Nel nuovo libro di Primo Siena «La perestroika dell’ultimo Mussolini», la riscoperta di carte e documenti dimenticati che impongono una rilettura della storia e offrono suggerimenti per la crisi che stiamo attraversando. Importante e tutta da riscoprire l’esortazione ad ancorarsi profondamente al messaggio cattolico
di Luciano Garibaldi
Tutta da leggere la nuova, stimolante indagine storica che Primo Siena, docente di lungo corso impegnato sia in Italia sia in Cile e, più in generale, in tutta l’America meridionale, ha affidato ai tipi dell’editore Solfanelli (www.edizionisolfanelli.it) con il titolo «La perestroika dell’ultimo Mussolini. Dalla dittatura cesariana alla democrazia organica» (284 pagine, 19 euro). Siena è uno storico e un politico di lungo corso. Come ricorda il professor Giuseppe Parlato nella prefazione al volume, fin dagli Anni Cinquanta, con la rivista «Carattere», fondata e diretta assieme a Gaetano Rasi, svolse un’importante funzione politico-culturale all’interno di quel filone di pensiero che poneva il cattolicesimo come nuovo riferimento culturale per la destra del MSI. Per Siena, infatti, se si voleva uscire dalle nostalgie dittatoriali o totalitarie tutt’altro che assenti nell’ambiente missino, occorreva ancorarsi profondamente al messaggio cattolico. Lo stesso segretario del MSI, Arturo Michelini, aveva individuato quel filone cattolico e nazionale come il modo più intelligente per uscire dal nostalgismo fascista e per inserirsi nel gioco politico. Peraltro, nell’ultimo Mussolini fu evidente una evoluzione in senso democratico e cattolico: una «perestroika», appunto. La cui manifestazione più clamorosa fu la singolare rassomiglianza tra i progetti costituzionali della RSI e quelli del massimo intellettuale della Resistenza, Duccio Galimberti.
A tale aspetto, fino ad oggi poco approfondito, delle due ideologie che si confrontarono sanguinosamente nella guerra civile italiana del ’43-’45, è dedicato il capitolo centrale del libro di Primo Siena, che esamina la proposta costituzionale di Galimberti confrontandola con il progetto di Costituzione della RSI redatto da Carlo Alberto Biggini e approvato da Mussolini.
Duccio Galimberti, nato a Cuneo nel 1906, era figlio di un illustre uomo politico, già ministro, poi senatore del Regno, che, deceduto nel 1939, volle essere seppellito in camicia nera. Il figlio Duccio la pensava esattamente all’opposto. Tenutosi lontano dalla politica finché era in vita il padre, non esitò in seguito a contattare gli oppositori del regime e divenne intimo di Ferruccio Parri, che lo introdusse nel Partito d’Azione clandestino. Dopo l’8 settembre ’43, si diede alla macchia e organizzò i primi nuclei armati di «Giustizia e Libertà» in Piemonte, assumendone il comando. Caduto nelle mani dei fascisti nel dicembre ’44, fu ucciso con una tale violenza da spingere Mussolini – memore che il genitore dell’ucciso era stato un senatore fascista – ad ordinare un’inchiesta sulla vicenda. Ma la “giustizia” partigiana arrivò prima: per vendicare l’uccisione di Garimberti, il CLN piemontese ordinò l’esecuzione di 50 ostaggi fascisti e, subito dopo la Liberazione, cinque fascisti della federazione di Cuneo, considerati implicati nella vicenda, furono condannati alla pena capitale e fucilati.
Peccato che, in quella bufera di odio fratricida, nessuno avesse neppure lontanamente immaginato quanto vicine fossero le linee ispiratrici dei due progetti di Costituzione redatti da Galimberti e da Biggini, a partire dalla previsione – da entrambi contemplata – della nascita degli Stati Uniti d’Europa (oggi realizzatisi nella UE), indispensabile strumento capace di scongiurare nuove, sanguinose guerre tra europei.
In analogia con il progetto Biggini (per il quale l’Italia avrebbe dovuto essere non «una Repubblica fondata sul lavoro» – come recita la nostra Costituzione con una frase bella ma che non significa niente – bensì «una Repubblica fondata sul diritto al lavoro»), il documento Galimberti garantiva la sovranità della Santa Sede e dichiarava la famiglia «nucleo attivo etico-sociale della società». Il lavoro era considerato non solo un diritto, ma un dovere sociale, per cui lo Stato era impegnato ad impedire la disoccupazione «impiegando presso le opere pubbliche tutti coloro che si trovino anche solo temporaneamente senza lavoro». In ulteriore sintonia con il progetto Biggini, Galimberti stabiliva: «Gli operai e gli impiegati delle aziende concorrono al riparto degli utili», disponendo che presso ogni azienda fosse istituita una commissione di controllo composta da impiegati e operai eletti dai colleghi. Altro che comitati di fabbrica!
Ma la disposizione più dirompente del progetto Galimberti era contenuta dell’art. 56 che recitava: «E’ garantita la libertà di pensiero, ma è vietata la costituzione di partiti politici». A tanto, Biggini non era arrivato. Come scrive Primo Siena, «una disposizione decisamente sorprendente, se si pensa che i fascisti della RSI si erano aperti alla previsione del pluralismo politico attraverso partiti politici diversi. Evidentemente Galimberti temeva che l’uscita dal tunnel del regime fascista avrebbe potuto favorire il ritorno ad una partitocrazia rissosa e debole come quella prefascista».
La proposta costituzionale di Galimberti non poteva certo piacere, per vari motivi, all’antifascismo partitocratico che s’impose nel dopoguerra, il che spiega l’oblio che calò sul suo progetto.
Ma non è soltanto questo il capitolo che qualifica il libro di Primo Siena. Di notevole interesse è la riscoperta di due documenti colpevolmente ignorati dagli storici della guerra civile. Il primo è un soliloquio che il giornalista Ivanoe Fossani raccolse dal capo della RSI la notte del 24 marzo 1945 sull’isola Tremellone, sul lago di Garda, e pubblicò nel 1952 in un libro intitolato «Mussolini si confessa alle stelle». Vale la pena leggerne un brano: «I fascisti che rimarranno fedeli ai princìpi dovranno essere dei cittadini esemplari. Pur partecipando alla vita politica, non dovranno intromettersi nei dissidi e negli intrighi che ritardano le soluzioni. Essi insomma dovranno agire per sentimento e non per risentimento. Dal loro contegno dipenderà una più sollecita revisione storica del fascismo, perché adesso è notte, ma poi verrà il giorno. (…) Per questo punto di fusione io darei la vita anche ora, spontaneamente».
L’altro documento è un manoscritto che il Duce vergò su un foglio nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, dov’era stato condotto dopo l’arresto sulla piazza di Dongo, che restò nelle mani di uno dei finanzieri e venne recuperato e reso noto da Duilio Susmel a metà del 1955. Vi si legge: «Non è la fede che arriva nell’ora del crepuscolo quella che mi sostiene, è la fede della mia infanzia e della mia vita che mi impone di dover credere, anche quando avrei forse il diritto di dubitare. Ho creduto nella vittoria delle nostre armi come credo in Dio, Nostro Signore, ma più ancora credo nell’Eterno, adesso che la sconfitta ha costituito il banco di prova sul quale dovranno venire mostrate al mondo intero la forza e la grandezza dei nostri cuori. (…) Oggi io perdono a quanti non mi perdonano e mi condannano, condannando se stessi. Se questo è dunque l’ultimo giorno della mia esistenza, intendo che anche a chi mi ha abbandonato e a chi mi ha tradito vada il mio perdono, come allora perdonai al Savoia la sua debolezza».