IDEALISMO E NICHILISMO – di P.Giovanni Cavalcoli, OP

di P.Giovanni Cavalcoli, OP

 

 

Il grande pregio del realismo gnoseologico, che rifulge particolarmente in S.Tommaso d’Aquino, è l’attenzione al reale, sia nella sua concretezza che nella sua universalità, il senso dell’essere, la stima per l’essere e quindi l’impegno dell’intelletto nell’adeguarsi all’essere delle cose, a cogliere le cose come sono, a rispettarle nella loro singolarità, nei loro contorni essenziali e nella loro oggettività, indipendente da noi ma dipendente solo dal potere creatore divino, queste cose che ci sono date dalla bontà divina affinchè le usiamo per il nostro bene e per la gloria di Dio.

Il nostro stesso essere e quello delle altre persone è tra queste realtà la più nobile e quindi anche riguardo a questo essere ci è imposto il dovere di riconoscerlo così com’è, di rispettarne le sue leggi e i suoi fini per ottenere quella felicità che tutti spontaneamente cerchiamo.

Il realismo impone inoltre di rispecchiare l’essere oggettivo nel nostro pensiero, nei nostri giudizi e nella nostra parola, onde poi comunicare agli altri, in spirito di servizio, la conoscenza acquista e da ascoltare gli altri in quanto di vero essi hanno acquisito grazie sempre al metodo del realismo, che significa in fondo essere onesti e leali verso il reale e verso la verità.

Il realismo impone di prendere sempre a regola del pensare l’essere oggettivo ed esterno o anche la voce della coscienza rettamente informata, e non i nostri preconcetti o idee fisse aprioristiche arbitrariamente date per scontate e non verificate sul reale. In tal modo siamo sempre pronti a correggerci degli errori ed anche ad aiutare gli altri caritatevolmente a correggersi dai propri errori.

Attenzione e stima dell’essere vuol dire di conseguenza attenzione e stima per tutti i valori, dai più piccoli ai più grandi, riconosciuti nella loro scala gerarchica, nella loro varietà, nel loro ordine, nella loro origine e nella loro finalità, stima per l’esistente, per il vero, per il bene, per la vita, per l’amore, per la virtù, per i valori dello spirito, per il piacere che viene dal conseguimento di questi beni e dal retto esercizio della nostra attività secondo il dettato della morale.

Senso dell’essere vuol dire saper distinguere il proprio pensiero o concetto dell’essere o del reale dallo stesso essere e reale  – la cosa in sé dalla cosa secondo me – e quindi non ridurre l’essere all’essere pensato come fanno gli idealisti che finiscono col dar corpo alle ombre, con lo scambiare la realtà con la loro fantasia e per non dire con le allucinazioni. “Non è la pietra che è nell’anima, – dice il saggio Aristotele – ma l’immagine della pietra” o come diceva quel personaggio di Shakespeare all’amico: “Ci son molte più cose nella realtà, mio caro, di quante ce ne sono nella tua mente”.

Senso dell’essere vuol dire ancora saper distinguere l’apparenza dalla realtà, il videtur dall’esse, il sostanziale dall’accidentale, il vero dal falso, l’importante dal meno importante, l’opinabile dal certo, l’oggettivo dal soggettivo, il credibile dall’incredibile, l’affidabile dall’inaffidabile e simili atteggiamenti mentali e morali.

Senso dell’essere è di conseguenza netta percezione della differenza od opposizione abissale tra l’essere e il nulla. Anche qui sta il pregio del realismo: non confondere l’essere col non-essere. Saper distinguere il possibile dall’impossibile o dall’assurdo. Significa percezione dei gradi dell’essere, e quindi percezione della differenza secondo analogia tra Dio, sommo Ente, Essere assoluto ed infinito sussistente e gli innumerevoli altri enti da lui creati finiti, molteplici, contingenti, divenienti, generabili e corruttibili, creati da Lui dal nulla.

lsIl senso dell’essere implica la percezione quindi del limite (naturale e difettivo) delle cose e del nostro stesso essere, delle sue potenze, delle sue facoltà: siamo qualcosa, anzi siamo creati ad immagine di Dio; ma ciascuno di noi à legato al non-essere. Io non sono te e tu non sei me. Quello che ho io non hai tu e viceversa. Nel mio agire non posso superare certi limiti. Ancora il non-essere: non sono a volte ciò che vorrei essere; non sono ciò che non posso o non riesco ad essere; non sono ancora ciò che sarò e che voglio essere o tendo ad essere o desidero di essere. Non posso più essere sempre ciò che sono stato.

Non posso fare che non sia stato ciò che ho fatto nel passato. Anche nel presente non posso mettere in atto simultaneamente tutte le mie possibilità. Non posso resistere a certe difficoltà o tentazioni. Non posso cavarmela da solo in tutto. Non sono capace di agire sempre senza peccare. Tutto questo si capisce se sappiamo distinguere l’essere dal non-essere.

Il realismo consente anche la percezione del falso e del male, entrambi legati al non-essere. Il falso è mancanza di adeguazione dell’intelletto al reale oppure è qualcosa che non corrisponde al suo modello ideale. Il male è privazione di un bene dovuto. In ogni caso non c’è quel che ci dovrebbe essere o nel pensiero o nella realtà.

Viceversa nell’idealismo, oggi purtroppo infiltratosi anche nel pensiero cattolico, come ho più volte rilevato in questo sito, nonostante certe apparenze che lo fanno sembrare superiore al realismo, non esiste un vero senso dell’essere, un vero rispetto per la realtà. Infatti nell’idealismo, a partire da Cartesio che ne è il fondatore, sembra esaltata al massimo la dignità del pensiero, ma in realtà, se facciamo attenzione a come Cartesio concepisce il pensiero, ci accorgeremo, soprattutto dalle conseguenze estreme che i suoi seguaci hanno tratto dai suoi princìpi, che lo spiritualismo e il razionalismo cartesiani conducono alla fine all’annullamento del pensiero e per conseguenza all’insensibilità nei confronti dell’essere, che è oggetto del pensiero.

Infatti la famosa coscienza cartesiana di pensare, il cogito, se facciamo attenzione, non è vero pensare, perché invece è un dubitare. Cioè Cartesio dice: “dubito, quindi penso”. Non è vero! Il dubitare non è un pensare, ma come fa saggiamente notare S.Tommaso nel Commento alla Metafisica di Aristotele, che esprime la stessa idea, il dubitare è un blocco del pensiero, e se il pensiero è bloccato, non raggiunge il suo oggetto, che è l’essere!

Quindi già nel cogito cartesiano c’è il germe del nichilismo, nonostante tutta l’apparente certezza che dà il cogito cartesiano. Ma poi, anche ammesso (e non concesso) che io riconosca di pensare, Cartesio non dice a che cosa penso. Sottintende, sì, che penso alle mie idee. Ma siamo daccapo: egli stesso dice, all’inizio della ricerca circa la verità del sapere, che non son certo che alle mie idee corrispondano le cose esterne. E allora?

E allora dove va finire la nuova filosofia di Cartesio, quella che i tronfi suoi discepoli chiamano con arroganza “filosofia moderna”, come se fosse stato il loro maestro a scoprire la filosofia? E non è neanche vero, come dice Bontadini, che Cartesio “l’ha rifatta daccapo”: diciamo piuttosto che l’ha guastata nel fondo!

Insomma, alla fine, conducendo la gnoseologia idealista alle estreme conseguenze, come avviene per esempio in Nietzsche o in Sartre e in fondo anche in Heidegger, nonostante il suo disperato tentativo di recuperare l’essere, l’essere, risolto nella finitezza e nella temporalità, si indebolisce e scompare, tutto diventa nulla, tutto si oscura, tutto perde di senso, di significato, di intellegibilità, qualunque cosa vale l’altra, nulla ha più valore, nulla più suscita interesse, nulla resta di evidente, nulla di certo, ma tutto è messo in dubbio, nessun aggancio a niente: tutto è relativo ed inaffidabile, la comunicazione diventa impossibile, ci si sente prigionieri di un’orribile solitudine (“solipsismo”) senza alcun appoggio, senza alcun Dio e senza che nessuno ci aiuti.

Sorge l’angoscia esistenziale di sentirsi sospesi sul nulla o appesi al nulla. Già Kant, il grande maestro della “ragione”,  parlava del “baratro della ragione”: la ragione dell’idealismo, che in fondo è priva del suo nutrimento che è l’essere. Tutto così sembra provenire dal nulla e tutto andare verso  il  nulla, come dice Leopardi.  L’essere  si  confonde col  nulla.  L’essere è  nulla. Che cosa è in fin dei conti la concezione hegeliana del divenire come “esser identico al nulla”, se non una concezione nichilistica del divenire, che ha ingannato Bontadini facendogli credere che “il divenire è contradditorio”?

Nel nichilismo nulla più spinge all’azione: mancano finalità ed ideali, trionfo del nulla, della distruzione, della dissoluzione, del caso, del caos, del male, della morte. Sorge, per usare le parole di Cristo, il “regno delle tenebre” o, se vogliamo parafrasare le parole di Heidegger, “il deserto tutto pervade”. Sorge il freudiano “istinto di morte”. Sorge la disperazione, la noia, il disgusto per la vita e per qualunque cosa, il disgusto di se stessi. Questo stato d’animo può portare facilmente al suicidio. E se il soggetto sopravvive, si costruisce un personaggio fittizio, raccattato purchessia, magari ad uno spettacolo cinematografico o televisivo, mentre dentro ha il vuoto.

Severino accusa il cristianesimo di nichilismo per il solo fatto che ammette una creazione divina dal nulla (quindi passaggio dal non-essere all’essere) e l’esistenza di enti contingenti. Ma ha torto marcio. Il nichilista è lui, con la sua negazione dell’esistenza del divenire, dello spazio-tempo, della storia, del contingente, della molteplicità, della diversità, del sorgere e del perire, della creatività dell’uomo.

Contradditoria è la simultaneità dell’essere col non-essere; ma l’atto creativo non comporta affatto questa simultaneità, ma bensì un prima (piano della possibilità) della creazione e un dopo la creazione (piano dell’attuazione o della realtà), come la stessa Bibbia si esprime, sebbene naturalmente questo “prima” e questo “dopo” non vadano necessariamente intesi in senso temporale ma solo trascendentale.

Che cosa resta nella visione di Severino? Questo Essere unico, eterno e necessario e null’altro. Nessun mondo distinto da questo Essere assoluto, che potrebbe dar l’impressione di essere Dio, tanto ne riprende alcuni attributi. Però non è un Dio creatore e trascendente, ma è Dio solitario e  vorace che tutto assorbe in se stesso e tutto quindi annulla in se stesso.

Anche l’idea di Severino che tutto sia eterno, dà l’illusione di un rispetto per l’essere, ma in realtà è una droga dello spirito che crea stati mentali di autoesaltazione, per la quale – caratteristica dell’idealismo – il soggetto, che si considera “apparizione dell’Essere”, risolve tutto il reale nelle sue idee, come se egli fosse il progettatore e il creatore della realtà e dell’universo.

In Severino l’essere sembra forte, perché è detto “eterno e “necessario”. Ma in realtà, siccome poi per Severino il mondo stesso, che è nulla, si identifica con questo Essere, ecco che questo Essere, roso dal nulla al suo interno, implode su stesso, si sgonfia come un pallone forato, e si annulla a sua volta.

L’idealismo, come riconosce lo stesso Hegel, sorge da uno stato d’animo di “totale devastazione”. Qualcosa del genere dev’esser capitato anche a Lutero e a Cartesio. Famoso è il dramma di Lutero che si sentiva irrimediabilmente in colpa e dannato da un Dio irrazionalmente arbitrario ed inesorabile. Altrettanto famoso è il dubbio cartesiano, irragionevolmente scettico circa la verità del senso e quindi dell’esistenza di un ente extramentale, alla cui verità l’intelletto non può adeguarsi con le sue idee. L’essere resta estraneo al pensiero, irraggiungibile.

Siamo davanti a gente che si getta nel baratro con la pretesa poi di venirne fuori da soli, anzi con la presunzione, alla quale purtroppo molti credono, che ne son venuti fuori da soli. Per questo i seguaci di costoro, persone spesso psichicamente insicure, riproducendo in se stessi l’esperienza del maestro, passano da uno stato di totale autodistruzione o autonegazione ad uno stato euforico di assoluta autoaffermazione e di spavalda sicurezza, di totale autocertificazione ed autoreferenzialità e guai a chi li contraddice, li critica o tenta di correggerli. Si sostituiscono a Cristo nel voler “attirare tutti a sè stessi” e diventano feroci contro ogni loro avversario.

Naturalmente capita a tutti di incontrare l’angoscia, l’insensatezza, di sentirsi crollare tutto addosso, di essere privi di fondamento, schiacciati da sensi di colpa, rosi da un dubbio radicale, abbattuti dalla sventura o dal lutto o dalla malattia; ma non per questo la persona umile e di buon senso si crogiola in un gusto morboso e volontario in tali situazioni disperanti, ma ricorre alle energie che gli rimangono, invoca Dio e risale la china.

Ma non così per questi personaggi che ci considerano i grandi eroi e salvatori dell’umanità. Essi amano descrivere questo loro dramma interiore calcando le tinte per far meglio risaltare la potenza e la genialità della soluzione da essi proposta, la quale non si prospetta affatto come effetto di un’umile e sincera adesione al reale o alla Parola di Dio, ma come titanica impresa che rifà il pensiero, l’essere e il mondo daccapo a perenne memoria dei posteri, i quali d’ora innanzi con eterna gratitudine apprenderanno solo da loro la verità, ripudiando tutto il passato che, per dirla con Heidegger, è “storia dell’errore” e per iniziare la nuova era da essi fondata.

Senonchè però, dato che l’idea di questa nuova era non ha alcun fondamento reale, ma è solo frutto dei loro sogni e delle loro ambizioni, ecco che tutti i loro discorsi sul Pensiero puro, sull’Infinito, sull’Assoluto, sull’Eterno, sull’Autocoscienza, sul Trascendentale e via discorrendo svaniscono in una bolla di sapone – quando le cose vanno  bene -, per cui, mancando il vero rapporto realistico con l’essere, ecco profilarsi all’orizzonte inarrestabile lo spettro lugubre e fosco del nulla.

E non si tratta certo del “Nulla”, del quale parlano i mistici tedeschi del sec.XIII-XIV, espressione, usata anche da S.Tommaso, per significare che il Mistero divino è così trascendente, incomprensibile ed ineffabile, che Egli è “nulla”, non certo in senso assoluto, il che non sarebbe mistica ma ateismo, bensì è nulla di tutto ciò che noi comprendiamo con la limitatezza della nostra ragione, anche illuminata dalla fede. Ma in sé è chiaro che Dio è Essere infinito.

Qualcosa del genere sembra trovarsi anche nel Buddismo, ma poiché questa dottrina relativizza la concettualità, il Nirvana buddista, per quanto beatificante e pacificante,  pare essere più un avvincente e dolce stato confusionale della mente, che una vera illuminazione dell’intelletto su di una Verità assoluta e trascendente, quell’intelletto che non può pensare a Dio se non mediante concetti trascendentali, quindi assoluti ed immutabili, come avviene nella vera mistica cattolica.

Anche S.Tommaso nel Commento alla Metafisica di Aristotele, parla di “universalis dubitatio de veritate”, ma è ben lontano dal caricare all’inverosimile questo stato di disagio della mente, come fanno i suddetti personaggi, il cui dramma sa molto della forzatura e della messa in scena per apparire agli occhi degli ingenui come i grandi salvatori dell’umanità che hanno vinto mostri orribili e spaventosi, scimmiottando l’opera redentrice di Cristo che vince Satana e libera l’uomo dal peccato. Senonchè Cristo, Figlio di Dio, aveva i titoli per una simile impresa; ma per quanto riguarda quei personaggi non si vede in base a quale titolo si presentino come la Verità finalmente giunta nel mondo a salvare l’umanità dalle tenebre dell’Errore.

Purtroppo questa mentalità che caratterizza l’idealismo soprattutto nei suoi sviluppi hegeliani, ripresi nel secolo scorso da Giovanni Gentile e nel nostro da Emanuele Severino, si è infiltrata in qualche misura anche tra noi cattolici, come ho fatto notare in precedenti articoli.

Da qui l’atteggiamento modernistico di laici, preti, religiosi, teologi, moralisti vescovi ed anche qualche cardinale di porsi davanti al Catechismo della Chiesa Cattolica non con la venerazione che si deve ad un sacro e intangibile patrimonio di verità uscito dalla bocca di Dio, sia pur per il tramite della Chiesa, ma come ad un canovaccio che il regista teatrale si riserva di utilizzare e modificare liberamente per dar spazio all’originalità del suo estro artistico, assecondando i gusti del pubblico.

Manca cioè totalmente qui quell’atteggiamento mentale realistico, per il quale l’intelletto nella luce della fede accoglie umilmente il reale così com’è, sia la verità umana sia la verità divina. Invece questo metodo idealista fa dipendere l’essere dal pensiero, ci si crede autorizzati a modificare i piani e le idee del Creatore in base ai propri piani ed idee, perché in fondo si pensa di essere “momenti dell’Assoluto” o “teofanie dell’Essere” mentre si è e si resta più che mai miseri mortali, pieni solo di sè stessi.

Bando dunque ad ogni superbia, ad ogni boria e presunzione, riconosciamo la nostra vera dignità di persone e di figli di Dio sottomettendo il nostro intelletto e il nostro cuore al dolce impero di Cristo ed otterremo veramente quella grandezza e quella felicità che vanamente promette l’idealismo a coloro che non sopportano il giogo della verità, ma pretendono di essere loro stessi la prima origine del vero da imporre agli altri con un metodo che non può esser che quello della seduzione o della prepotenza.

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