di Piero Nicola

 

 

 

Erudito e poeta, poeta delle scienze filosofica e teologica, della mistica e della critica letteraria, sono gli appellativi che bene si attagliano a Guido Manacorda (1879-1965). Specie nella sua terza età, l’amore per l’arte, in cui vedeva uno stretto rapporto con la trascendenza, lo indusse ad animare di lirica espressione i suoi saggi più impegnativi, facendo di essi opere divulgative, sia che trattasse della Beata Vergine Maria, sia dedicandosi alle più spinte indagini sulla materia dottrinale non ancora definita dal Magistero. La vastità di studi, di conoscenze, di esperienze militari, politiche, religiose, mise ancora al servizio dell’uomo, dopo la tragica conclusione d’un’epoca, dopo la sua epurazione e dispensa dall’insegnamento universitario, nonostante la sordina impostagli dalla critica e le sue delusioni inerenti all’italiana patria di civiltà.

Su La civiltà cattolica 1956, vol. III p.376, Domenico Mondrone S.J. tracciava un profilo del Manacorda negando fosse uomo dotto secondo il concetto di cultura enciclopedica e vana, priva di termine e di valido scopo, “cultura che invece di tranquillizzare agita” e la cui “aureola è l’angoscia”: un sapere oggetto di stolto compiacimento per molti intellettuali senza fede autentica, invischiati in un miraggio religioso, o presi nelle sabbie mobili di un ateo umanesimo.

Colui che aveva risposto a un attacco ricevuto da La critica con il libello Benedetto Croce, ovvero dell’improntitudine (1932), colui che aveva smascherato il sedicente cattolico Mauriac imputandogli l’aver detto: “Mounier ci ha dato l’esempio della intrepidezza del credente che, nella stessa misura nella quale è credente, è libero di fronte alla gerarchia [ecclesiastica]”, veniva così ricordato da padre Mondrone: “saggista, filologo, scoliaste, autore di pagine polemiche e di viaggio, di filosofia e di estetica, di apologetica e di sociologia, è ammirabile la freschezza, l’eleganza, la duttilità con cui adopera la sua prosa”.

mn1Manacorda trascorre un’infanzia custodita dalla devozione familiare nella natale cittadina di Acqui. Durante la carriera di studente lo coglie la passione del sapere. Ma la Normale di Pisa, pervasa dal positivismo, non giova al suo spirito, che ora inclina alla miscredenza. Dopo corsi di perfezionamento a Firenze e in Germania, da topo di biblioteca a bibliotecario il passo è breve. In un succinto Elogio dell’erudizione, della misconosciuta, eroica ricerca di preziose autenticità saccheggiate da ingrati, egli rivive con nostalgia il gaudio giovanile d’aver trovato un inedito codice dantesco nella stessa Firenze. È questo un capitolo di Solitudini (Mondadori 1955), volume comprendente due precedenti edizioni, arricchito di nuove solitudini. “Le idee del pubblico grosso, e non di quello grosso soltanto, intorno agli eruditi e all’erudizione, non sono in genere molto differenti da quelle che ognuno di noi si farebbe, mettiamo, degli aviatori e dei loro voli, entrando in un’officina di riparazioni, dove il tanfo della benzina e dei lubrificanti prendesse alla gola, e frotte di piloti e di meccanici in ‘tuta’ torva e graveolente s’aggirassero tra ali divelte, eliche contorte e motori sconquassati”.

Ed allora: bibliotecario, direttore della biblioteca universitaria di Catania, di Pisa. L’ascesa prosegue col divenire libero docente, professore di letteratura tedesca a Napoli. Sopravviene la guerra. Volontario, combatte su diversi fronti. Costituisce un reparto speciale denominato La Giovane Italia, di cui narrerà le missioni segrete in un libro recante lo stesso titolo.

Nel 1926, a 47 anni, Manacorda rientra nell’Ovile. Sarà tra i primi a scrivere sul Frontespizio di Papini e Bargellini. Intanto si è fatto germanista autorevole, traduttore e studioso di Wagner e Goethe, interprete dell’anima tedesca. Visita la Germania, la Polonia, la Francia, la Scandinavia, collabora con riviste e con importanti quotidiani, tiene conferenze, durate sino al 1945. Ciò gli consentirà di svolgere missioni di carattere diplomatico anche presso Hitler. Intanto ha composto un sistema filosofico-religioso antidealistico, esposto in libri sulla mistica. Nel 1940 pubblica Il bolscevismo, diffuso e ristampato, dove sviscera il fenomeno del marxismo nell’URSS nei suoi vari aspetti, lungo le successive fasi di applicazione e di realistico adattamento: sempre innaturale, crudele, omicida, impotente a uscire dalla corruzione, dalle falsificazioni e da un utopico messianismo o millenarismo. Egli riprenderà questo argomento nel 1953 con Comunismo e cattolicesimo, quando la paurosa chimera comunista andava alla conquista del popolo, ed era più che mai opportuno rinfrescare la circostanziata condanna dell’enciclica di Pio XI Divini Redemptoris promissio (1937), nella quale figurava nondimeno la colpa del liberalismo: “Per spiegare poi come il comunismo sia riuscito a farsi accettare senza esame da tante masse di operai, conviene ricordarsi che questi vi erano preparati dall’abbandono religioso e morale nel quale erano stati lasciati dall’economia liberale […] Si continuava a promuovere positivamente il laicismo. Si raccoglie dunque ora l’eredità di errori dai Nostri Predecessori e da Noi stessi tante volte denunziati, e non è da meravigliarsi che in un mondo già largamente scristianizzato dilaghi l’errore comunista”. Un errore con l’andar del tempo inevitabilmente trasformato, ma tutt’altro che estinto nel suo spirito materialista. La sua brama orgogliosa ed empia, sopravanzando il declino e la fine del regime sovietico, accetta i facoltosi padroni sperando di trarne profitto o di arricchirsi a sua volta. La ben maggiore prosperità dei regimi capitalistici, l’odierno darsi al gioco d’azzardo, l’americana fiducia nelle proprie capacità ancora inespresse e nella fortuna aperta a chiunque, attestano la chiusa conseguenza, la bassa prosecuzione del vecchio e rozzo comunismo.

Poesia e contemplazioni (1947) ebbe una recensione entusiasta sull’Osservatore Romano (8 feb. 1948), che pure ospitò articoli del Manacorda. Il saggio ci mette davanti quattro grandi nella storia della Chiesa. Gioacchino da Fiore, San Francesco, Dante, Santa Caterina da Siena. Scelta senza dubbio singolare, essendo essi distanti per ortodossia (Gioacchino condannato per un libello dal Concilio Lateranense del 1220), per misticismo (Dante quasi soltanto poeta e teologo), per sapere teologico.

L’autore bada, in chiave di poesia, all’eccezionalità delle visioni, che vanno dal sogno gioachimita, gravido di tristi effetti nei secoli, allo strabiliante affratellamento in Dio delle creature, alla costruzione della Divina Commedia, al disegno, perseguito e premiato, di una salutare ricomposizione della Chiesa.

Gioacchino, con una particolare esegesi del Vecchio Testamento profetizza un prossimo ordine del mondo ecclesiastico e laico, restaurato dallo Spirito Santo a somiglianza dalla Gerusalemme celeste. Nonostante i suoi errori, costruisce una società monastica estesa e proficua, sicché, poco dopo la sua morte, Onorio III vuol pacificare gli animi divisi al suo riguardo dichiarando doversi egli ritenere virum catholicum e la sua regola valevole e salutare. Con qualche indulgenza, al monaco calabrese viene accordata una grande concezione poetico-religiosa, riscattata dal fatto che, prima di spirare, egli pregò gli abati di sottoporre i suoi libri all’approvazione ecclesiastica ed, eventualmente di correggerli.

San Francesco fu artista vero e completo, fino alla parola scritta. La sua carità non deve ingannare: “Guai a cquelli che ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke (se) trovara(no) ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda nol farrà male”.

La fraternità di S. Francesco non ha nulla di quella legale e politica dell’illuminismo.

“Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, ed hai fatti grandi maleficj, guastando e uccidendo le creature di Dio senza sua licenza […] hai avuto l’ardire di uccidere gli uomini, fatti all’immagine di Dio; per la qual cosa tu sei degno delle forche, come ladro e omicida pessimo […] e io voglio, frate lupo, far la pace fra te e costoro; sicché non gli offenda più…”

Con cenni di assenso il lupo promette di non far altro male. L’episodio è denso di significati. Manacorda fa notare che Francesco non fu indiscriminatamente amico degli animali. Alcuni lì ammonì, predisse la giusta morte dell’uccellino ingordo e prepotente; maledisse la troia che uccise l’agnellino, ed essa crepò. Viene in mente il passo del Vangelo in cui i demoni, scacciati da un ossesso, invasano i porci che si precipitano ad annegarsi.

“Vai per la tua strada, frate mosca, giacché vuoi mangiare del sudore dei tuoi fratelli, e rimanertene in ozio nel campo di Dio”.

Francesco, musico e cantore, amante della pura bellezza. “Frate corpo”. Interessanti le digressioni dell’autore sulle mortificazioni sconsigliate, sul passaggio dalla bellezza alla gioia: negato dal romanticismo. Il puro sacrificio dà la perfetta letizia: sopportare tutto per il Signore. Il cattolicesimo non è triste. Tutto il paganesimo è sconsolato. Menzogna dell’illuminismo che dice oscuro il cattolicesimo. La povertà non conferisce virtù, se non accettata o voluta meritevolmente.

“Sul crudo sasso della Verna, tra sinfonie di selva al primo trepido baluginare dell’alba – l’alba del giorno di Santa Croce – impresse Cristo, in sembianza di splendidissimo Serafino, entro la carne viva del suo fedele i segni indistruttibili della propria Passione. E ne arse tutto il monte, e ne arsero le valli vicine ‘come se il sole fosse già sorto’”. L’ultimo viaggio: “Partì […] verso quella Porziuncola, dove ormai l’attendeva tra le sue braccia diafane ‘sora nostra morte corporale’. Partì, non crociato martire della Fede, come tante volte era stato suo ardentissimo desiderio; ma forse qualche cosa di ancora più alto e augusto: cavaliere chiodato di Cristo”.

m2Dante. Uomo passionale e anche sensuale. Cantore cristiano e nobile, nonostante tutto; provvisto dell’enorme contenuto dei testi della precedente e a lui contemporanea civiltà, adoperato con grande sicurezza anche nei trattati politici. Il mondo è fatto per essere retto da un imperatore, come uno è il capo dell’esercito, dell’officina, della Chiesa, della nave. Roma eletta per una missione provvidenziale, unitaria. L’impero cattolico è l’unica giusta forma di reggimento e, per volere divino, a tutela della stessa completa integrità della Chiesa. Pontefice: custode della Rivelazione e della Grazia. Monarca: custode della legge naturale e del buon governo. Due astri solari. Primato dello spirito e primato dell’imperio ricevuto dal Signore. Anche Dante peccò di una concezione del mondo ideale-ghibellina. Tuttavia perché la salvezza del genere umano non potrebbe venire da una mondana potestà baciata dalla Grazia?

“Soltanto dopo Dante […] s’inizierà organicamente quel processo di frattura e sgretolamento, che prenderà nome di pensiero moderno; in sostanza […] divenire in luogo di essere, immanenza in luogo di trascendenza, pluralismo, frammentarismo, atomismo, in luogo di unità; livellamento in luogo di gerarchia”.

La Divina  Commedia: opera somma. Scultura l’Inferno. Pittura il Purgatorio. Il Paradiso, eccelsa poesia che descrive Dio-Trinità: musica e luce. Quantunque, la Commedia, lavoro umano, presenti dei punti oscuri.

Il volume termina con Santa Caterina da Siena. Ecco la scala mistica: cogitatiomeditatio – contemplatio. Sorella, nell’esperienza di Dio, a San Giovanni della Croce e a Santa Caterina d’Avila, ottiene quell’arduo acquisto dell’amore-carità e della diretta conoscenza di Dio che si ha nella discesa in se stessi, ove si troverebbe una deificazione (Agostino), per risalire trasformati militi del Signore. Caterina riceve la visione allegorica del ponte costruito da Cristo sull’abisso che divideva il mondo da Dio. Vi si sale per tre gradoni: mercenario (timore), liberale (fedeltà), filiale (amore). Ma per passare alla beata sponda, quanti cadono e sono travolti dal sottostante fiume del peccato! Ben noti gli incitamenti rivolti a Gregorio XI: “Rispondete a Dio, che vi chiama che veniate a tenere e a possedere il luogo del glorioso pastore Santo Pietro […] Siatemi uomo virile e non timoroso!” Notevole la banditrice di crociate contro gli scismatici. “Orsù con l’arme!”, “Siate aquilini!”, “Siate il cavaliere che non schifa colpi!” “Dio non ha dato in questa vita alcuna cosa che sia impedimento alla salute […] tutto è piacevole, pur che sia fatto con dritta e buona intenzione”: anche la guerra. La quale può “esercitare in virtù” e dare “conoscimento della miseria propria e della divina bontà”.

1950: Delle cose supreme, volume I (gli altri non saranno pubblicati dallo scrittore). Sui temi della mistica sacra o profana, degli itinerari di trascendenza, sui termini di luce e tenebra, di silenzio e parola, sulla solitudo o similitudo, sui simboli polivalenti: cerchio, scala, croce, numero, Manacorda si dà agli approfondimenti degli sviluppi teologici e della separazione del vero dal falso, che giudica sia venuto per lui il momento di comporre e trasmettere a conclusione della sua vita studiosa e sperimentata. Il sottotitolo Un preludio, apposto al libro, lo svincola da una esposizione organica, sembra permettergli di esprimere quanto gli sta più a cuore, avendo sentore che il previsto compimento non sarà possibile.

Da tempo, attraverso prove “provvidenziali” (cecità finalmente guarita, “indicibili stenti in fierissimo dolore e desolata solitudine […] in una casa, già malconcia e situata sulla linea di fuoco, giorno e notte bombardata e mitragliata” a Firenze, dove scrisse i primi due capitoli), egli sta al sicuro nella fede, da “uomo che crede graniticamente nel Cristo”. Ma aggiunge, nella Presentazione, che se mai dovesse scoprire l’errore insinuato nella sua opera, avrebbe il coraggio di bruciarla.

“Chi ritiene che il dogma sia una specie di ergastolo delle coscienze e che da uno spirito moderno possa essere accolto, al più, sotto specie di evoluzione, segno è che il dogma non l’ha mai inteso né vissuto. Non è carcere quel che si intende e si vive come verità, e perciò stesso come universalità e libertà; non può evolversi quel che è di sua intrinseca natura perenne”.

E torniamo a sfogliare Solitudini del 1955. La prosa poetica esordisce dipingendo una scena morale della storia, la sconfitta navale di Serse ad opera delle triremi precise, veloci, implacabili al pari delle galee veneziane contro i legni turchi. Si susseguono suggestioni di viaggio. In un albergo di Weimar aleggiano gli “spiriti magni” che vi soggiornarono: musicisti, poeti tedeschi, Napoleone. A Pont d’Avignon una tempesta sul Rodano e sul palazzo dei Papi monta in un’estetica alquanto barocca e che assorbe i sentimenti e i richiami storici. Il santuario della Sainte Baume spicca pittoresco; al tradizionale ritiro ivi racchiuso di Santa Maddalena penitente in Provenza, la pulizia incisiva del racconto, la grazia del dialogo con Cristo tornato a lei ammonitore, non tolgono un senso di leggenda posticcia. E si allarga la visuale domestica su un tramonto fiorentino: peccato e virtù grandi, espressi dall’architettura cittadina. Campi Flegrei e l’antica Cuma sorgente dai ruderi. Baia all’occaso, con comari ciancianti, lo sfondo del golfo e le sue perle di terra e di mare, canto napoletano che si leva da barca dondolante, in condimento di preziosismo dannunziano. Ancora nel capitolo Povera gente la penna indugia nel disegno efficace ma tiepido. Gli incontri solitari riferiscono storie di miseria, malattia, abbandono. Soltanto il generoso manovale della ferrovia, che giace ucciso dal treno, conserva un’ombra di sorriso nel sole “già trionfante e che avvolgeva il suo povero corpo in un sudario di fiamma viva”. Figure spinte all’irreale come questa non mancano. La vigilia di Natale, in visita all’ospizio: nulla vince la tristezza dei disgraziati.

Tempo di Grande Guerra: lo stile comincia ad asciugarsi, a personalizzarsi. Gli aneddoti  acquistano istruttivo senso compiuto. Il cocchiere che viene a prenderlo per portarlo alla stazione da dove partirà alla volta del fronte, mostra di intendersela con la camorra. Sebbene colpito dalla fierezza popolana del mondo fuorilegge, egli non si esime dal fare la morale, richiamando il conducente alla perdita della divina protezione della Madonna. Quello usa al soldato un trattamento rispettoso e ammirevole, che promette bene. Nel 1955, a distanza di 38 anni, l’antico combattente viene a sapere che il cavalleresco cocchiere è stato un capo della malavita.

Altri quadretti della natura a colori iperbolici, con ricercate aggettivazioni, e osservazioni sulla vita e sugli elementi, tra il naturale e il fantastico. Elogi che, come quello dell’erudizione, svelano lati negletti di realtà da ricomporre. Nature morte: “Uccelli impagliati – Estratti dalle bianche scansie per la lezione di scienze naturali […] C’è l’avvoltoio torvo, il falco ardito e leggero, il dolce usignolo, il passero vivace, il tardo germano […] l’upupa dal vanitoso cimiero, la civetta dagli occhi sbarrati […] Tutti fermi, tutti zitti, sui loro sostegni e sulle loro grucce. Qualcuno ha perso un occhio, qualche altro l’artiglio […] Tutti però spolverati con cura. Attendono con un che d’insolitamente giulivo nel loro aspetto […] Un briciolo d’aria pura, fuori della naftalina! […] Solo il barbagianni, tra quelli che sono stati richiamati per un’ora di vita, si mostra annoiato. Ma i compagni non se ne meravigliano, perché lo sanno saggio e filosofo. E gonfia le gote come per soffiare: ma non può perché ha l’anima di paglia”.

Virtuosismi per un “Bancone di sacrestia – Paramenti deposti a caso, dopo la messa cantata. Un trillare di luci; un ondeggiare arguto di sete. Il loro tumulto si stringe intorno ad un calice e quasi lo soffoca. Un gran messale aperto sul leggio: taglio d’oro vecchio, lettere nere brillanti […] In disparte, chiusa a tanta festa di colori, la berretta nera […] La porta dà sul fonte battesimale di pietra. Passa per l’aria come un vagito di bimbo. Nebbiolina diffusa bianco-celeste. Silenzio fresco; profumo d’eternità”.

Seguono le Nuove solitudini (1030-1944). Le vedute italiane ed europee, i raccoglimenti sui luoghi, si ripetono maturati; lo stile assimila sempre più le arditezze metaforiche. Nella Parigi dicembrina: “tra flutti lievi di nebbie, raggiano pallidi globi di luce distratta”.

Nei Momenti musicali Manacorda in Assisi suscita concenti dalle pietre e dai fiori, sinfonia eretta e muta di cipressi, polifonie d’uccelli, un “incenso di canti” dalle voci vispe o rombanti delle campane. Dalla Settima di Beethoven, al ritmo dei tempi musicali, nascono le manifestazioni dei moti umani, dalla passeggiata alla danza al tumulto alla guerra alla processione.

La guerra si fa ricordare. L’uscita della pattuglia tra le due trincee. Volo e atterraggio al buio in territorio nemico per ricuperare un camerata sperduto. A questi episodi notturni succedono il notturno fiorentino, una notte a Recanati nello spirito contradditorio di Leopardi, a suo modo gaudente e nichilista credente nell’infinito.

Siamo al 1941. Memoria della perdita della vista e del calvario sofferto prima di riacquistarla: dopo alcune operazioni chirurgiche, dopo un altalena di guarigioni e ricadute.

Ultime solitudini (1944-1955). Il viaggiare in Italia, in Spagna (Diario de Espanã), il ritorno a Parigi, a Bonn a Monaco, dalla cui ricostruzione emerge il massacro dai bombardamenti, rinnovano le impressioni, le meditazioni, le rimembranze storiche di un animo pacificato e obiettivo.

Avvicinandosi alla parola fine, il protagonista visita il paese degli avi e, in compagnia dei ricordi, rivede “la piccola città natia”, si ritrova nella “gioia della mia infanzia”, risale agli anni universitari della Normale pisana; aggiunge un pellegrinaggio nostalgico del 1948 (nostalgia del ‘900, dopo quelle ottocentesche) alla sua modesta casa d’affitto in Firenze.

“Un primo turbine di ferro e di fuoco si rovesciò su quel buon focolare […] Investiti di scorcio, i muri maestri ressero; ed il pian terreno, pure coi soffitti sfondati e i mobili schiantati e mezzo sepolti sotto le macerie, n’uscì relativamente risparmiato […] Un secondo turbine si abbatté in pieno sulla casa già abbandonata, spezzandola in due fino alle fondamenta […] Rimasero due tronconi simili a due grandi braccia protese, imploranti o imprecanti, contro il cielo. Davanti alla casa si distese, a perdita d’occhio, un campo di rovine […] L’ho voluta rivedere, la mia vecchia casa, ieri, la carezza rude del tramonto già odorando di pollini nuovi. Per le strade che la raggiungono di fianco, tutto già rinnovato, ricostruito, primaverilmente fresco. Sul davanti, ancora e sempre, a perdita d’occhio, il deserto di silenzio e la desolazione di morte. Interamente crollato l’uno dei moncherini, troncato l’altro a mezza altezza; preghiera o imprecazione egualmente ingoiate dalle macerie”. Nel giardino, restano un “telaio di jeep arrugginito”, fili spinati, cocci, scatolame svuotato. Un “popolano di mezza età” vi si aggira in silenzio, chissà con quale intenzione. In un angolo oscuro: un rifugio di tavole sconnesse, lamiera, pietrame. Impossibile accedervi, ma forse è abbandonato. “Nel momento in cui ritorno sui miei passi, un che di rosso stinto attira la mia vista. Due scritte sull’ultimo spazio di intonaco sfuggito alla distruzione: ‘Votate per il P.C.I.’. E sotto, in lettere più piccole, come minore a maggior deve: ‘Votate per il P.S.I.’. Ultima voce fioca della mia casa alla periferia”.

Suggellano la raccolta i quattro tempi della trasformazione d’una terra paludosa e malsana in territorio fertile, degno della vita civile; la Preghiera alla Vergine con cui, nel 1944, egli invocava la grazia che ridesse figura umana ai troppi che avevano assunto sembianze belluine; e i versi de Il portale, che egli, intrepido e con sacrificio, ha costruito per una cattedrale. “Ma libera salda gioiosa / non io vedrò sotto il sole / ergersi, tant’anni sognata, / la mia Cattedrale”. Egli non la vedrà della sua opera, né s’aspetta di vederla nel mondo contemporaneo: “Realmente i tempi che mi circondano non li sento, non posso in alcun modo sentirli come miei” (Delle cose supreme, pag. 7).

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