di Roberto Manfredini
Non possiamo sapere quali livelli di irrazionalità raggiungerà l’antiberlusconismo, ormai unica forma di (non)pensiero in grado di tenere uniti poteri politicamente perdenti.
Tuttavia fin da oggi possiamo ammirare l’estrema “fluidità” di questo delirio che, non riuscendo più a giustificare la propria esistenza a livello sociale e politico (e, in certi casi, nemmeno a livello “amministrativo”), si rivolge al lato emotivo dell’elettore: l’argomentazione logica lascia il posto all’appello barricadero, alla “narrazione” sentimentale, al lamento moralizzante ecc…
Sembra che l’anti-berlusconismo abbia perso il carattere di “mezzo” di lotta politica, per diventare “fine” esistenziale di un nuovo ordine sociale, la cosiddetta “Industria dell’Indignazione”, che sopravvive grazie alla presenza costante di Berlusconi sotto i riflettori.
Ma quanto conviene alle forze di centro-sinistra convivere col Travaglio-pensiero? Sarebbe interesse vitale per loro sbarazzarsene prima delle prossime elezioni. Liberarsene dopo, in caso di (improbabile) vittoria, non verrebbe consentito dagli elettori stessi.
Nel 2006 qualcuno ricorderà che L’Unità, dopo aver sfruttato il “travaglismo” per anni, pensò di scaricare l’Incorruttibile pubblicando una vignetta del disegnatore Staino che, con la solita scusa della “satira”, dipingeva il giornalista come un corvaccio nero (il “Beriatravaglio”).
Ci fu una levata di scudi dei lettori, i quali, con invidiabile ingenuità si domandarono perché la sinistra ora non voleva subire la stessa “cura rigenerante” proposta dal roboante giustizialista.
Oggi, dopo aver constatato che l’antiberlusconismo quotidiano non regala neppure la minima soddisfazione di un governicchio sgangherato e senza meta, la sinistra residuale decide di abbracciare “la via esistenzialista dell’opposizione” e di trasformare l’odio contro Berlusconi in una fantasmagorica lotta contro il Male Assoluto.
In quest’ottica va analizzato il triste spettacolo della suorina che, sponsorizzata dalla gauche caviar nostrana, lancia l’anatema contro il “Silvio-Erode”, corruttore di minorenni e satiro sardanapalesco. Per non parlare della noiosa bagarre tra femministe militanti di ieri (moltissime) e di oggi (pochine), alimentata per un mese da Repubblica e il Corriere, e risoltasi con l’immarcescibile comandamento orwelliano: “Le donne possono fare quello che vogliono, ma quello che vogliono le donne lo decidono le femministe”.
È una sinistra senza controllo, dalla quale non sembra possibile liberarsi soltanto attraverso il voto. Essa ha ancora un forte ascendente “culturale” nell’ambito dei media, della scuola e dell’editoria, che le consente di agire come una élite irresponsabile, egoista e, in ultima analisi, anti-sociale.
Questo “Partito radicale di massa” (per rispolverare l’azzeccata definizione di Del Noce), rassegnatosi all’insignificanza politica, non rinuncia tuttavia alla propria auto-rappresentazione narcisistica di “forza sociale”, e si rifugia in ridicole militanze a favore di eutanasia, fecondazione assistita, matrimonio omosessuale e tecnologie abortive varie, nelle stesse modalità in cui per quarant’anni ha inquinato il dibattito su questioni come il divorzio e –appunto- l’aborto.
Eppure… eppure… pare che qualcosa stia cambiando. Il delirio anti-berlusconiano di cui abbiamo parlato sta logorando i nervi di professorini e professoroni, portandoli in uno stato di semi-incoscienza nel quale accetterebbero persino l’avvento di una teocrazia asiatica, pur di liberarsi di quel “Male Assoluto” chiamato Silvio.
Come esempio, mi basta citare l’ultimo libro dello psicanalista Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? (Cortina, 2011). Un testo del genere negli anni ’70 non sarebbe mai stato pubblicato. Negli anni ’80 e ’90, avrebbe forse trovato l’appoggio di qualche editore sconosciuto; e nonostante questo sarebbe stato ugualmente travolto dalle critiche.
Oggi invece il libro di Recacalti, che parte da una argomentazione assolutamente “reazionaria” (non è lecito liquidare il padre in nome dell’ipermodernità), viene accolto in maniera positiva da tutto lo schieramento culturale progressista. Il tentativo di “disinnescare” il testo, rileggendo in chiave buonista, non toglie nulla alla sua vis polemica: «Nell’affermazione del Padre-Führer e nella contestazione giovanile alla società patriarcale si può ritrovare un fraintendimento fatale dell’autentica funzione simbolica del Padre» (p. 38).
Il bersaglio è chiaro, ma quanta fatica per ammetterlo!
Ancora oggi a sinistra si bolla come “reazionario” qualsiasi discorso razionale sull’argomento, rispolverando le belle battaglie degli anni formidabili. In questo caso, tuttavia, la reazione pavloviana non è scattata al momento giusto. Volete sapere il motivo? Ne abbiamo parlato finora: è l’anti-berlusconismo.
Se il libro di Massimo Recalcati non è stato sepolto da sberleffi e insolenze è perché lo psicologo ha preso una ingegnosa precauzione: ha inserito una lunghissima nota contro Berlusconi nella terza pagina della “Introduzione”. La riportiamo per intero: «L’espressione “papi”, recentemente alla ribalta della cronaca politica italiana a causa di innumerevoli giovani donne (papi-girls) che così si rivolgono al loro seduttore, mette in evidenza la degenerazione ipermoderna della Legge simbolica della castrazione. La figura del padre ridotta a “papi”, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della Legge, l’esibizione di se stessi come un io forte e onnipotente, il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento della funzione simbolica del padre che trovano una loro sintesi impressionante nella figura di Silvio Berlusconi. Il passaggio dal padre della Legge simbolica al “papi” del godimento non definisce solamente una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato post-ideologico di tipo perverso), ma rivela anche la possibilità che ciò che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione sia solo una versione cinico-materialistica del godimento. Contro questo possibile esito le pagine che seguono provano ad alzare una voce diversa» (p. 14, n2).
Questa filippica introduttiva assomiglia alla classica captatio benevolentiae: sarà un caso, ma nella recensione del libro apparsa su L’Unità viene cita solamente questo passaggio… (il perché è intuibile: a Berlusconi come “Male Assoluto” si può pure imputare la “scomparsa del padre”, mentre i sessantottini che volevano decapitare il Padre-Führer non c’entrano nulla).
A onor del vero, Recalcati offre in pasto agli antiberlusconiani solo le briciole iniziali. Nei capitoli che seguono l’introduzione, di Berlusconi (o di “egemonia berlusconiana”) non se ne parla.
Sembra che proprio grazie a questo “contentino” venga finalmente consentito di discutere il problema del “Padre”. Poi chiaramente si potrà essere in disaccordo con l’analisi dello psicologo lacaniano (per esempio: su quale fondamento dovrebbe posare la “Legge”? Può essa ridursi solo a testimonianza personale, con la speranza che il proprio figlio riesca a capire?); ma il fatto che l’onnipresente censura politically correct sia stata messa a tacere con un obolo anti-berlusconiano, induce a domandarsi se, per muoversi sui “campi minati”, non sia necessario sfruttare fino in fondo il riflesso condizionato dell’anti-berlusconismo.
Per esempio, perché non affrontare la questione del divorzio cominciando da quelli di Berlusconi? Si potrebbe dimostrare che questa “conquista sociale” ha contribuito, nei fatti, a distruggere la società, ad aumentare l’egoismo, a rendere sempre più complicato il rapporto tra i due sessi e, nel migliore dei casi, ad offrire a chi poteva permetterselo una maniera veloce e indolore per liberarsi di una compagna ormai “ingombrante” (con lauto assegno di mantenimento).
Lo stesso discorso vale per l’aborto: ormai è noto che negli anni ’80 Veronica Lario si sottopose ad “aborto terapeutico” al settimo mese, perché «quel bambino non sarebbe nato sano» (come disse in un’intervista al Corriere di qualche anno fa).
Vuoi vedere che la 194 fu una legge ad personam…?
A parte gli scherzi, questi due esempi dimostrano come il “berlusconismo” sostanzialmente non esista. I numerosi elettori cattolici che, nonostante tutto, scelgono ancora Berlusconi, sanno che l’alternativa non può essere quella del partito radicale di massa. Che, come se non bastasse, si presenta nella veste messianica di “moralizzatore del popolo” – una proposta talmente credibile, che persino Antonio Polito, direttore de Il Riformista, la liquida con un semplice esercizio mnemonico: «[La sinistra] avrebbe dovuto riconoscere che c’erano aspetti della tradizione che sarebbe stato meglio conservare, avrebbe dovuto sforzarsi di comprendere la morale sessuale della Chiesa, avrebbe dovuto ammettere la necessità di un’etica privata, dopo essere diventata la paladina dell’etica pubblica […]. Francamente non si può fare una battaglia sulla morale dopo aver esaltato l’indifferentismo morale di chi ripete che “ognuno sotto le lenzuola fa quello che vuole” […]. Qualcuno avrebbe dovuto dire prima, anche quando il satiro non era il presidente del Consiglio, che quello che vedeva non era libertà ma licenza, non liberalismo ma libertinaggio, non società aperta ma casa chiusa. La sinistra liberal non l’ha fatto per paura di apparire bacchettona, e perché è ormai schiava di una cultura dei diritti che è stata declinata soprattutto in chiave di libertà sessuale. Solo se comincerà a farlo adesso, la sua campagna contro il bordello-Italia potrà evitare l’accusa di ipocrisia e di strumentalismo» (A. Polito, “Gli stili di vita e le occasioni perdute della cultura al femminile”, Corriere della Sera, 08/02/2011).
Ma è evidente che la “presa di coscienza” non è avvenuta, e sicuramente non avverrà: ribadiamo le accuse di “ipocrisia” e “strumentalismo” come abbiamo fatto finora.
Neppure per un istante il “predicare bene” è servito a opporre un limite al nichilismo gaio e al “disumanesimo”. Anzi: per ogni Savonarola schieratosi contro il “Berlusconi-Erode”, sono spuntati cento de Sade a difendere qualsiasi perversione possibile. Anche con un certo orgoglio, se stiamo alle parole del “marchesino” Flores d’Arcais: «Libertari e garantisti siamo rimasti (e libertini talvolta, ma questa è irrinunciabile privacy). Libertari: pensiamo che in fatto di sesso, tra adulti consenzienti, di tutto e di più. Adulterio, masturbazione, orge, sadomasochismo, uso di pornografia e “gadget” sessuali, scambio di coppie, prostituzione, financo sesso con animali (se non si dà luogo a maltrattamento), e chi più ne ha più ne metta, il tutto sia in chiave etero che omo che transessuale. Nessuno, magistrato o giornalista che sia, in questa sfera privata deve poter mettere becco» (P. Flores d’Arcais, “Dignità non è moralismo”, Il Fatto quotidiano, 12/02/2011).
Sappiamo tutti che Berlusconi non potrà mai regalarci un “capolavoro di restaurazione” come quello avvenuto di recente in Ungheria, con l’approvazione di una Costituzione di ispirazione cristiana. Ma i «difensori della vita, dell’uomo, della ragione» (così il card. Biffi definì coloro che si batterono per l’abrogazione della 194) continueranno a tenersi Berlusconi finché non sarà conveniente abbandonarlo.
Per riprendere il discorso da dove abbiamo iniziato: l’idea che i cattolici comincino a parlare il “linguaggio dell’antiberlusconismo” non è del tutto erronea, a patto di non dimenticare le parole di Nostro Signore: «Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mt 10,16).
Se a livello politico l’antiberlusconismo è al momento una condotta sconveniente, in ambito culturale potrà servire a mettere sotto scacco l’intellighenzia progressista, che suo malgrado non riuscirà più a defilarsi dal confronto in nome di una presunta superiorità morale.