voce;
fin dal mattino t’invoco e sto in attesa.

Poi, nel corso della mia laboriosa giornata, interrompere le faccende (di solito, la preparazione dei pasti semplici e sostanziosi del convento) recarmi nella cappelletta  e recitare il Vespro insieme a frate Leandro,  e infine dopo la cena comunitaria dei frati (ma io che sono il cuoco non mangio che qualche boccone da solo) recitare Compieta nella mia celletta:

Nella veglia salvaci, Signore,

nel sonno non ci abbandonare,

il cuore vegli con Cristo

e il corpo riposi nella pace.

Gli occhi mi si chiudevano dal sonno, le mani (nonostante che le avessi lavate!) sapevano ancora degli impasti della cucina e io, infilandomi nel letto, avevo l’impressione di aver finito bene la mia giornata, di addormentarmi vicino al cuore del mio Gesù (che l’Unotrino mi perdoni se lo cito ancora così solo solo, ma l’ho fatto per tanti anni e nessuno me ne rimproverava, allora).

FOGLIETTO NONO

E ora invece lasciatemi dire qualcosa su queste nuove preghiere che andiamo recitando dopo il Concilio e il solenne documento detto “Modus orandi” che vi fu approvato dopo lunghe discussioni.

Ho fatto un poco di fatica ad avvezzarmi al nuovo Credo, lo riconosco. Anche recitare “Signor Nostro che sei nei cieli” al posto di “Padre Nostro …” per lungo tempo mi ha dato noia assai. Ma a tutto ci si abitua, anche a questo. Piuttosto, è stato per me difficile imparare a inginocchiarmi nella giusta direzione. Si sa che il Modus orandi ha definito dei modi di pregare da che si capisse la grande fraternità  che abbiamo oggi col popolo arabo e con la sua fede. Ora, è noto a tutti che i fratelli arabi pregano rivolti alla Mecca, città santa, per loro, perché il profeta Maometto vi fece molte e rimarchevoli cose. Anche in questo caso al Concilio si confrontarono Vescovi e Cardinali che non condividevano le stesse opinioni, e si dovette trovare un punto di incontro in mezzo a tante discussioni e dispute.

Così andarono le cose, stando a quanto ci riferì in dettaglio l’Abate nostro in quei giorni travagliosi. Il Cardinal Lattanzi, Primate della Diocesi di Milano e grande amico del santo Pontefice Pio VII, sostenne che le orazioni della nostra religione, e segnatamente il Signor Nostro, dovevano recitarsi in ginocchio e rivolti alla Mecca, siccome facevano i fratelli islamici. Ciò non soltanto per quello che di importante Maometto aveva fatto in questa città, ma in segno di risarcimento dopo che per secoli e secoli noi cristiani avevamo assai malamente angariato questi buoni fratelli.

Non tutti i Padri conciliari erano però contenti della proposta del Cardinal Lattanzi. Il Cardinale Spontini, che cercava di fare da mediatore fra i religiosi più in disaccordo, propose allora che si pregasse sì inginocchiati, ma non rivolti alla Mecca, sebbene in direzione di Gerusalemme. Diss’egli che in fondo quest’ultima era una città sacra anche per i mussulmani, e così non vi era da temere che questa decisione li contrariasse. E in fin dei conti la somiglianza del gesto avrebbe comprovato di per sé stessa l’amicizia coi fratelli maghrebini e con la loro religione. Ma come finirono le cose lo narrerò domani, perché a questa mia età sono ancora sfiancato per tutti gli addobbi e i conviti della festa della Riconciliazione, sebbene ne siano trascorsi già tre giorni.

FOGLIETTO DECIMO

Ieri sera ero rimasto che i santi Padri Conciliari discutevano se fosse più giusto, recitando le orazioni, rivolgersi verso la Mecca o verso Gerusalemme.

Dice il mio Abate che sulla questione il Concilio era spaccato in due parti pressoché uguali, e non si veniva a capo della cosa, per quanto se ne discutesse. Ora che è stata risolta la questione sembra facile, ma in quei giorni i Padri si scervellavano senza risultato.

Allora intervenne il nostro Ministro Generale, che fino a quel momento aveva detto la sua solo in occasione della famosa “disputa del trattino” e poi aveva sempre per umiltà taciuto. Egli, che pure sa di latino, parlò, come sempre suole, in tutta semplicità francescana, evitando le espressioni ampollose, come parlano i frati tra di loro in refettorio fra un boccone e l’altro.

E disse in tutta semplicità cose sensatissime, tanto che l’eminente Cardinale Lattanzi ebbe subito a dire il Concilio aveva trovato in lui un “secondo Salomone”.

La soluzione, disse il Ministro, consisteva nel tracciare una linea immaginaria fra le coordinate geografiche della Mecca e quelle di Gerusalemme, trovare il punto mediano preciso di questa linea e infine rivolgersi durante le orazioni esattamente nella direzione di questo punto. E dopo aver mostrato un ben rilegato libriccino che aveva in mano, lo aprì, e leggendovi disse:  – Ecco, venerandi fratelli nell’Unotrino, vedete? Leggo in questo comunissimo Dizionarietto geografico. Le coordinate della Mecca sono le seguenti: 21,26 gradi di latitudine, 39,49 di longitudine. E Gerusalemme? è subito detto: 31, 47 di latitudine, 35.13 di longitudine. Dunque facciamo la media: viene fuori (e qui tirò fuori dalla tasca una piccola calcolatrice su cui muoveva velocemente le dita) 26,36 di latitudine e 37, 31 di longitudine. Ecco venerandi Padri e Fratelli, vedete? In questa direzione noi pregheremo. Si farà un po’ di fatica all’inizio a trovare l’orientamento giusto, ma con l’abitudine il gesto verrà da sé. –

La parte del Concilio meno propensa alle grandi innovazioni che si andavano facendo (la quale, in verità non voleva pregare né verso La Mecca né verso Gerusalemme ma così come capitava, senza ordine) chiese subito una pausa dei lavori conciliari, che un po’ malvolentieri fu accordata dal Santo Pontefice.

Nei giorni di riposo questi Padri ebbero modo di consultarsi fra di loro, cercando di escogitare delle obiezioni ben fondate a questa decisione che si profilava.

E ora approfitto di questa pausa anch’io e vado a dormire. Lo scrivere non mi risulta facile, mi affatica e mi viene subito sonno. Anche se mi pare di essere un po’ migliorato, con l’esercizio. Ma questo non sta a me dirlo, piuttosto a coloro che leggeranno queste righe, se mai ce ne saranno.

FOGLIETTO UNDECIMO

Alla ripresa dei lavori parlò il Cardinale de Mellis. Nel silenzio e nel raccoglimento di tutti i Padri,  egli si alzò dallo scranno e argomentò che sia i religiosi che i laici che si riconoscevano nel culto dell’Unotrino non erano avvezzi  a compiere tali operazioni, e di conseguenza si sarebbero certamente ingannati quanto alla direzione verso cui rivolgersi, fosse quella della Mecca, di Gerusalemme o fosse il punto mediano fra tali sante città. Si rischiava così, in caso si fosse sbagliata la direzione, di rendere vano tutto il significato della manovra (fatto salvo ogni giudizio su di essa, che il cardinale non voleva esprimere al presente). L’assemblea rimase muta, non sapendosi bene cosa rispondere all’illustre Presule.

Ma ancora una volta la via fu indicata dal nostro santo Ordine, per la bocca ispirata del Ministro generale. Dissero poi che in realtà, avendo egli previsto l’obiezione del Cardinale de Mellis, si fosse consigliato con i dotti islamici che liberamente frequentavano, come ora pure lo frequentano, il sacro Monastero di Assisi: di questo nulla io so per certo. Fatto sta che il Ministro, chiesta la parola, ottenutala, alzatosi in piedi, con la semplicità che contraddistingue ogni suo gesto tirò fuori dalla tasca capace un piccolo oggetto rotondo, e sorridendo lo alzò sopra il capo e si mise a mostrarlo tutto in torno agli altri reverendissimi Padri.

E come molti di questi, non riuscendolo a distinguere, chiedevano ad alta voce: cos’è? cos’è? da ogni parte dell’immensa sala, egli disse che l’oggetto altro non era che una bussola, invero di buona fattura e qualità anche se piccoletta, e che guardandola agevolmente si poteva capire la direzione in cui volgersi pregando.

E poiché quello di dire le orazioni è un sacro dovere per un frate, per un sacerdote, e a ben vedere anche per un laico, aggiunse che bisognava che l’uso della bussola fosse dichiarato doveroso per chierici e monaci, e quanto meno consigliato ai laici.

Così il Concilio con un apposito atto stabilì quello che ora tutti vedono e sanno, e cioè che noi fraticelli minori portiamo la bussola appesa alla corda che ci cinge i fianchi, che i membri di altri sacri ordini la portano legata alla loro cintura in pelle, mentre i sacerdoti, non avendo cintura, la portano in una tasca della loro tonaca, quando la indossano.

FOGLIETTO DODICESIMO

L’ultima questione di cui voglio parlare è quella delle sacre immagini.

La mia celletta mi sembra più spoglia senza il crocifisso e senza l’icona di San Francesco con l’aureola appesi alle pareti. Può darsi che, come mi dice frate Ronald, la mia fosse una fede immatura, fatto sta che questa figura senza volto che pende dalla parete mi inquieta un po’, e faccio fatica a rivolgermi ad essa quando prego l’Unotrino.

Le cose, per quanto mi furono spiegate e se le ho ben capite, andarono così. Risolta la questione delle preci, alcuni Padri Conciliari fecero presente, o per meglio dire ricordarono, che per la buona gente mussulmana Dio non può essere disegnato né dipinto e neppure può essere foggiata una statua con le sue sembianze, poiché ciò è gran sacrilegio. E che questo divieto vale anche per i suoi profeti. Era quindi venuto il momento di bandire e mettere da parte tutte le opere che, dentro le nostre chiese e negli edifici dei religiosi,  gravemente offendono questi cari fratelli che la provvidenza ci ha messo al fianco. Per quanto riguarda, invece, tutte le sacre immagini giacenti nei musei, nei pubblici palazzi, nelle vie, nelle piazze e fino lungo le stradette di montagna, la questione non era di competenza del Concilio, ma potevasi ben consigliare l’autorità civile per mezzo della buona stampa, nel rispetto delle reciproche competenze, affinché prudentemente agisse allo stesso modo.

Tornando alla questione religiosa, sulle sacre immagini ci fu una levata di scudi che nemmanco s’era vista quando si discuteva come scrivere Unotrino, se col trattino o senza. I Padri più tradizionalisti, guidati dal Cardinale de Mellis, si provarono a sostenere che il problema era già stato affrontato e risolto col secondo Concilio di Nicea, ma a questo punto sorse dal suo scranno il Ministro generale del mio Ordine (egli è piccolino ma vivace, con un gran ciuffo grigio sul capo) e chiese: – in che anno fu celebrato questo concilio? – E quando il Cardinale, che forse non aveva ben compreso cosa stava accadendo, rispose gravemente con tutta la sua sapienza: – nell’anno 787 – il Ministro apertamente si mise a sghignazzare senza dire altra parola, e poi si sedette, e si videro moltissimi dei Padri Conciliari chiudersi la bocca per non ridere altrettanto, altri invece scompisciarsi tenendosi il fianco, altri ancora sfogarsi meno rumorosamente con un riso di pancia.

A prescindere da questo episodio, la reazione dei Padri tradizionalisti indispose, a quanto si dice, il Santo Padre Paolo VII ed i presuli a lui più vicini, soprattutto quando il cardinale de Mellis chiese ancora una volta una pausa di riflessione, come la chiamò lui.

Durante la pausa, che durò una settimana, tutti i più eminenti teologi di un indirizzo e dell’altro si affaticarono sulla questione delle immagini, consultando libroni e parlandosi fra di loro. Fu anche inviata una delegazione presso la Moschea della Roccia di Gerusalemme, per studiarne i famosi mosaici e prendere spunto da essi per cercare di risolvere la questione. Infine il Concilio ricominciò.

FOGLIETTO TREDICESIMO

Alla ripresa dei lavori, il cardinale de Mellis iniziò a parlare facendo un lungo preambolo, pieno di suggestive immagini e paragoni. Egli concesse che la navicella della Chiesa doveva mutare rotta, come del resto stava facendo,  ma non tanto da finire contro gli scogli e affondare. Bisognava dunque, per trovare la giusta direzione nel gran mare della Storia, che cambiasse la velatura ma lo scafo rimanesse integro.

Cosa significava tutto ciò, nella questione che stavano affrontando? Egli propose di mantenere le immagini sacre tradizionali per quanto riguarda la figura, i gesti e il vestiario, ma di modificare le fattezze dei volti.

Infatti, egli disse, questi volti sono quelli degli uomini occidentali, e come tali il mussulmano, che è quasi sempre anche arabo, può sentirli lontani da sé e financo ostili. Ma se avessero le facce  degli uomini e delle donne semitici, proseguì, i fratelli dell’Islam potrebbero meglio apprezzarli. In particolar modo l’illustre Cardinale si soffermò sul viso che gli artisti hanno sempre dipinto, come copiandosi l’uno dall’altro lungo i secoli dei secoli, raffigurando il Cristo: lunghi capelli lisci, naso perfettamente diritto, occhi chiari (ma erano possibili occhi chiari presso l’antico popolo ebreo?), bocca regolare, pelle color del latte (anche qui: com’era possibile, con tutto quel sole?). Propose che le nuove immagini di Gesù fossero dipinte con un viso dalle fattezze tipicamente semitiche: capelli corti e ricciuti, penetranti e furbetti occhi neri, sopracciglia folte, naso camuso, labbra carnose, carnagione olivastra tendente al nero. Lo stesso propose per la Santa Vergine. I santi li si poteva invece lasciare com’erano poiché, a ben vedere, la proibizione islamica riguarda solo Dio e i profeti e dunque nessuno si sarebbe offeso vedendoli su quadri e tabernacoli con le loro solite facce, bastava che i fedeli non stessero troppo tempo davanti a loro cincischiando con lumini e altre simili usanze che irritano assai i nostri fratelli venuti da di là del mare.

La proposta fu lungamente dibattuta. Essa piacque anche a molti presuli che all’inizio si erano dichiarati per la scomparsa delle immagini sacre. Il Cardinal Lattanzi dal canto suo osservò che

la proposta del cardinale de Mellis permetteva di salvaguardare tanta arte sacra che altrimenti si sarebbe dovuta sacrificare. Infatti sarebbe stato sufficiente affidare a restauratori di mestiere (che non mancavano, anzi ve ne erano in gran numero senza lavoro) il compito di intervenire sui quadri e gli affreschi, sovrapponendo i nuovi volti ai vecchi. In alcuni casi gli interventi non sarebbero stati agevoli (citò come esempio la cappella Sistina: non sarebbe bastato modificare il volto di Dio onde trasformarlo in quello di un anziano e saggio Imam, ma si doveva intervenire su tutte le membra per iscurirle) ma, concluse, le questioni tecniche non sono mai quelle che decidono veramente delle cose.

Alla fine questa proposta non incontrò il favore della maggioranza dei presuli, ma neppure la spuntò quella di riempire di quadri e statue gli scantinati e i magazzini. In capo a lunghe discussioni la maggior parte dei Padri si formarono l’opinione che un volto, per occidentale o semita che sia, è sempre un volto, e quindi avrebbe arrecato offesa al fratello mussulmano che l’avesse visto là dove non doveva esserci.

L’intervento dei restauratori doveva dunque darsi nel senso che il volto della sacra immagine doveva essere cancellato, passandovi sopra il pennello con il colore che, a seconda dello sfondo dell’opera o di altre opportune considerazioni, sarebbe stato il più adatto. Per le immagini di minor pregio non era necessario scomodare dei restauratori di professione: bastava un poco di calce spalmata col pennello da muratore.

FOGLIETTO QUATTORDICESIMO E ULTIMO

Ecco perché oggi sul mio capezzale  c’è questo quadretto che, lo confesso, non mi dà gioia quando la guardo: era un’immagine tradizionale di Gesù benedicente, con una bianca veste e fasci di luce colorata che promanano dal suo sacro petto. Ai suoi piedi si legge ancora la scritta “Gesù confido in te”. Intorno al capo, più che una vera e propria aureola si vede una lieve luminosità, ma in luogo del volto (ch’era, lo ricordo, dolcissimo) c’è una macchia biancastra di forma ovale, opaca,  senza vita.

Me lo tengo così, che devo fare? Frate Ronald mi ha tolto pure l’immagine di San Francesco, anche se a rigore potevo tenermela. Dice che dal Concilio bisogna trarre tutte le conseguenze, anche quelle che i Padri, per prudenza, non ritennero di guadagnare subito, ma lasciarono all’intelligenza dei fedeli negli anni a venire.

Come dicevo all’inizio della mia lunga narrazione, tutti questi cambiamenti che si sono abbattuti sulla santa Chiesa dal 2018 ad oggi che siamo nell’anno dell’Unotrino 2024, mi hanno lasciato sbalordito e incerto. In questi foglietti non li ho riferiti tutti, ma solo quelli che mi hanno più colpito. Tutto il mio mondo è franato come le case del paese col terremoto di cinque anni fa, che sono state poi ricostruite sul fondovalle più moderne e confortevoli, disposte su tante file parallele intorno ad una piazza perfettamente quadrata coi pilastrini e i panettoni di cemento, tutte eguali con i loro tetti coperti di pannelli solari che brillano al sole. I paesani dicono che ora le case sono asciutte, che in macchina ci si muove meglio assai di quando le strade erano strette e tortuose, che fognature, gas ed elettricità finalmente funzionano come si deve. Ma io ogni tanto vedo qualcuno di loro che si reca là sul poggio, dove giace il paese diroccato, lentamente come in processione. Salgono per il sentiero, girano un poco per le stradette dal selciato sconnesso e pieno di erbacce, si fermano ad osservare mesti e silenziosi quelle che un tempo erano le loro case.

Io, qui nel monastero, cerco di vivere come facevo prima, ma ogni gesto che faccio e ogni parola che pronuncio mi sembra avere un significato diverso. Chiedo perdono se faccio sempre degli esempi che hanno l’origine dal mio lavoro di cuoco, ma la mia vita è un po’ come la pasta e fagioli che cucino ora, senza la cotenna: ha meno sapore di prima.

Domattina andrò a riporre quest’ultimo foglietto nel capanno degli attrezzi vicino all’orto.

I pomodori crescono a vista d’occhio e devo controllare che siano legati bene ai loro sostegni, altrimenti si chinano fino a terra e marciscono.

Fino a qualche anno fa per legarli usavo delle cordicelle, ma poi frate Ronald mi ha regalato tutti i rosari requisiti qui nel monastero subito dopo il Concilio. – Usa questi – mi ha detto – ché tanto non si sa più che farne. – Mi ha anche raccomandato di staccare tutti i crocefissi, perché se qualche fratello mussulmano che dimora presso di noi volesse fare un giro nell’orto ci rimarrebbe assai male.

Mi fanno una strana impressione le piante di pomodoro legate dai fili del rosario ma, come devo aver già scritto, ci si abitua a tutto.

Però al mio lettore che forse un giorno mi leggerà voglio fare un’ultima confessione.

Uno dei crocifissi non l’ho staccato. Il rosario intatto l’ho nascosto qui nel capanno (Dio mi perdoni) fra i secchi del fertilizzante.

Ogni tanto entro in questo casotto fingendo di mettere ordine.

Me ne sto qui per un po’ con la mia coroncina in mano, e recito l’Ave.


Alfonso Indelicato

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