di P.Giovanni Cavalcoli,OP
Nietzsche sosteneva che il monoteismo è una visione meschina, ristretta e monotona, noiosa e priva di creatività e per questo preferiva il politeismo, benchè poi alla fine egli fosse contro ogni religione, monoteistica o politeistica che sia. Invece per lui il politeismo esprimeva almeno la varietà, la diversità, il divenire, la ricchezza del molteplice, la bellezza del nuovo che sostituisce la muffa del vecchio.
In realtà il politeismo non è solo quello dell’antica Roma o dell’antica Grecia o della collezione degli idoli“di pietra, d’oro, d’argento o di ferro” dei quali parla la Bibbia. Il politeismo è una tentazione continua dello spirito, anche nelle civiltà più evolute, anche dopo duemila anni di cristianesimo, solo che si presenta in forme più sottili o mascherate e sotto le apparenze più fascinose ed innocue, anzi sotto il segno del progresso, del pluralismo e della libertà; si presenta con quei caratteri che sono stati esaltati da Nietzsche. Pensiamo per esempio ai famosi “archètipi” dei quali parla Jung.
Nel contempo è diffusa oggi la concezione relativistica e soggettivistica della verità: la verità non è un universale oggettivo, un dato da noi indipendente, non è una sola per ognuno, ma ciascuno ha o stabilisce a proprio arbitrio – in ciò consisterebbe la libertà – la “sua verità”. Spesso oggi, quando leggiamo dell’andamento dei processi giudiziari, non si parla della “verità”in se stessa o come tale, ma della “verità” propria di ciascuno dei partecipanti al processo, senza alcuna preoccupazione di oggettività, ma come se la verità fosse un libero prodotto di ciascuno secondo i propri interessi personali. Come può in queste condizioni la legge “essere uguale per tutti”?
Indubbiamente si può parlare di una molteplicità di verità, ma allora non si tratta del rapporto dell’intelletto col reale, per cui se il reale è quello, tale rapporto, per esser vero, non può che esser quello, ossia non può che esser uno; ma si tratta di una molteplicità di reali o di contenuti tra loro diversi, e allora è evidente che in tal senso ciascuno di essi ha una sua verità diversa da quella degli altri. Ma non si deve confondere l’aspetto soggettivo della verità (l’atto del conoscere) con quello oggettivo (la verità del reale conosciuto). L’atto del conoscere un dato oggetto non può che essere sempre uguale e identico in tutti i singoli che conoscono quel dato oggetto. La verità invece dei diversi oggetti, proprio per essere verità, non può che variare in corrispondenza del variare degli oggetti.
In campo religioso la vera divinità non può che essere una sola, perché Dio si deve concepire come perfettissimo e se ci fosse una pluralità di dèi, bisognerebbe necessariamente ammettere, per distinguere l’uno dall’altro, che uno ha quello che non ha l’altro e così ogni divinità mancherebbe di ciò che ha l’altra, il che evidentemente contraddice l’idea stessa di divinità. Eppure molto spesso e da sempre gli uomini si lasciano sedurre in vari modi e forme da questo grave errore, che introduce profonde divisioni e contraddizioni nelle culture, nelle religioni, nella vita dei singoli e nelle società. Il pluralismo delle religioni può comportare una pluralità di valori, ma comporta anche allontanamenti più o meno gravi dal monoteismo. Da qui la caduta nel politeismo, il quale quindi non è un arricchimento ma un impoverimento dell’idea del divino.
Il politeismo di oggi, a parte la persistenza delle rozze forme del politeismo tradizionale soprattutto nei popoli ancora arretrati – qui possiamo ancora trovare l’animismo, il panpsichismo, il totemismo, l’animalismo, lo sciamanismo, l’astrologia, lo spiritismo, il satanismo, gli oroscopi, la magia ed insomma ogni forma di superstizione – si presenta sotto forme insospettabili, ma con ciò non meno pericolose, adatte alla forme complesse e raffinate della cultura moderna e sotto ideali o princìpi largamente apprezzati, quali quelli a cui ho accennato sopra. Anche il famoso New Age non è che una forma moderna di politeismo. Anche un certo pluralismo “cattolico” che non rispetta l’unità della fede è un politeismo mascherato.
Eppure il meccanismo psicologico che conduce al politeismo è fondamentalmente lo stesso: l’incapacità di astrarre l’universale dal particolare e quindi di elevarsi ad una visione della realtà al di sopra dello spazio e del tempo, nonché della caducità e della molteplicità, di elevarsi alla percezione di una superiore immutabile ed eterna Unità, unificante principio e fondamento della molteplicità che da essa proviene e ad essa converge.
Esaltiamo troppo il molteplice, il diverso, il mutevole, lo storico e trascuriamo l’unità e l’universalità, che invece, come già avevano intuito Platone, Aristotele e Plotino, ne garantiscono l’esistenza, l’origine, l’armonia e la reciprocità, e quindi in fin dei conti la ricchezza, la bontà e la bellezza. Questo in tutti i campi, dove per esempio, a proposito della commedia, Aristotele parlava giustamente dell’unità di azione o a proposito del governo della comunità egli avvertiva che il molteplice di per sé porta al caos, per cui se si vuole che una comunità sia giusta e pacifica occorre il comando di uno solo, il che non significa necessariamente né una monarchia dinastica né tanto meno la dittatura di colui che schiaccia o livella la pluralità, ma il servizio di chi unifica il molteplice ponendosi principio e mediatore di concordia, di pace e di mutua collaborazione.
Anche un certo modo di concepire la libertà religiosa o il dialogo interreligioso o il rapporto del cristianesimo con le altre religioni può nascondere il pericolo di un sottile politeismo, che non è per nulla lontano da quel relativismo o quell’indifferentismo religiosi che oggi spesso vengono giustamente denunciati. Questi valori mostrano il loro volto autentico solo se fanno capo o sono fondati sulla comune percezione dell’universalità del vero, soprattutto quando si tratta dei valori fondamentali della vita e dell’esistenza, quali sono quelli messi in gioco dalle religioni e dalla morale.
Politeismo sono oggi anche l’incoerenza e la contradditorietà della vita personale, che manca di un principio interiore di unità e di armonia, nell’incapacità di metter d’accordo tra di loro i valori della persona, che diventano così degli assoluti separati tra di loro o addirittura in lotta gli con gli altri, fino al rifiuto del principio di non contraddizione, cosa che nell’agire provoca incoerenze e conflitti interiori, mentre sul piano morale nasconde l’ipocrisia, l’infedeltà e la volubilità, nonché la debolezza di carattere, mentre sul piano psicologico porta alla schizofrenia e al limite alla dissoluzione della personalità.
Sul piano del sociale abbiamo il ben noto fenomeno della conflittualità diffusa, dell’ingovernabilità, dell’individualismo e dello scontro degli egoismi, il relativismo morale e la disonestà politica, che lasciano persistere l’ingiustizia e mantengono un clima di incertezza, di divisioni, di reciproca sfiducia, togliendo o impedendo la concordia e la pace, e quindi il benessere e il progresso. Abbiamo una democrazia senza princìpi di unità, senza riferimenti a valori oggettivi ed universali: segno di politeismo in campo politico e sociale.
La nostra cultura ha quindi un profondo bisogno di ritrovare il desiderio e la ricerca dell’unità sul piano del pensiero e dell’agire, cose che non possono che essere fondate sull’universalità del vero. Bisogna smettere di credere che l’atto astrattivo del pensiero, ovvero la concettualizzazione, ci porti al di fuori del reale o non ci consenta di raggiungere il reale, provocando la falsa convinzione che il reale possa esser raggiunto con altri mezzi irrazionali o emotivi, che in realtà ci abbassano al livello dell’animalità, giacchè è caratteristica propria di questa l’incapacità di astrarre l’essenza universale dal dato particolare.
L’atto astrattivo, ben condotto e nelle dovute condizioni, è essenziale al pensiero umano nella ricerca e nella conquista della verità. Certo non bisogna esagerare come ha fatto Platone dando corpo a delle astrazioni, come avviene nella sua famosa dottrina delle idee sussistenti. Eppure quanto attuale ed utile resta, purificata dall’idealismo, la concezione platonica dell’ideale! Quante azioni eroiche essa ha ispirato nella storia sia nel cristianesimo che fuori del cristianesimo! Tale concezione ha sempre dato ottimi frutti nel campo del pensiero, della religione, e della morale per la capacità che essa ha di elevarci all’ordine dell’eterno e dell’assoluto, quindi in fin dei conti del monoteismo, anche se questo non appare con tutta chiarezza nella filosofia di Platone.
Un segno di politeismo lo troviamo anche, per quanto ciò possa apparire a tutta prima strano, anche nella dottrina filosofica della sostanza così come è stata discussa dall’empirismo inglese dei secc. XVII–XVIII da Locke a Hume, per i quali la sostanza e quindi la persona si risolve in una collezione di fenomeni sensibili o interiori (“stream of consciousness”). Infatti, che cosa avviene in questa concezione e cosa ad essa è presupposto? Appunto una visione metafisica della sostanza, e quindi della sostanza divina non una ma sparpagliata senz’ordine in una molteplicità irrelata di dati contingenti assolutizzati. Gli attributi divini non sono più unificati nell’unica essenza divina, ma si trovano slegati tra di loro – ecco il politeismo – col rischio per giunta che tra di essi se ne insinuino alcuni che non convengono realmente alla divinità, come per esempio il divenire e la passibilità.
Viceversa la sostanza, nel senso filosofico e antropologico, va concepita come un autentico ed intimo principio di essere e di unità non solo ontologica ma anche morale e religiosa. Occorre dunque ritrovare il concetto ontologico aristotelico–tomista di sostanza, anche per quanto riguarda la concezione della persona umana, non esclusa la stessa natura divina, come ci è insegnato dalla Chiesa stessa(1), se vogliamo mantenere quanto lo stesso cristianesimo ci insegna circa la dignità della persona umana e la trascendenza dell’essere divino, del Dio uno ed unico, il Dio della vera religione, già percepito oscuramente dalla ragione naturale ed ulteriormente illuminato dalla rivelazione cristiana come unica essenza in tre persone.
Bologna, 15 dicembre 2011
NOTE
1) Il Concilio Vaticano I definisce la natura divina “una singularis substantia spiritualis”.