Qualche giorno fa ho ricevuto uno scritto di Giovanni Lugaresi che portava il seguente incipit: “Approfitto di una pausa della canicola agostana per buttar giù qualche ricordo “importante” della mia vita di cui far partecipi un po’ di amici. Senza ricorrere a lettere, libri, appunti, pagine di giornale, ma soltanto sul filo della memoria…”.
Si tratta di una bellissima testimonianza in cui Giovanni racconta la sua amicizia con Giuseppe Prezzolini. Tenerla solo per me mi sembrava uno sgarbo ai lettori, a Prezzolini e a Lugaresi. Dunque ho chiesto all’autore la possibilità di pubblicarla e lui mi ha risposto così: “Non era stato scritto per la pubblicazione, come spiegato… Ma sai anche che puoi fare quello che vuoi con le mie cose”.
È precisamente questo che rende preziose le vecchie amicizie.
(alessandro gnocchi)
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Il 14 luglio scorso sono stati ricordati i 40 anni della morte di Giuseppe Prezzolini, avvenuta nell’ospedale di Lugano, dove era ricoverato da qualche settimana. Al suo capezzale c’erano il figlio Giuliano con la moglie Virginia che avevano “dato il cambio” a sister Margherita Marchione, l’allieva prediletta dal maestro all’Università di Columbia a New York, tornata nel convento delle Pie Maestre Filippini di Morristown per gli inderogabili doveri derivanti dal suo ordine.
Avevo fatto visita al grande amico alla fine di maggio, alla vigilia di un pellegrinaggio a Lourdes, e nel suo (quasi) ostinato rifiuto di condividere il cibo del desinare con me e con sister Margherita, avevo intravisto una volontà di non voler più vivere, dopo l’inaspettata morte della moglie Jackie (Gioconda) Savini avvenuta nel dicembre 1981.
Sì, c’erano stato i festeggiamenti per i 100 anni del decano della cultura italiana, compiuti il 27 gennaio 1982: articoli, interviste, convegni, ma… per lui la vita non doveva avere avuto più senso! E si stava abbandonando.
L’ultima sua lettera a me reca la data di metà giugno 1982 e forse non ne scrisse altre, perché poco dopo, Giuliano mi comunicò che il babbo era stato ricoverato in ospedale, appunto…
Erano le 7 del mattino del 14 luglio, quando nella mia abitazione padovana di Riviera Ruzzante squillò il telefono: dalla voce di Giuliano ebbi la notizia della morte. Mi pregò di non scrivere nulla; secondo la volontà del babbo, la notizia la si sarebbe dovuta dare dopo la sepoltura.
Che fare? Un giornalista, quando ha una notizia, la deve dare! E’ il suo dovere.
Ma non lo feci.
Prima di tutto, ho sempre detto a me stesso: io sono un uomo, poi un cristiano, poi un giornalista, ergo…
A quel tempo lavoravo nella redazione del Gazzettino di Treviso (facevo il pendolare in treno) e il “coccodrillo” di Prezzolini l’avevo preparato qualche giorno prima, sapendo che era ormai alla fine.
Alle 19, di ritorno a Padova, squillò di nuovo il telefono. Era il collega Prandin, della sede centrale, che mi chiedeva un articolo, subito, perché era arrivata un’Ansa annunciante l’evento.
Era accaduto che la notizia della morte dell’illustre degente fosse uscita dal nosocomio e in breve tempo a Lugano tutti sapessero. Il cronista dell’agenzia di stampa aveva persuaso Giuliano (così lui mi disse) a comunicarla.
Telefonai allora al collega Sante Rossetto, vice caposervizio a Treviso, indicandogli il cassetto della scrivania dove c’erano le cartelle dattiloscritte su Prezzolini. Rapidamente, via fax, spedì il tutto alla sede centrale.
L’indomani, la Terza Pagina del Gazzettino era interamente dedicata al grande intellettuale scomparso ultracentenario. Con il mio ampio scritto biografico, una rievocazione di Cibotto, alcune foto e una nota d’agenzia.
Non potevo mancare, due giorni dopo, nel cimitero di Lugano per l’addio al grande amico che mi aveva voluto bene, apprezzandomi, stimandomi, certo oltre i miei meriti, oltre le mie qualità…
Eravamo in pochi. Ricordo Giuliano e Virginia (ovviamente), un loro amico di Pontassieve, Claudio Marabini, inviato del Resto del Carlino, Pietro Radius del Giornale, una corona di Indro Montanelli, e tanto silenzio…
Buttai giù un po’ di righe a mano, poi dettai il pezzo al Gazzettino, un po’ leggendo, un po’ a braccio, da un telefono pubblico della stazione ferroviaria di Lugano, pochi minuti prima della partenza del treno per l’Italia.
Me ne tornavo triste, desolato per il distacco da un grande uomo che mi aveva onorato della sua amicizia, ancorché consapevole che, per dirla con un mio vecchio amico monaco, “se da giovani si può morire; da vecchi, si deve morire!!!”.
Me ne tornavo peraltro con la presenza spirituale di Prezzolini e pure con qualcosa che rappresentava e continua a rappresentare una “presenza concreta”. Giuliano aveva acconsentito, infatti, che prendessi il bastone di suo padre, quel “bastoncello birichino” al quale si appoggiava nelle passeggiate sul lungolago, secondo le raccomandazioni mediche, ma del quale avrebbe potuto fare anche a meno, spedito, sicuro come era stato fino all’anno prima, nel passo.
Adesso che sono vecchio e malandato, cammino appoggiandomi a un bastone, ma non al suo, bensì a quello ben più robusto che fu di Knud Ferlov, il grande lettore e traduttore di Kierkegaard e Andersen, che anni prima avevo incontrato (e intervistato per l’Osservatore della Domenica diretto da Enrico Zuppi) a Roma grazie ai buoni uffici dello stesso Prezzolini.
Il “bastoncello birichino” è nella mia casa ai piedi del Montello, insieme ai tanti altri carissimi ricordi, in primis (ma non solo) di Prezzolini (conservo pure il bastone di Marino Moretti), le sue lettere che darò alla Biblioteca Cantonale di Lugano, i suoi libri con dediche, due delle quali a me particolarmente care. In una mi definisce “l’ultimo degli amici fatti in Italia” ed è del 1968, quando andai a fargli visita per la prima volta nell’abitazione luganese alla sommità di Via Motta; in un’altra, al volume che pubblicò da Rusconi sulla Voce, scrivendo: “A Giovanni Lugaresi/ che sarebbe certamente/ stato con noi della Voce/ se fosse vissuto 68 anni/ or sono, con animo grato/ GPrezzolini/ Lugano 28.I.75”.
Quanti ricordi, quante conversazioni, quante lezioni (quella dell’onestà innanzitutto), da parte di un uomo che non voleva certamente darne, di lezioni. perché non era di quelli che salivano in cattedra per magari indottrinare l’interlocutore. Anzi: chiedeva, voleva sapere, conoscere, lui, che cosa l’interlocutore pensasse, come vedesse situazioni, eventi, uomini.
Contrariamente poi a una vulgata che lo descriveva cinico, egoista, devo smentire, per quel che mi riguarda, ma anche in virtù di altre testimonianze, quella di Biagio Marin, in particolare, che tempo fa ho riportato in non ricordo quale mio scritto.
Mi disse dunque, il poeta di Grado, che quando studiava a Firenze ai tempi della Voce ed aveva sodali Slataper, Spaini, Stuparich, aveva conosciuto Prezzolini. E da lui aveva avuto aiuti quando si era ammalato. Prezzolini gli portava frutta e medicine e gli praticava le iniezioni prescrittegli dal medico.
Prezzolini “è un aristocrata” – ricordo mi ripeté più volte nel corso di una conversazione.
Un altro, ultimo (non voglio finire per tediare i miei amici che leggeranno) ricordo.
Fine luglio 1972, il Gazzettino mi manda per il servizio all’Isola di San Giorgio di Venezia. Un Prezzolini novantenne, invitato da Vittore Branca, magna pars della Fondazione Cini, per una conferenza, e io… cronista.
Una sala gremita di pubblico, con fior fiore di intellettuali – a far gli onori di casa, ovviamente, il conte Vittorio. Fra gli altri, ho ben presenti ancora Ezra Pound, il maestro Gianfrancesco Malipiero, Diego Valeri, Grandi (sì Dino, quello del Gran Consiglio del Fascismo che fece cadere Mussolini), e Biagio Marin.
Nel presentarlo, Branca annoverò Prezzolini, “con Croce e Gentile, fra i nostri grandi maestri”.
Il fondatore della Voce parlò per un’ora in piedi, a braccio! E l’attento, partecipe silenzio del pubblico venne interrotto soltanto alla fine da un applauso fragoroso e prolungato.
Ci fu poi un signorile (poteva essere diversamente?) rinfresco durante il quale Prezzolini mi presentò al conte Cini.
A un certo punto, gli eravamo seduti accanto su un ampio divano, Jackie, Marin e il sottoscritto: “che impegni hai? – mi chiese.
Nessuno, fu la risposta.
Allora vieni a cena con noi.
Ci congedammo dallo splendido ospite e in motoscafo arrivammo al Gritti. Prezzolini e Jackie andarono a riposare, Marin e io, a conversare in un salotto.
Alle 20,30 una indimenticabile cena a quattro.
Alle 22 ero in sede centrale (allora in Calle delle Acque) a battere i tasti di una Olivetti prestatami dal collega e amico Gabriele Cescutti…
L’immodestia non c’entra; riferisco semplicemente: il pezzo fu apprezzato, in primis dal direttore Lauro Bergamo, e poi dagli interessati…
Sono passati 50 anni da quella memorabile conferenza nell’isola di a San Giorgio, e io credo di essere uno dei pochi ancora vivi fra quelli che vi parteciparono.
40 anni sono trascorsi dalla morte del grande maestro e amico.
E adesso?
Sono in attesa della biografia di Prezzolini che il suo più acuto e profondo studioso, nonché incomparabile amico, Emilio Gentile, dovrebbe stare ultimando.
2 commenti su “Il mio amico Prezzolini”
Mi ha fatto piacere leggere questo scritto su Prezzolini, una persona straordinaria che ha lasciato, a chi lo ha conosciuto, un solco indelebile. Mio padre, storico e appassionato lettore della Voce e suo amico personale, me ne ha fatto conoscere il valore di uomo e di scrittore e ancora oggi ritrovo nei suoi scritti una modernità profonda che vorrei si potesse trasmettere a queste nuove generazioni di ragazzi a cui nessuno ha insegnato ad amare la storia e l’importanza di scrivere “coraggiosamente”.
Grazie
Si un intellettuale ancora molto attuale, anzi alle volte mi sembra che i problemi dell’Italia sono rimasti gli stessi di quelli che lui e gli altri autori della Voce evidenziavano all’epoca, forse ad essere cambiati sono gli intellettuali, che non partecipano più con passione alla vita pubblica o se vi partecipano lo fanno solo per unirsi al coro di chi elogia il potere