di Piero Vassallo
Nell’autorità politica la dottrina cattolica contempla lo strumento del diritto naturale, legge indeclinabile, che esige, anzi tutto, lo sviluppo ordinato della persona umana [1], vale a dire che sia garantita la tranquillità nell’ordine, la retta formazione delle coscienze, la dignità delle persone e delle famiglie, la sicurezza del lavoro, il ferreo controllo del potere economico.
In vista del bene comune, il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989) sosteneva, appunto, che “Governare è guidare con autorità una comunità verso uno scopo. Se manca l’autorità, ossia la capacità di creare un’obbligazione di coscienza, non si ha vero governo”.
Va da sé che l’obbligazione di coscienza non dipende dalla mutevole opinione del momento ma dall’immutabile legge naturale: “Chi potrebbe pensare, continua Siri, a una stabilità sociale senza fissità delle leggi e dei valori? Come sussisterebbe un ordine sociale se oggi venisse giudicato bene quello che ieri era male? Tutto si ritroverebbe sconnesso. Un tale relativismo fa paura”.
Nelle chiare affermazioni di Siri si legge un’anticipata, ferma condanna del relativismo, che oggi altera e avvelena la politica e riducendola al denominatore di un assolutismo travestito da democrazia [2].
Ora l’attuale successo della mostruosa coppia costituita dal relativismo e dall’assolutismo democratico ha origine dalla diffusione degli errori dei cattivi maestri, che hanno alterato la dottrina del diritto, turbando l’armonia della Cristianità. La lungimirante previsione di Giambattista Vico (1668-1744) aveva tempestivamente e con esattezza elencato le fonti della confusione oggi esercitata dal potere culturale:
a. da Ugo Grozio, il rifiuto dell’insostituibile fondamento, che la metafisica offre alla giurisprudenza (“Aeternam verorum scientiam, quam criticam veri definiunt, metaphysica explicat. Ea una igitur posset ius demonstrare, de quo tibi adimeretur infelix arbitrium dubitandi an sit iustum”) [3] e l’immotivata rinuncia all’eredità della giurisprudenza romana (“Hugo Grotius … ius civile romanorum omittit”) [4];
b. da Tommaso Hobbes e Benedetto Spinoza l’affermazione della natura artificiosa e arbitraria del diritto, concepito unicamente come strumento indirizzato al fine di garantire il dominio dei potenti sulla moltitudine dei deboli [5];
c. da Pietro Bayle la riduzione del diritto all’utilità privata (“Et nuper Petrum Baylaeum in magno Dictionario gallice conscripto, illa obtrudere vulgo audias: ius utilitate aestimari”) [6].
Assimilata la lezione di Vico, il sottile acume di Giorgio Del Vecchio [7] ha dimostrato magistralmente che le tesi opposte alla dottrina del diritto naturale dai positivisti giuridici di scuola kelseniana sono “effetto di un semplice pregiudizio, e propriamente di una petitio principii, che moveva dal presupposto che la sola realtà, o almeno la sola realtà conoscibile, fosse quella fenomenica. La negazione di un ordine di verità superiore al fenomeno era dunque già implicita nella premessa, e non già il risultato di una qualsiasi ricerca o dimostrazione, come si voleva far apparire” [8].
Del Vecchio era risalito, inoltre, alla causa del discredito in cui era caduta la dottrina del diritto naturale: “Gli errori metodologici propri specialmente del giusnaturalismo dei secoli XVII e XVIII , errori che culminarono nelle dottrine dello status naturae e del contratto sociale, intesi l’uno e l’altro quali realtà di fatto” [9].
Nel Novecento italiano era iniziata un’inversione di tendenza: “Recenti indagini condussero a formulare con maggior precisione le massime in cui si concreta l’idea del diritto naturale, ossia le esigenze fondamentali della giustizia: così relativamente alla persona individuale, della quale si è riaffermata l’insopprimibile libertà nelle varie sue possibili esplicazioni, come relativamente ai rapporti tra l’individuo e lo Stato e gli Stati tra loro. In tutta questa parte si è resa manifesta la stretta connessione tra le indagini nuove e le antiche, poiché le classiche dottrine della philosophia perennis rivissero, a così dire, sia pure con notevoli incrementi e adattamenti, nella nuova e nuovissima filosofia del diritto”.
Del Vecchio concludeva la sua disamina con un giudizio d’intonazione tradizionalista: “Che veramente in questa materia il nuovo sia indissolubile dall’antico, poiché si tratta di verità e non di effimere mode, emerge sopra tutto da quei sapienti messaggi coi quali il Pontefice Pio XII, or sono pochi anni, additò le basi immutabili di ogni ordinamento giuridico: moniti tanto più provvidi e salutari, in quanto pronunciati mentre imperversava la spaventosa catastrofe, nella quale il mondo era precipitato appunto per essersi dipartito da quelle basi” [10].
Di qui l’affermazione della superiorità della scienza giuridica dei romani su quella dei moderni: “E’ ufficio della critica il valutare le leggi positive a paragone dell’assoluta idea del diritto o del giusto naturale, senza che possa mai imputarsi a cotesta idea la difettosa rispondenza che essa trovi nell’ordine positivo. … la moderna scienza interpretativa si pone in condizioni di reale inferiorità rispetto alla Giurisprudenza romana” [11].
La dottrina del diritto naturale, pertanto, è rivendicata quale stella polare del progresso civile: “L’idea del diritto naturale è veramente di quelle, che accompagnano l’umanità nel suo svolgimento; e se pure, come non di rado è accaduto, e massime ai tempi nostri, alcune scuole facciano professione di escluderla o di ignorarla, essa si afferma potentemente nella vita” [12].
Dal suo canto Cornelio Fabro (1911-1995) ha dimostrato che si sottrae al fascino malsano del decisionismo giuridico solo chi riconosce che la legge è veramente tale quando corrisponde all’essenza propria delle cose nella loro struttura assoluta ed è perciò in grado di attuare la tendenza (inclinazione) insita ad ogni natura alla propria perfezione.
San Tommaso (1225-1274) infatti definì la legge “regula et mensura actuum, secundum quam inducitur aliquis ad agendum vel ab agendo retrahitur” [13].
L’Angelico, dopo aver dimostrato, con un’argomentazione rigorosa e mai seriamente confutata, la necessità di riconoscere il Creatore e Signore dell’universo, espose la dottrina del diritto naturale affermante che il mondo è retto dalla divina Provvidenza, dunque che si deve ammettere il governo della sapienza divina – “quod tota communitas universi gubernatur ratione divina” [14].
Di conseguenza è accertato che tutte le creature, in quanto ricevono un’inclinazione ai propri fini, partecipano della legge eterna.
La politica deve ricominciare da quel fondamentale principio della civiltà, che risponde all’esigenza del vero: “Se la verità non domina la città civile, presente attiva totale, sostiene Capograssi (1889-1956), questa si scompone e muore perché la vita è solo nella verità” [15].
L’ostacolo da abbattere in vista della restaurazione dell’ordine civile è dunque il soggettivismo filosofico, che ha sconvolto la filosofia occidentale negli anni avvelenati dall’eresia luterana.
La sovversione del pensiero ha inizio dalla fuga dal reale organizzata da coloro che al seguito di Cartesio (1596-1650) “vollero ritrovare la verità in quella esangue realtà che è la nuda esistenza del soggetto pensante… Con Cartesio il pensiero si rifugia in se stesso nella sua nuda esistenza individuale nel nudo fatto del suo pensare e da questo fatto si leva alla concezione di tutta la realtà. Tutta la realtà nasce dal fatto del pensare e l’essere sparisce di fronte al pensare ” [16].
La conclusione di Capograssi, un sagace continuatore della rivolta anticartesiana iniziata da Vico, è, appunto, che le sovversioni hanno lontano inizio dall’intellettualismo cartesiano: “Con Cartesio e con gli altri che lo seguirono il pensiero opera un tale mutamento di concezione del mondo e della realtà che ne esce sovvertita tutta la vita dalle sue basi e rovesciati i concetti fondamentali della civiltà e della verità, e l’idea di Dio entra in una crisi mortale” [17].
Ora il cogito cartesiano, giusta la precisa osservazione di Cornelio Fabro, ha una struttura volontaristica: “Quando Cartesio pronuncia il suo cogito ergo sum, quel cogito è anzitutto e soprattutto un volo, in quanto il cogito vuole essere un atto ponente, originario. Infatti un cogito che intende contrapporsi al dubbio radicale e vincerlo, vale a dire il cogito che pretende salvarsi grazie proprio alla messa fra parentesi universale del contenuto, il cogito che esclude ogni riferimento di oggetto e di oggettività e afferma la priorità dell’atto sul contenuto ovvero il cogito attivo non può essere che volontà” [18].
I movimenti della destra, quando non si rassegnino a disperdersi nella chiacchiera dei politicanti e delle sciurette, devono respingere la tentazione degli idealismi moderni e ricollocarsi nell’orizzonte della tradizione tomista e giusnaturalista.
Un’indicazione sul compito assegnato agli studiosi refrattari alla rovinosa suggestione idealistica e al delirio esoterico, si legge nelle pagine di Giovanni Volpe (1906-1984), uno fra i più acuti interpreti della cultura giusnaturalista sostenuta dalla destra italiana nel Novecento.
In una pregevole nota su Sergio Panunzio (1886-1944), Volpe rammentava, infatti, che “Nel campo della Filosofia Morale, Sergio Panunzio può rientrare allo stesso titolo del suo amico Giorgio Del Vecchio (pensatore classico, di fama e di valore mondiali, che fu discepolo indiretto di Igino Petrone) nella grande corrente internazionale del Giusnaturalismo. Infatti, come osserva Herbet Matthews in un libro ricordato anche da James Gregor (1929), «I frutti del fascismo», «La fede di Panunzio nel diritto naturale non venne mai meno». Talchè la distinzione tra la Forza conservatrice dello stato vecchio e la Violenza etica della società gravida dello stato nuovo, può essere ricondotta, appunto, al contrasto dialettico tra il Diritto positivo vigente e il Diritto naturale, tra lo jus conditum e lo jus condendum. La differenza può stare in questo: che Giorgio Del Vecchio credeva a una sorta di automatismo per cui il diritto naturale si sarebbe fatto valere da se solo, laddove Sergio Panunzio comprendeva bene che i cambiamenti e gli aggiornamenti imposti dalla storia sono opera delle volontà di gruppi minoritari organizzati” [19].
I due eminenti interpreti del giusnaturalismo di destra si distinguevano solo per un diverso accento posto sulla teoria che riguarda la combinazione della libertà umana e dell’onnipotenza divina nella formazione delle civiltà: più provvidenzialista che umanista, Del Vecchio puntava sull’eterogenesi dei fini umani, Panunzio, più umanista che provvidenzialista, insisteva sulla responsabilità dell’uomo.
Certo è che la cultura politica di una destra indenne dalla polifrenia può superare la crisi incombente solo bagnandosi nelle acque della grande storia della cultura italiana, ossia nella scuola di filosofia del diritto naturale, l’unica capace di vincere la sofistica comiziante e il relativismo assoluto.
[1] Non è inutile rammentare che auctoritas deriva da augere, significa crescere, sviluppare, promuovere, prosperare
[2] Pio XII ha dimostrato che il paradossale assolutismo democratico è il prodotto della falsa convinzione, secondo cui il popolo ha il potere di alterare o addirittura capovolgere le leggi di natura che lo fanno essere tale. Al riguardo cfr. il Radiomessaggio del Natale 1944.
[3] Cfr. “De uno universi iuris principio et fine uno”, De opera proloquium, 19
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem
[7] Giorgio Del Vecchio (1878 – 1970) rettore magnifico dell’Università di Roma, è stato, senza dubbio, il più grande filosofo del diritto del Novecento. Benché vittima delle infami leggi razziali del 1938, nel secondo dopoguerra collaborò con il “Secolo d’Italia” di Franz Turchi e con la rivista “Pagine libere” (la pubblicazione diretta da Vito Panunzio, che si avvaleva della collaborazione di Ugo Spirito, Gioacchino Volpe, Giuseppe Maranini, Adolfo Oxilia, Camillo Pelizzi, Gianfranco Legitimo, Fausto Gianfranceschi e Giano Accame). Insieme con Nino Tripodi, Alberto Asquini, Ernersto De Marzio, Roberto Cantalupo ed Emilio Betti fece parte del comitato promotore dell’Inspe, il prestigioso istituto di studi che, negli anni Cinquanta e Sessanta, si oppose validamente alla cultura di sinistra, promuovendo importanti convegni internazionali e prestigiose pubblicazioni.
[8] Cfr. “Dispute e conclusioni sul diritto naturale”, Bocca, Milano 1949, pag. 5.
[9] Op. cit., pag. 7.
[10] Op. cit., pag. 9. Del Vecchio citava al proposito i pregevoli commenti ai documenti pontifici, scritti da un suo allievo ed esponente del partito romano, Guido Gonella: “Presupposti del diritto internazionale” del 1942 e “Princiìpi di un ordine sociale” del 1944.
[11] Cfr. “Sui principî generali del diritto”, in: “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, a. XXIX, fasc. I-II, gennaio giugno 1952.
[12] Cfr. “Sui principî generali del diritto”, op. cit., pag. 24. Più avanti (pag. 28) Del Vecchio dichiara che, in età moderna, la teoria del diritto naturale si sviluppa in polemica con Hobbes e Spinoza.
[13] Summa theol., I-II, q. 90 a. 1.
[14] Summa theol., I.II, q. 91 a. 1.
[15] Cfr.: Giuseppe Capograssi, Opere, Giuffré, Milano 1959, vol. I, pag. 335.
[16] Op. cit., pag. 337. Al proposito, non va dimenticato che la filosofia cartesiana fu strenuamente avversata da Giambattista Vico.
[17] Ibidem.
[18] Cfr.: “L’avventura della teologia progressista”, Rusconi, Milano 1974, pag. 177.
[19] Cfr. la presentazione di: A. James Gregor, “Sergio Panunzio Il sindacalismo ed il fondamento razionale del fascismo”, Volpe, Roma 1978, pag. V-VI. Sulla distinzione tra forza e violenza, Panunzio (cfr. op. cit., pag. 126) si esprimeva con esemplare chiarezza, affermando che il primato appartiene sempre al diritto. Rifacendosi ad Antonio Rosmini, Panunzio sosteneva infatti che la forza ci mostra solo una necessità, mentre il diritto racchiude la nozione di una volontà libera e perciò superiore.