di Piero Vassallo
(il libro sarà disponibile a giorni nelle librerie e sul sito delle Edizioni Cantagalli)
Costituita dall’irrompente folla dei littori mutanti e dall’illibato ma esiguo nucleo dei resistenti d’annata, la scolastica antifascista, quantunque anemica e avventizia, ha trionfato rincorrendo il filo dipanato dallo sdegno degli azionisti di scuola torinese.
Mosso da un’implacabile triade costituita da Norberto Bobbio, Galante Garrone e Leo Valiani, l’arcolaio antifascista ha educato e promosso i piantatori degli storici paletti e i banditori delle stizzose censure, che separano i pensieri e i fatti nominabili dagli innominabili e nefasti.
Paralizzati dal filo della ragione azionista, venti anni di storia italiana precipitarono nell’oscura e infrequentabile caverna della malvagità demente.
Vigili accigliati, corruschi e severi, i monopolisti della Verità hanno spento la memoria del Novecento italiano avvolgendola nel filo di una sentenza inappellabile.
Nella vulgata dettata ai Camera e ai Fabietti dall’autorevole, sullodato trio, i fascisti sono canonicamente definiti ottusi, rozzi, analfabeti e all’occorrenza sadici.
Un involontario ma ingente contributo alla mitologia intorno all’analfabetismo presunto e alla leggendaria stupidità dei fascisti, purtroppo, è stato offerto dalla generazione dei Gianfranco Fini e dalle ragazze del club Gaucci, branco in spensierata corsa verso le sedi deputate a ricevere i candidati alla tessera del Partito Ignorante. Sedi che hanno accolto e promosso i convertiti, elevandoli alla somma e maiuscola dignità dell’Antifascismo.
Precaria dignità, dal momento che il giro dell’instancabile arcolaio è frenato dal paziente, assiduo lavoro degli storici formati alla scuola di Renzo De Felice e del suo erede legittimo, Giuseppe Parlato. Freno all’arcolaio è anche la rivelazione della scappatella epistolare di Bobbio, carrierista flesso ma non spezzato e autore di una supplica indirizzata al bieco tiranno.
L’intelligenza dei fascisti è pertanto uscita dalla caverna scavata dagli azionisti di Torino per entrare nei libri di storia della filosofia propriamente detta.
Una pagina di filosofia della politica, ad esempio, è la cronaca dell’avvincente e accanito dibattito sul corporativismo, che si svolse, sotto lo sguardo attento di Giovanni Gentile, nell’Università di Pisa durante gli anni Trenta.
L’immagine dell’ignoranza totalitaria si dissolve nel ridicolo, quando si rammenta, come ha fatto egregiamente Fabrizio Amore Bianco, autore dell’ampio e documentato saggio “Il cantiere di Bottai”, edito in Siena da Cantagalli, che del dibattito sul corporativismo furono protagonisti filosofi e giuristi della statura di Armando Carlini, Arnaldo Volpicelli, Ugo Spirito, Carlo Costamagna, Giuseppe Bottai, Francesco Carnelutti, Giuseppe Attilio Fanelli, Camillo Pellizzi, Alberto De Stefani, Filippo Carli, Mario Miele, Widar Cesarini Sforza, Carlo Alberto Biggini.
Nelle sedi dei convegni e nelle pagine delle riviste d’area, peraltro, il dibattito si svolse nel segno della perfetta libertà d’espressione.
Avvertita dagli studiosi fascisti e nazionalisti, l’esigenza di rinunciare alla passiva eredità del liberalismo era coerente con la risposta cattolica al moderno, formulata nelle encicliche Rerum novarum di Leone XIII e Quadragesimo anno di Pio XI (nella quale si legge l’elogio della riforma corporativa attuata dal regime fascista).
All’insegnamento dei pontefici andava incontro la ferma convinzione, nutrita da Benito Mussolini e tuttora condivisibile da coloro che subiscono l’oppressione esercitata da maghi della finanza, “che la civiltà occidentale fosse ormai entrata in una fase di crisi irreversibile, e che in particolare l’economia fosse giunta a uno stadio di supercapitalismo, le cui manifestazioni più evidenti sarebbero state l’urbanesimo e la denatalità crescente”.
Di qui un ventaglio di opinioni politologiche ora intese a promuovere una lotta senza quartiere alla plutocrazia ora indirizzate all’attuazione delle riforme suggerite dallo spirito del tempo o dalla retta ragione.
Teatro del dibattito fu l’università di Pisa, luogo del confronto tra le antiche baronie e i novatori insorgenti al seguito di Carlo Costamagna.
Avversario inflessibile del liberalismo, Costamagna sosteneva risolutamente che il Diritto corporativo “non è un ordinamento particolare o diritto speciale che dir si voglia ma il riflesso di un principio costituzionale corporativo, che si oppone, superandolo, al principio costituzionale individualistico che fino a ieri a ha presieduto l’ordinamento giuridico italiano”.
Dal suo canto il nazionalista Filippo Carli opinava che lo stato fascista dovesse fondare organi di tutela degli interessi degli operai e dei consumatori ed esercitare un’azione diretta al controllo sulla ripartizione del profitto.
Teorico della corporazione proprietaria, l’impaziente Ugo Spirito sosteneva “la necessità di far diventare azionisti i lavoratori e preparare quella che sarà la corporazione del domani“. L’audacia di Spirito si spingeva fino al punto di dichiarare la necessità di non accentuare l’antitesi fascismo-comunismo “ma proclamare il fascismo superbolscevismo”.
Seguace dell’attualismo gentiliano, Arnaldo Volpicelli sosteneva che, grazie alla riforma corporativa dello stato, l’individuo era sempre più inserito nell’organismo sociale “mentre si verificava un fenomeno di positivo ed integrale socializzarsi dello Stato e statalizzarsi della società“.
La profondità degli argomenti e la passione dei protagonisti compongono il quadro di una cultura libera e creativa. Una scena il cui ricordo umilia lo spettacolo dei politicanti impegnati a far scendere la politica nel sottosuolo del pettegolezzo e, ultimamente, a mobilitare il codazzo degli adulatori che applaudono il mago Mario Monti.