IL MITO DELLA ‘GRANDE MADRE’ – di Lino Di Stefano

di Lino Di Stefano

 


Il mito della ‘Grande Madre’ – proprio perché ‘mito’, vale a dire immagine o leggenda favolosa  relativa ad un evento, una figura o una situazione – ha sempre affascinato filosofi, etnografi, antropologi ed altri studiosi. Il motivo è semplice. Tale prototipo ha origini remotissime visto che le società in cui questo modello si è estrinsecato risalgono alle comunità primitive rappresentanti un passo obbligato per comprendere, nella sua interezza, lo sviluppo di quelle collettività – segnatamente nei bacini mediterranei, afro-asiatici ed anche del Sudamerica – dai primordi ad oggi.

ftEsse, infatti, affondano le radici nel Neolitico e nel Paleolitico che hanno come paradigma, appunto, la ‘Dea Madre’ costituente – osserva Tommaso Romano nella ‘Introduzione’ al saggio di Maria Adele Anselmo la figura della ‘Dea Madre’ nelle pagine di Evy Johanne Haland’ (Fondazione Thule Cultura, Palermo, 2011) – “il principio generatore dell’universo, in grado di controllare la vita e la morte”. L’Autrice, docente di lingua inglese nelle scuole primarie di Palermo, ha voluto dedicare il proprio lavoro alla citata studiosa scandinava la quale ha, al suo attivo, non solo una notevole produzione letteraria in lingua norvegese, inglese e in altri idiomi, ma anche un considerevole ‘curriculum’ scientifico.

Senza contare gli incarichi  accademici ricoperti nei vari dipartimenti culturali del suo Paese e di tante altre Nazioni europee ed extra-europee; una ricercatrice, in definitiva, di tutto rispetto che sta onorando, con le proprie indagini, l’intera comunità internazionale. Prima di affrontare la tematica in oggetto, l’Anselmo dedica, all’inizio del saggio, alcune interessanti pagine agli studiosi che prima della ricercatrice norvegese hanno trattato i miti e i riti riguardanti la ‘Dea Madre’.

Ad iniziare da celebre storico romeno delle religioni, Mircea Eliade (1907-1986), dalla eminente cultrice bulgara di tali problematiche, Marija Gimbutas (1921-1994), fino ad Ignazio. E. Buttitta (1965) ricercatore, in tale campo, non meno illustre dei precedenti. Il quale “si è occupato, scrive l’Autrice del libro, del calendario cerimoniale e dei riti agrari in Sicilia e nel Mediterraneo antico, con particolare riguardo al complesso mitico-rituale del culto di Demetra”.

Il primo, teorico, della famosa dottrina della ‘ierofania’, come manifestazione del sacro, e autore, altresì, del fondamentale trattato, ‘Storia delle religioni’ ( Einaudi, 1954) , riteneva – secondo una esegeta dello storico romeno, Claudia Gualdana – “che le tradizioni dovessero essere interpretate a partire dell’approfondimento del linguaggio simbolico e mitico. Nelle civiltà arcaiche – prosegue la studiosa – individuò il rifiuto della storia per abbracciare una sacralità posta al di là dei limiti del tempo. Come pochi altri, seppe penetrare il mistero della dimensione sacra dell’uomo” (Sole 24 Ore, 11 ottobre 1998).

Da qui, la convinzione eliadiana – nelle culture arcaiche – della dicotomia   ‘sacro-profano’ avente, almeno il primo momento, cioè il ‘sacro’, come denominatore comune, appunto, il ‘mito’ quale manifestazione spirituale avulsa dalla storia. La seconda, di origini lituane, cultrice di civiltà arcaiche e   pregevole linguista,  fu una delle prime ricercatrici a far collimare le cognizioni linguistiche con quelle archeologiche onde individuare le antiche stirpi dei popoli indoeuropei, viste le ondate migratorie in direzione dell’Antica Europa.

Da tali interessi interdisciplinari, la Gimbutas coniò un felice neologismo – ‘Archeomitologia’ – concepito come ricerca incentrata sullo studio comparato sull’insieme dei miti, delle religioni e delle tradizioni tramandato per via orale. Da ciò, derivano  i tre fondamentali Dèi indoeuropei, individuati dalla studiosa bulgara e vale a dire, son parole dell’Anselmo, “il Dio del Cielo Splendente, il Dio degli Inferi e il Dio del Tuono (…) legati a precise immagini di dominio e di potenza; le divinità femminili, invece – chiarisce la docente palermitana – sono solo delle spose, mogli o fanciulle prive di alcun potere, prive di alcuna creatività che si mostrano nella loro bellezza quasi fossero ‘vergini dell’alba e del sole’”.

Il terzo, infine, Ignazio E. Buttitta – maestro dell’Autrice nell’Ateneo palermitano – insigne antropologo  e illustre interprete della cultura tradizionale nel Mezzogiorno d’Italia, segnatamente la Sicilia, ha, in particolare legato il suo nome all’indagine investigativa diretta a determinare il cosiddetto simbolismo cerimoniale tradizionale volto a distinguere le periodicità stagionali e i limiti del calendario rituale “prediligendo – osserva l’Anselmo – un metodo storico-comparativo grazie al quale, partendo dalla preliminare e puntigliosa ricerca delle affinità, è giunto all’individuazione delle irriducibili specificità  dei singoli prodotti cultuali”.

A tale proposito, lo studioso siciliano ha scritto che “le cerimonie del primo e del due novembre, rispettivamente Ognissanti  che rendeva onore a tutti i martiri e i santi della Chiesa e la Commemorazione dei defunti cristiani ancora in Purgatorio , al pari di altri importanti  del tardo calendario cristiano, furono introdotte tardivamente”. Tornando agli studi di Evy Johanne Haland, bisogna aggiungere che, per quest’ultima, nella tradizione greca, antica e di oggi, le ricorrenze religiose rappresentavano un notevole vincolo ‘religioso’ nel senso, esplica l’Anselmo, che “nelle festività, si trovano sia il culto della fertilità che quelli della morte”.

Non solo. Essi concepivano la terra come il corpo di una donna e, in quanto tale, organo sessuale femminile poiché simbolo di fertilità; da qui, la figura, nel mondo ellenico, della ‘Madre Terra’, “la cui importanza  – chiarisce l’Autrice del saggio – è equivalente a quella della donna che è l’esecutrice principale dei culti, che sono importanti nelle festività,  perché sono connessi alla sfera femminile”. Ecco, la ragione della  saga  della ‘Panagia’, invocata, questa, nel calendario liturgico ortodosso, dalle coppie sterili. Ciò, avveniva, nei pellegrinaggi nell’isola egea di Tinos mercé cerimonie sacro-agresti molto laboriose come, ad esempio, la semina del grano nel grembo della terra.

Ma le festività di Demetra, la Cerere latina, dea del grano, ‘par excellence’, rivestivano – per la Haland – un particolare significato liturgico visto che, da una parte, erano riservate alle sole donne, stante il divieto per gli uomini di parteciparvi e considerato, dall’altra, che rispettavano le cadenze mensili riservate ai tanti e diversi lavori nei campi. La storia di Demetra è nota. Madre di Persèfone, Proserpina latina, le fu sottratta la figlia da Ade, Plutone romano, diventando la regina dell’Oltretomba; non rassegnandosi alla perdita della figlia, essa fece di tutto per liberarla.

Ma – come osserva ancora l’Anselmo – da questo fatto nacque la festività della ‘Thesmoforia’, considerata periodo  di lutto “in cui le donne che le celebravano imitavano il dolore per la discesa di Kore nell’Ade”. Anche i poeti latini si commossero per il destino di Persèfone ed Ovidio scrisse che Cerere “quam simul agnovit, tamquam tum denique raptam/ scisset, inornatos laniavit diva capillos/ et repetita suis percussit pectora palmis” (La dea, riconosciutala, intuisce/ il rapimento della figlia e subito/ si lacera i capelli disadorni/ e si percuote il petto con le mani”, Le Metamorfosi, V, 471-473, Newton Compton, Roma, 2011, trad. M. Scaffidi Abbate).

Claudio Claudiano, dal suo canto, per ricordare l’evento scrisse addirittura un’opera ‘ad hoc’ intitolandola ‘De raptu Proserpinae’ nella quale così ritrasse la follia di Cerere:” Cuncta pavet speratque nihil. Sic aestuat ales,/ quae teneros humili fetus commiserit orno,/ allatura cibo et plurima cogitat absens:/ ne gracilem ventus decusserit arbore nidum,/ ne furtum pateant  homini, ne praeda colubris (…).Non expectato respectu cladis amictus/ conscidit et fractas cum crine avellit aristas. / Haeserunt lacrimae; nec vox aut spiritus oris/ redditur, atque imis vibrat tremor ossa medullis”. (Tutto teme, nulla spera. Così si agita un uccello/ che ha affidato a un basso frassino i teneri nati,/ per cercare cibo e molto riflette volando:/ che il vento non spinga dall’albero il gracile nido,/ che i piccoli non siano preda dell’uomo e del serpente. (…) Senza attendere la certezza della sciagura, lacerò/ la veste e strappò con i capelli le infrante spighe./ Non versa lacrime, né dal labbro esce parola/ o alito; un tremito percorre le ossa fino all’intimo” ( III, 141-145 – 149-153, BUR, Milano, 1981, trad. F. Serpa).

Premesso, con la Haland, che nelle festività greche il sesso maschile rappresenta la categoria ‘spirituale’, mentre il sesso femminile quella ‘fisica, l’Autrice conclude il suo pregevole lavoro con un’intervista alla studiosa norvegese dalla quale apprendiamo, tra l’altro, per un verso, che nella  Grecia antica esistono molte festività prima della semina, in autunno, e quando germoglia il grano, a primavera e, per l’altro, che sempre in Grecia “il dio fondamentale deve assicurare il cibo (…)” assodato che “i Misteri Eleusini non sono una festività del raccolto, ma sono una festività prima della semina”.

Tutto questo ed altro, troviamo nel bel saggio dell’Anselmo; libro che – scritto con scorrevolezza, garbo padronanza della materia – raccomandiamo ai lettori i quali hanno molto da apprendere perché esso è stato  redatto, conclude Tommaso Romano, non solo “per un ristretto circolo di cultori”, ma anche per la più “ampia considerazione di tutti coloro che perseguono nella radice il ‘senso’ vivo della vita e dell’oltre”.

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