di Piero Vassallo
Nel giugno del 1919, il direttore dell’Avvenire d’Italia, l’autorevole Paolo Cappa, pubblicò, nei Quaderni nazionali di Gino Sottochiesa, un breve e brillante saggio intitolato “Politica popolare”.
Inteso alla definizione del pensiero politico dei cattolici, il saggio, riscosse un lusinghiero successo e contribuì all’affermazione del Partito popolare nella rovente campagna elettorale del ’19. Cappa fu premiato dal consenso degli elettori, che gli assegnarono la maggioranza dei voti in due diversi collegi.
La chiarezza delle idee e la profonda preparazione culturale dell’autore, che riscuoteva la stima e la fiducia di Benedetto XV e di Luigi Sturzo, fanno del testo in questione una lettura indispensabile a quanti desiderano rompere il cerchio della disinformazione progressista intorno agli ideali e alla storia del cattolicesimo italiano nel XX secolo.
La lettura del testo di Paolo Cappa, infatti, dimostra le sostanziali differenze che corrono tra il popolarismo delle origini e il popolarismo immaginario, esibito dai tardi e affannati discepoli di Maritain, Dossetti, Alberigo, Scoppola e Rosy Bindi, per giustificare l’adeguamento del pensiero cristiano alle esigenze babeliche del progressismo terminale.
Nello scritto in questione, la distanza fra le due scuole di pensiero intitolate al popolarismo appare fin dall’incipit, dove si dichiara l’esclusione di qualunque apertura all’ideologia della sinistra.
Pur riconoscendo ai lavoratori che in trincea presero contatto colla vita nazionale, il diritto di reclamare migliori condizioni di vita, l’autore, rifacendosi all’insegnamento di Leone XIII, chiarisce che con la sinistra rivoluzionaria esistono vaghi elementi di somiglianza ma non di coincidenza essendo “evidente e recisa l’opposizione dottrinale fra la concezione marxista e quella cattolica, in sociologia come in politica”.
Senza remore, Cappa elencava gli obiettivi irrinunciabili del popolarismo: “Difesa dell’integrità familiare contro ogni attentato divorzista, libertà d’insegnamento in ogni grado, riconoscimento giuridico e libertà dell’organizzazione di classe, decentramento amministrativo colla più larga autonomia e la più ampia libertà degli enti pubblici locali, riforma tributaria sulla base dell’imposta progressiva globale, riforma elettorale politica colla soppressione del collegio uninominale e la sostituzione dello scrutinio di lista per regione e colla rappresentanza proporzionale, riforma del senato su base elettiva e con rappresentanza dei corpi della nazione con larga parte alle classi organizzate, politica internazionale fondata sulle concezioni nuove dell’organizzazione giuridica dei rapporti fra gli Stati che renda possibile la abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria”.
E’ evidente che il programma dei popolari, oggi, è in larga parte condiviso dai cattolici militanti nell’area del centrodestra e rifiutato dalla sinistra, dove, insieme con i nostalgici del centralismo burocratico, sono schierati gli avversari della famiglia tradizionale, della scuola privata e delle missioni di pace.
Non sono dunque senza ragione i rossori e gli imbarazzi di cattolici progressisti, obbligati a far scivolare i principi cristiani nel soffocante corridoio tra l’entusiasmo dei gay e l’intransigenza degli abortisti.
Colpisce infine l’orgoglio che il popolare Cappa manifesta nel rivendicare la dignità del pensiero cristiano in mezzo alle desolazioni del mondo moderno: “Mentre il liberalismo muore di esaurimento e il suo figlio spirituale, il socialismo, lo maltratta, e la democrazia radico-massonica è ridotta a un’impotente consorteria borghese senza credito, e il socialismo ignorante e incosciente minaccia l’esperimento bolscevico in Italia – l’antica idea cristiana risorge. Ostracismo di governanti ed errori di devoti non valsero a bandirla dalla vita di questa terra, perché la sua tradizione vi è troppo saldamente incisa nelle coscienze e nei marmi. E si leva un’altra volta, ricca di contenuto ideale ma non meno atta all’applicazione pratica”.
L’orgoglio cattolico è coniugato da Cappa all’orgoglio lungimirante dell’italiano, che contesta la traballante pace di Wilson, “una pace falsa, che minaccia nuove guerre pel futuro”.
Il giudizio sulla falsa pace di Versailles, Cappa lo rinnoverà durante la commemorazione di Benedetto XV letta a Genova nel dicembre del 1952, e ripubblicata nel 2006, a cura di Roberto Cappa e Sandro Fontana presso l’editore Sabatelli in Savona.
Rammentata l’esclusione del Papa dalla conferenza della pace, pretesa e ottenuta dal ministro italiano Sonnino nel segreto Patto di Londra, Cappa affermò che lo scacco diplomatico del Vaticano “si risolse in realtà in una grande ventura: il Vicario di Cristo evitò la responsabilità della partecipazione alla falsa pace di Versailles”.
La rilettura del saggio sulla politica popolare è un duro colpo per gli autori delle leggende metropolitane intorno alla vocazione laica, progressista e centralista dei cattolici militanti nel Pd.
Dal pensiero di Paolo Cappa, neppure la magica scuola di Bologna saprebbe cavare un coniglio di sinistra.
Oggi la lezione di Paolo Cappa può aiutare i politici del centrodestra a trovare il filo conduttore di una politica capace di interpretare fedelmente la fede cattolica della maggioranza italiana, finora insoddisfatta da partiti senza precisa identità.
La possibile riduzione del nome Pdl (partito con un accento sulla libertà dei liberali) in Popolari, titolo che rappresenta una grande e incompiuta pagina di storia italiana, può segnare l’inizio dell’uscita dei cattolici dai partiti dei mezzi pensieri e delle parole dimezzate.