di Dionisio di Francescantonio
C’è un momento particolare nella cupa storia dell’Unione Sovietica, quello susseguente alla morte di Stalin e all’affermazione quale capo di Stato e del partito di Nikita Krusciov, in cui si respirò un’atmosfera molto meno opprimente del periodo caratterizzato dal dominio di Lenin e di Stalin. Quel momento viene ricordato come “età del disgelo”, un disgelo umano e sociale che trovò immediata ripercussione nella sfera della cultura ma in modo particolare nel cinema, dove si assisté al ritorno alla regia di cineasti ormai emarginati dalla censura staliniana e ad un approccio inedito ai fatti della vita, più libero e meno ideologico di prima. Film simbolo di questa nuova stagione del cinema sovietico fu Quando volano le cicogne, girato nel 1957 da Mikhail Kalatozov, apprezzato in Occidente per la capacità di mettere in scena un cinema attento e sensibile ai caratteri psicologici e alle problematiche esistenziali e premiato quindi con la palma d’oro al festival di Cannes del ‘58. Quest’opera segna un’importante cesura stilistica rispetto al perfezionismo formale di quello che veniva chiamato “realismo socialista”, poiché illustra per la prima volta in modo autenticamente realistico la condizione di miseria in cui versava la popolazione sovietica, in particolare durante il conflitto mondiale ma anche nella fase successiva, mostrando senza reticenze, ad esempio, fenomeni assai diffusi come il mercato nero. Ma è innanzitutto una struggente storia d’amore, un amore inteso come un sentimento esclusivo e assoluto: quello di due giovani prossimi alle nozze che vengono separati dalla guerra e dal procedere tragico e implacabile della storia. Si tratta di Boris e Veronika, che vediamo all’inizio del film mentre osservano nel cielo di Mosca uno stormo di uccelli migratori che preannunciano l’arrivo della primavera. E’ un volo di gru, che ricorda ai due giovani, che le citano, le parole pronunciate da Tùz, un personaggio de Le tre sorelle di Cechov: “Gli uccelli migratori, le gru per esempio, volano, volano e quali che siano i pensieri, sublimi o meschini, che passino per la loro testa, esse continueranno sempre a volare…”. Il titolo del film, Letyat zhuravli, è stato tradotto, in italiano, con Quando volano le cicogne, ma gli uccelli migratori che i due innamorati guardano volare nel cielo non sono cicogne ma gru, come indica il titolo russo. Il film esprime uno struggente desiderio di pace attraverso la rappresentazione di sentimenti intimi, semplici, puliti, travolti e annientati dalla mostruosa macchina bellica. L’amore dei due giovani moscoviti è infatti drasticamente interrotto dalla partenza di Boris per il fronte e dalla drammatica sorte di Veronika, la quale, rimasta sola dopo aver visto morire sotto i bombardamenti dell’aviazione tedesca il padre e la madre, trova rifugio e accoglienza nella casa dei parenti del suo ragazzo; ma nella stessa casa vive anche Marco, un cugino di Boris, giovane vizioso e privo di scrupoli che, una notte, approfittando dell’atmosfera di terrore creata da un bombardamento, violenta Veronika. Come conseguenza dell’episodio, ella è costretta a sposare il giovane e, proprio mentre è in corso lo sposalizio, Boris, al fronte, viene ferito mortalmente durante un’azione di pattuglia. Prima di spirare, il ragazzo, in una sequenza filmica di grande efficacia e bellezza, rivede come in una ruota che gira vorticosamente
davanti ai suoi occhi tutta la sua breve esistenza, tra cui i momenti felici passati insieme alla fidanzata. Veronika, ignara della morte dell’innamorato, vive infelice accanto a Marco, subendo i suoi loschi intrighi e le sue infedeltà. Ma Fjodor, il padre di Boris, scandalizzato dalla condotta del nipote, di cui Veronika gli fornisce le prove, lo caccia di casa, ergendosi a protettore della giovane che, intanto, ha raccolto un piccolo orfano che si chiama Boris come il suo innamorato. Finisce la guerra, tornano a Mosca profughi e reduci: tra gli entusiasmi per la vittoria e l’esultanza per la pace, Veronika va inutilmente in cerca di Boris e, quando capisce che non tornerà più perché, evidentemente, è morto, piange disperatamente tutte le sue lacrime. Unico conforto per lei, ma indicibilmente triste, sarà quello di contemplare il volo delle gru che, alla vigilia della guerra, aveva ammirato insieme al suo innamorato. Quando volano le cicogne è indubbiamente un film molto romantico, esaltato dall’intensa interpretazione di Tatyana Samoijlova (una protagonista molto umana e non priva di contraddizioni e debolezze, ben lontana dalle eroine positive e tutte d’un pezzo alle quali il pubblico sovietico era abituato) e dalle raffinate riprese di Sergej Urusevskij, l’operatore di Kalatozov che alla Samoijlova dedica una serie di bellissimi primi piani.
Sulla scia di Quando volano le cicogne comparve un altro film, La ballata di un soldato, girato nel 1959 da Grigorij Čuchraj, opera che costituiva, anch’essa, una dolente e appassionata denuncia degli orrori della guerra. In questo film un giovane soldato russo, Alëša, ottiene una licenza premio di cinque giorni per aver abbattuto due carri armati tedeschi. Sulla lunga strada per arrivare alla fattoria della madre vedova, incontra Shura, una ragazza che si sta recando in visita dalla zia. Nei giorni che si trovano a passare insieme in quel tragitto comune, tra i due nasce un’amicizia che diventerà presto amore. Fosco sfondo del delicato sentimento sbocciato tra i due giovani è la Russia devastata dalla guerra, con i vari personaggi da essi incrociati: la guardia di un treno merci che accetta di farli salire in cambio del cibo in scatola di Alëša, un militare che ha perso una gamba e che non vuole tornare dalla moglie per timore d’esser considerato solo un peso, ma che grazie all’esortazione dei due giovani trova il coraggio di incontrarla, trovandone ricompensa nella gioia della donna che lo abbraccia con slancio. Durante il tragitto, Alëša ha l’incarico di portare del sapone alla moglie di Pavlov, un suo commilitone, ma quando scopre che la donna, nell’assenza del marito, si è legata ad un altro uomo, decide di donare il sapone al padre di Pavlov, un uomo anziano che si occupa di un gruppo di bambini poveri. Infine, con grande rammarico, ma con la promessa di ritrovarsi dopo la guerra, Alëša deve separarsi da Shura e, avendo perso molto tempo nel viaggio per via della penuria dei mezzi di trasporto, avrà appena il tempo di abbracciare sua madre, per poi tornare immediatamente al fronte da cui non farà più ritorno. Durante l’ultima sequenza del film sentiamo una voce fuori campo pronunciare queste parole: “E’ triste pensare a ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, alle cose che avrebbe potuto fare e non ha fatto, all’amore che poteva dare e non ha dato. Ha avuto solo il tempo di essere un soldato”. Il film è molto commovente e coinvolgente, capace di alternare con naturalezza toni drammatici e sentimentali con tocchi di comicità, sempre in un clima di delicato lirismo. La confezione è di notevole maestria tecnica, con una fotografia di alta qualità e un’ottima recitazione degli interpreti.
Merita di essere citato anche La lettera non spedita, girato ancora da Kalatazov nel 1959, forse di minor valore dei precedenti, ma pur sempre un film di grande impatto estetico ed emotivo. Quattro ricercatori, tre uomini e una donna, vengono mandati nella taiga siberiana più remota alla ricerca di giacimenti diamantiferi. In questa zona desertica l’essere umano viene posto di fronte ad un ambiente estremo, in un tentativo non riuscito di adattarsi a condizioni proibitive in nome di un fine supremo, poiché i diamanti sono di grande importanza negli esperimenti spaziali. Ne risulta un dramma di struggente intensità, in cui si può cogliere una critica ad una società che pretende dai suoi figli imprese impossibili per i suoi fini di grandezza. La lettera non spedita è quella, lunghissima, che il capo della piccola spedizione scrive a puntate alla moglie. Non riuscirà mai a spedirla perché, come i suoi tre compagni, dovrà soccombere alla forze della natura, alle piogge torrenziali che poi si tramuteranno in tempeste di neve e addirittura ad un vasto incendio boschivo che impedirà ai mezzi di soccorso di individuarli per raccogliergli, e da cui essi tenteranno di salvarsi scivolando lungo una zattera su un fiume immenso, dove, stremati dalla fatica,
troveranno tutti la morte. In questo film ritroviamo la Tatjana Samojlova di Quando volano le cicogne, della quale viene esaltata la notevole carica espressiva negli insistiti primi piani, dovuti al virtuosismo cinematografico di Sergei Urusevsky, l’operatore di Kalatozov che lavora con una cinepresa a mano per ottenere sequenze di grande effetto, con suggestive inquadrature delle figure e dei volti dei personaggi sugli incombenti fondali della natura, alberi e rami aggrovigliati, rocce maestose, corsi d’acqua tumultuosi, che conferiscono agli elementi naturali una presenza invadente e ossessiva. La fotografia in bianco e nero è squisita.
Purtroppo, già nei primi anni Sessanta il rinnovamento cedette nuovamente ad una visione del cinema meno libera e creativa. Ma i film citati conservano ancora oggi un certo valore, sia sul piano estetico, sia come documento d’un momento di libertà creativa forse unico nel greve panorama culturale del regime sovietico. Non ci si può esimere, tuttavia, dal fare almeno un accenno ad Andrej Tarkovskij, grande regista di livello internazionale che riuscì a girare, proprio negli anni Sessanta, film di grande bellezza e poesia come L’infanzia di Ivan e soprattutto il suo capolavoro, Andrej Rublëv, grande affresco della storia e della spiritualità russa, ma proprio perché le sue opere risultavano lontanissime dal realismo socialista, tornato a infuriare nel suo aspetto peggiore, egli fu perseguitato dal regime sovietico, costretto a rinunciare a girare altri film e infine ad espatriare all’estero, dove non ritrovò mai più la felicità creativa dei suoi inizi. Ma questa è già un’altra storia.
1 commento su “IL CINEMA SOVIETICO NELL’ETA’ DEL DISGELO – di Dionisio di Francescantonio”
Ricordo di aver vistoqualcuno di qusti film tanto tempo fa: belssimi.vorrei rivvederli .come fa
re? graz