Il lavoro con gli anziani: intervista ad un sacerdote – di Cristiano Lugli

 In questo percorso a puntate abbiamo cercato di approfondire, interloquendo con varie con figure professionali, tutto il dramma che ruota intorno agli anziani e alle persone malate. In una società che, come la chiamava Marcel De Corte, è diventata una “dis-società”, la vera crisi è la crisi della spiritualità, la mancanza di Fede. Basta pensare a tutti i nomi dei grandi ospedali, delle cliniche e finanche di molte case di riposo: la maggior parte richiama la Madonna, i Santi, insomma parla di una impostazione integralmente cristiana. Gli ospedali infatti nascevano come opere di carità cristiana promosse dalla Chiesa, in particolare dalle moltitudini di ordini religiosi oramai scomparsi. I nomi degli ospedali sono rimasti, ma purtroppo dentro le loro mura si commette l’abominio dell’aborto e molto altro che va contro la vita intesa come dono di Dio.

Una volta un signore che si occupa dell’Adorazione Perpetua nell’ospedale della mia città, l’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio-Emilia, mi diceva che sarebbe doveroso lottare affinché dagli ospedali fossero tolti i nomi sacri. Così, mi diceva, si eviterebbe quantomeno il sacrilegio di ammazzare sotto quell’egida. Come dargli torto!

In questa ultima puntata, è proprio il tema della Fede unita all’amore per la vita che vorrei trattare. Per farlo era necessario ascoltare la testimonianza di un sacerdote.

Siamo a colloquio con Don Francesco Giordano, che dal 1°luglio 2015 ricopre il ruolo di direttore di Vita Umana Internazionale, filiale italiana di Human Life International.

È sacerdote dal 2009, e attualmente insegna alla Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino (Angelicum) a Roma. Molto preparato su temi bioetici, don Francesco è anche cappellano nazionale della Compagnia della Buona Morte, una confraternita fondata da laici che si propone in particolare di pregare per i moribondi e in suffragio delle anime del Purgatorio.

Reverendo, la sofferenza, oggi, sembra spaventare più di ieri. Perché questo mutamento?

Si è perso il significato e il valore della sofferenza. Noi Cattolici abbiamo il senso della cosiddetta “sofferenza redentiva,” come si vede in Col. 1, 24: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”. In tal modo la sofferenza viene offerta come un’offerta sacra, cioè un vero e proprio sacrificio che ci redime con valore salvifico. La sofferenza acquista un valore, cioè ci fa diventare sempre più simili a Cristo. Lì si capisce il mistero della Chiesa come Corpo Mistico di Cristo, e di noi che siamo le sue parti. Per esempio, Cristo non ha sofferto l’annegamento, l’elettroshock, ecc. Coloro che patiscono tali sofferenze e che sono membri del Suo Corpo Mistico, la Chiesa, possono offrirle al Padre, come Figli adottivi del Padre, tramite il Figlio e nello Spirito Santo. La sofferenza, vista nell’ottica del sacrificio cristiano, possiede un significato più profondo.

Infatti, nella storia della Chiesa ci sono molti esempi di santi che intendono la sofferenza come riparazione per i peccati propri e altrui. Pensandoci bene, solo gli uomini possono fare una riparazione per gli uomini. Nemmeno gli angeli possono riparare per gli uomini. Tutto ciò è proprio nel cuore dello stesso mistero dell’Incarnazione (cfr. ST III qq. 1, aa. 2-4; 22, a. 2; 46, aa. 1-3). Il Verbo di Dio ha assunto la nostra natura umana per redimerla. Se noi ci uniamo a Lui tramite i Sacramenti, troviamo la salvezza. Riconosciamo nello Spirito Santo che tramite il Figlio arriviamo al Padre. Il Figlio lo troviamo nei Sacramenti. Unendo tutti questi elementi, abbiamo gli strumenti per affrontare qualsiasi sofferenza senza sentirci soli ed abbandonati.

Tutti vogliamo evitare la sofferenza perché è umano, ma non la si può eliminare dalla nostra esistenza terrena. Ci chiediamo il perché della sofferenza e a volte si rimane “scandalizzati” da alcuni drammi che vediamo accadere, non riuscendo a trovarne il “motivo”. Dobbiamo credere che il Signore ci ama moltissimo, più di chiunque altro, più di noi stessi. Siamo nelle Sue mani. Penso al chicco di grano che piantato in terra, se non muore non può dar vita alla spiga…

Vorrei citare Benedetto XVI che a riguardo disse che “l’eutanasia è una falsa soluzione al dramma della sofferenza, una soluzione non degna dell’uomo. La vera risposta non può essere infatti dare la morte, per quanto “dolce”, ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano”. (Benedetto XVI, Angelus Piazza San Pietro, Domenica, 1° febbraio 2009)

Il pensiero della morte così come concepita dalla mentalità moderna, porta a fuggire dalla realtà, ad allontanarsi dallo stesso pensiero di essa. Dove affondano le radici di un simile atteggiamento?

Alcuni pensano che tutto finisca qui, ma sappiamo bene che non è così. La morte resta un fatto umanamente doloroso, ma se pensiamo a quanto il Signore ci ama riusciremo a guardare con gli occhi della Fede questo passaggio. La morte è il distacco dell’Anima dal corpo, non la sua fine. Quindi il nostro è un passaggio di stato, e l’anima separata attende di ricongiungersi al suo corpo. Da lì sorge tutto il pensiero sui novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. L’anima separata viene subito giudicata, ed all’ultimo giudizio tutto verrà rivelato.

La mentalità moderna, purtroppo, limita la conoscenza della realtà stessa a quella empirica, positiva. Pensando in termini di causalità, invece di parlare di quattro cause (materiale, formale, finale, strumentale), si parla solo di una: quella strumentale. Tutto viene ridotto all’uso, alla techne. L’epoca industriale ha dato ulteriore spunto su questo tema, poiché ora l’uomo è ridotto solo a quello che fa, non a quello che è. Non si considera che l’uomo ha un corpo materiale unito all’anima che gli dà forma e vita. Si pensa solo al “know how” e non al “know why.” Non si cerca più il perché della realtà, e così si capisce per quale motivo tanti fuggono dalla realtà della morte. Con tutte le distrazioni a cui siamo sottoposti, è naturale che ciò si verifichi. Ho sentito alcuni confratelli raccontare che quando vanno ad amministrare l’estrema unzione a persone in fin di vita, le trovano a guardare la televisione. Hanno uno spirito fragile e dispersivo, ed è triste vederlo. L’uomo contemporaneo non è legato né alla natura né al soprannaturale. Vive in un mondo virtuale. Ed è proprio a questa umanità contemporanea che il vero Cattolico deve annunciare un mondo molto al di là, che lo contiene in sé. Infatti la realtà divina è ricca e contiene tutta la realtà, perché è Dio che ha creato tutto ex nihilo, dal niente. È chiaro che Lui conosce la realtà da Lui creata, ed è solo Lui con tale conoscenza e tale amore che la può redimere, dandole il senso e l’ordine giustamente dovuto.

Buona Morte e “dolce morte”, cioè eutanasia: quali sono le enormi differenze, anche da un punto di vista filosofico?

La buona morte è quella che è desiderabile per ognuno di noi, con i Sacramenti, in pace, con i nostri cari vicino, sentendoci amati e con la Speranza di essere accolti in Cielo. La “dolce morte” è solo una forma di Ingegneria Verbale che usa le parole in modo non appropriato. Quando si parla di eutanasia si sta parlando di procurare la morte ad un essere umano, omicidio o suicidio, quindi la differenza tra Buona Morte e “dolce morte” è abissale.

Dal punto di vista filosofico si può dire che si vede il volontarismo nel concetto della “dolce morte,” cioè una morte voluta dalla persona. È il voler avere il dominio sul tutto, sulla natura, sulla vita, e sulla morte stessa. Alla radice di tale filosofia, ci sta un problema di Fede, cioè un problema strettamente legato al non serviam. L’uomo moderno (cioè dal quattordicesimo secolo fino al ventesimo secolo) non è più visto come Imago Dei ma come uomo con la propria dignità. Questo concetto risale a Pico della Mirandola, ed è fondamentalmente gnostico. La dignità dell’uomo, secondo una visione cristiana, è proprio nel fatto che lui è creato ad immagine e somiglianza di Dio. Fa sempre riferimento a Dio.

Invece, l’idea moderna di Pico della Mirandola e non solo, è che l’uomo non si riferisce più a Dio, come il creato, il vestigia Dei. Tutto diventa auto-referenziale, autonomo, e non disposto al servizio di Dio e della Sua Creazione. Questo si vede in tanti altri aspetti della cultura moderna e contemporanea. Ora viviamo proprio le logiche conseguenze della cultura moderna, una cultura gnostica e fondamentalmente anti-cristiana. Si vedono i risultati nella morte paradossale di colui che si vuole auto-creare. Se si può auto-creare si può anche auto-distruggere, dimostrando un volontarismo totale.

Le succede di girare per ospedali o comunque di stare a contatto con persone malate e anziane?

Sì, mi succede spesso di stare a contatto con persone malate e anziane, e apprezzo tutto quello che imparo da loro. Anche se spesso gli uomini sono di poche parole, ricevo sempre molte lezioni di saggezza sulla vita. Avere il contatto con il passato è un tesoro del quale non posso che essere grato al Signore. Ci ricorda Dostoevskij che i segni dell’ateismo sono i seguenti: l’orgoglio, l’irresponsabilità, ed il progresso (un progresso senza meta). Chiaramente, l’umiltà, la responsabilità (tipica dei padri e delle madri), e la stessa tradizione sono antidoti a questi segni. Troviamo questi segni spesso nelle persone anziane e fragili che incontriamo in ospedale. Devo dire che anche se l’epoca industriale ha tolto la saggezza comune del vissuto in campagna a contatto con la natura, vedo che queste persone sono sagge nonostante gli anni di lavoro in fabbrica. Non posso che apprezzare la trasmissione della loro saggezza.

Come reagiscono i pazienti e gli ammalati alle sue visite?

Dipende. Alcuni sono molto grati, e parliamo molto. Altri possono essere ostili, però poi ho visto grandi cambiamenti. Il Signore opera nei loro cuori, così anche i più duri di cuore vengono colpiti dalla mia visita.

Le capita di amministrare i sacramenti dell’Estrema Unzione?

Mi capitava con più frequenza quando lavoravo in parrocchia. Ho avuto sette casi nei quali la persona è morta poco dopo la mia visita, una delle quali era mia nonna. Mi commuovo ogni volta che ci penso perché in quei momenti ho percepito quanto, per queste persone, incarnassi Cristo.

Ha dunque visto anche estreme conversioni e buone morti in questi anni?

Sì, oltre mia nonna, mi vengono in mente altri sei casi, uno dei quali è stato quello di una monaca Clarissa di clausura. Ero di passaggio, e mi hanno lasciato entrare nella clausura pontificia per amministrare l’Estrema Unzione. Mi ha molto commosso vedere tutte le monache intorno al letto, in ginocchio, con le candele accese. Ho amministrato il Sacramento, e appena stavo andando via, mi hanno chiamato per dirmi che era morta. Mi viene in mente anche il nonno di un amico che è morto in pace il Venerdì Santo proprio poco dopo che sono passato a trovare la sua famiglia. Era incredibilmente 10 giorni prima della morte di mia nonna. Non si tratta di semplici coincidenze. Si vede la mano di Dio, e ci si sente come un vero nulla dinnanzi a questo grande mistero.

Possiamo parlare di una differenza di effetto fra la cosiddetta “unzione degli infermi” moderna e il sacramento tradizionale dell’Estrema Unzione?

No, perché alla fine si tratta di amministrare lo stesso Sacramento che si dà a chi è in pericolo di morte. Però, nel cambio di un nome c’è il rischio di cambiare come si intende la res propria del sacramento. Quando si parla di Estrema Unzione, si parla d’un Sacramento in extremis, cioè sull’orlo della vita e della morte. Si tiene conto della fragilità e della sacralità della vita. Si tratta della paura della morte, del timor Dei che porta all’Amor Dei. Si tratta, perciò, del “perfezionamento non solo della penitenza, ma di tutta la vita cristiana, che deve essere una perpetua penitenza” (cfr. Summa Contra Gentiles IV, 73), come si legge nel Proemio sulla sezione dedicata al Sacramento dell’Estrema Unzione nel Concilio di Trento (cfr. DS 1694). Dato che il Signore ha voluto provvedere rimedi salutari contro tutti gli assalti di tutti i nemici, ha disposto nei sacramenti degli aiuti efficacissimi contro i più gravi mali spirituali. In tal senso, ha voluto proteggere la fine della vita con una fortissima difesa. Il Concilio di Trento ci ricorda che il nostro avversario cerca ogni occasione per divorare le nostre anime (cfr. 1 Pt. 5,8).

Ed è in questa ottica che si dovrebbe amministrare il sacramento agli infermi in periculo mortis. Però ci sono casi in cui il pericolo non sembra essere così grave; recentemente c’è stato il caso di Sergio Marchionne che, entrato in sala operatoria per un intervento, ne è uscito morto (curiosamente, era studioso e ammiratore di Pico della Mirandola). Ed è per questo che si è cercato di estendere la grazia di questo Sacramento anche a persone semplicemente inferme sottoposte a operazioni banali. Uno potrebbe chiedersi: ma perché non fare una semplice confessione? In effetti, il Sacramento, per come è definito da Trento e da San Tommaso d’Aquino, il Doctor Communis, consiste in una semplice protezione della persona, che si riconosce in pericolo di morte, dagli ultimi assalti dei demoni che cercano di rubargli l’anima. Mons. Antonio Piolanti spiega che l’Unzione degli Infermi “normalmente conferisce solo la grazia “seconda” o l’aumento della grazia santificante essendo stata istituita principalmente come Sacramento dei vivi, da riceversi dopo la Penitenza.” (Cfr. Piolanti, I Sacramenti, p. 459) In tal modo, perfeziona il Sacramento della Penitenza. Vanno insieme. Non è che uno sostituisca l’altro. Piuttosto, uno perfeziona l’altro. Chiamandolo unzione degli infermi si amplia la possibilità di riceverlo in caso ci fosse il rischio di morte per la quale è sempre meglio essere preparati.

Spesso ho notato che la gente non vuole farsi amministrare questo Sacramento proprio perché lo vede come un “porta sfortuna”. Esso è percepito come un avvicinarsi alla morte, e per natura la gente non vuole morire, dimostrando così che la morte è effetto del peccato originale che toglie la grazia preternaturale della immortalità, oltre a quella dell’integrità e quella dell’impassibilità. (cfr. ST I q. 97). Si deve però ricordare che questo Sacramento ha il potere di rimettere i peccati (DS 1717), di cancellare, quando occorra, anche i peccati non espiati (DS 1696). Infatti, nel caso che non ci siano le disposizioni necessarie, questo Sacramento “cancella i peccati mortali direttamente (per se) e non indirettamente (per accidens)…Agli infermi ancora in piena coscienza, ma per ignoranza soltanto in possesso dell’attrizione, rimette i peccati in modo più efficace dello stesso Viatico e di tutti gli altri Sacramenti”. (Piolanti, ibid. p. 460). Oltre a queste garanzie, il Sacramento dà sollievo e rinvigorisce l’anima; chi non vorrebbe l’estinzione di ogni languore e debolezza spirituale? Se consideriamo la fragilità della vita, dobbiamo sforzarci di promuovere questo Sacramento tra gli infermi che rischiano di perderla. In tale ottica si può vedere nel cambio del nome un cambiamento positivo, che dovrebbe essere visto come un riconoscimento della fragilità della vita e della voglia di proteggerla dalla morte.

L’Unzione degli Infermi rimanda, però, maggiormente ad una condizione dell’homo viator, quasi una necessità in un momento di bisogno, a detrimento dell’idea propria che l’estrema unzione rivendica: la salvezza dell’anima e la conversione in articulo mortis. Questo, emerge in parte nell’evidente cambio nella Messa Esequiale tra il rito tradizionale e quello della riforma liturgica. Pensiamo alla soppressione, solo per fare alcuni esempi, del Dies Irae (che diventa semplicemente un inno della Liturgia Horarum da recitarsi in modo facoltativo e non la sequenza propria della Messa per i defunti), della meravigliosa antifona d’Offertorio Domine Iesu Christe, e del Libera me Domine nell’assoluzione del cadavere dopo la celebrazione della Messa. Si potrebbe dire, in fondo, che c’è il rischio di assistere ad un cambio della prospettiva incentrata prevalentemente sulla morte alla luce della Vita nei Novissimi e della possibilità che l’anima si perda. Pensiamo alle parole forti della Madonna di Fatima che si recitano dopo ogni decina del Santo Rosario: O mi Iesu, libera nos ab igne inferni…

Oggi giorno, anche nella Chiesa, si parla spesso di carità e misericordia, eppure – mi corregga se sbaglio – non si vedono più preti girare per gli ospedali o nelle case di risposo. A cosa è dovuto questo lassismo?

Purtroppo c’è una crisi vocazionale senza precedenti, e a volte i cappellani negli ospedali si trovano a dover assistere un numero molto grande di malati. Ho lavorato come seminarista presso vari ospedali a Roma, e devo dire che i cappellani si davano davvero molto da fare. Non erano rilassati. Personalmente, nella mia esperienza a Roma, non ho assistito ad una forma di lassismo, tutt’altro. Ovviamente, purtroppo, non è così dappertutto: in molte parti d’Italia questo lassismo esiste.

Un esempio che dovrebbe ispirare tutti è quello che si è visto nella città di Norcia nel periodo del forte terremoto che ha colpito l’Umbria. In quell’occasione, dopo la forte scossa, le immagini di tutti i telegiornali mostravano i monaci benedettini di Norcia pregare in ginocchio, nella piazza di San Benedetto, con molti abitanti del paese. Le telecamere e i giornali locali raccontavano anche del primo intento che ha mosso i monaci dopo il tremendo terremoto: visitare i malati e gli anziani nelle loro abitazioni e in ospedale, per amministrare il sacramento dell’Estrema Unzione. Questa volontà e questa cura per le anime prima di tutto si rivelò provvidenziale, visto che – e a raccontarlo fu la gente del luogo – tante persone anziane, quasi un’intera generazione, morì dal dolore, per aver visto distrutto nuovamente le loro case, la loro storia, il loro vissuto. Lo spirito sacerdotale che animò i monaci di Norcia è quello verso il quale si deve propendere. La salus animarum è ciò a cui la Chiesa intera, con tutte le membra del suo Corpo Mistico, deve assolutamente dare la precedenza.

Tornando all’occupazione dei cappellani di ospedale, penso che sia una vita davvero difficile. Mi ricordo che instauravo rapporti fluidi con la gente perché c’è un grande via e vai di persone. Ci vuole un sacerdote con un certo tipo di carisma per fare tale apostolato, come anche per i cappellani degli aeroporti. Non è come fare il parroco che conosce le sue pecore davvero bene.

Anche laddove qualcuno visiti ancora gli ammalati, sembra però che ciò debba sempre esser fatto senza urtare le diverse sensibilità. In pratica, sembra che si debba stare attenti a portare Cristo. 

Purtroppo molte persone non sono credenti, oppure non capiscono il valore del Sacramento. Dato che io ci credo, sono anche audace. È vero che dovrebbero essere loro a chiedere, però con i modi gentili ci sono anche delle conversioni. Fortiter in re, suaviter in modo, si dice. Non bisogna scoraggiarsi: spesso si può vedere che con il pericolo di morte imminente alcuni atei diventano credenti. Almeno questa è la mia esperienza a Roma.

Non crede che anche in un certo ambiente cattolico-tradizionalista si pensi poco all’importanza dell’accompagnamento ad una morte cristiana? Come uscire da questo modo di pensare e (non) agire tipicamente moderno?

In ambito cattolico-tradizionalista si pensa anche poco all’importanza dell’accompagnamento ad una morte cristiana, ed è perciò che bisogna riaprire queste realtà alla coscienza della gente. Bisogna parlare più sovente sui Novissimi, come ci ricorda S. Francesco d’Assisi con le sue istruzioni sulle prediche, affinché siano brevi e con un marcato accenno ai Novissimi.

3 commenti su “Il lavoro con gli anziani: intervista ad un sacerdote – di Cristiano Lugli”

  1. Contributo importante. E’ di questo che hanno bisogno le anime. Tutte. Attraverso i doni infiniti della Divina Grazia è possibile affrontare la sofferenza, fisica e spirituale. Non a caso Padre Pio ha denominato l’Ospedale da Lui fondato “Casa sollievo della sofferenza”. Questa strada ha seguito Madre Teresa, nella povertà più assoluta. Ore di Preghiera e Adorazione Eucaristica, e la Santa Messa; e aggiungeva che senza la guida di un Sacerdote le Sue Suore non avrebbero ricevuto la formazione e il sostegno necessario ad una vita di sacrificio, tutta spesa per il prossimo. Un grazie al Reverendo Padre Francesco, e a tutti i Consacrati che vivono la propria vocazione secondo il Sacro Cuore di Gesù.

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