IL POSTO DELLE FRAGOLE DI INGMAR BERGMAN – di Dionisio di Francescantonio

di Dionisio di Francescantonio

 

 

fb1Un film che ci è particolarmente caro, tra quelli girati da Ingmar Bergman, è Il posto delle fragole perché è una di quelle opere il cui fascino rimane intatto e forse si accresce col trascorrere del tempo; un’opera che, rivista oggi, continua a farci vibrare nei punti più sensibili dell’anima, provocandoci tremori e sussulti ma anche qualche sorriso, sollecitandoci inoltre a scrutare senza timore nei luoghi  più remoti della nostra coscienza. Ingmar Bergman, del resto, è stato uno dei più grandi registi dacché è nata la cinematografia, uno di quei cineasti a cui guardare con gratitudine per tutte le grandi opere che ci ha donato. Possiamo senz’altro affermare che egli rappresenti, nel cinema, quello che Shakespeare è stato per il teatro e la letteratura, un autore che ha fatto crescere di una buona spanna, per così dire, la disciplina in cui ha esercitato il suo genio, che l’ha nobilitata e  resa più bella, più importante.

Tornando a Il posto delle fragole, esso è, tra l’altro, il film che ha dato al regista svedese la notorietà internazionale (quando uscì, nel 1957, vinse l’Orso d’oro a Berlino e il premio della critica a Venezia), ma è soprattutto una  sorta di summa dei suoi motivi espressivi: l’amore che, pur con le sue difficoltà, insufficienze e talvolta delusioni, rappresenta l’unico antidoto contro la solitudine e l’aridità dell’anima, quell’aridità che deriva dagli steccati che solleviamo tra noi e gli altri e che finisce per privarci della nostra umanità; il tempo che scorre via inesorabilmente e ci riempie di nostalgia per la gioia non più provata verso ogni quotidiana scoperta; il dubbio sul senso della vita; la paura della morte e del buio oltre la morte; la sensibilità e gratitudine verso l’animo femminile che può soccorrere l’uomo contro le sue amarezze e i suoi timori –  il tutto restituito alternando ai momenti drammatici e angosciosi pause umoristiche e talvolta anche idilliache, in un gioco narrativo che tiene conto della lezione dei grandi autori letterari della modernità, da Proust a Yoice, da Strindeberg a Pirandello. La trama, un viaggio in auto da Stoccolma a Lund compiuto dal protagonista, è intessuta di squarci onirici, di ricordi a volte teneri, a volte penosi, e d’illuminazioni e riflessioni probabilmente desunti da ricordi autobiografici risalenti alle esperienze vissute dal regista in seno a una famiglia  dominata da un padre severo, distaccato e intollerante, e da una madre forse troppo protettiva e quindi dal clima nevrotico e ansiogeno che i figli respiravano nel conflitto di carattere tra due genitori così diversi. I battibecchi feroci dei due coniugi che finiscono fuori strada con la loro auto e che il protagonista ospita per un tratto di strada sul proprio automezzo, delinea un rapporto dove l’astio e il rancore hanno ceduto il posto alla comprensione e all’amore, descrivendo un inferno coniugale che Bergman doveva conoscere molto bene.

In sintesi, Il posto delle fragole è una sorta di meditazione sull’esistenza da parte di un uomo, il professor Isak Borg, che, giunto quasi al termine della vita, si pone molti dubbi sulla sincerità e giustezza del proprio comportamento con sé stesso e con gli altri, soprattutto con la moglie ormai morta, con la quale non ha avuto un rapporto felice, e col figlio Evald e la nuora Marianna, verso i quali non ha mai desiderato intrattenere un rapporto di comunicazione, mantenendo perciò un certo distacco dalla crisi coniugale che attraversano i due giovani. La nuora viaggia con lui perché, improvvisamente, ha deciso di tornare dal marito, che vive a Lund.  Nel corso del viaggio il rapporto tra Isak e la nuora, inizialmente freddo, anzi quasi ostile, diventa cordiale e in un certo senso intimo, tanto che Isak le confiderà di fare strani sogni che interpreta come messaggi provenienti dal suo intimo più nascosto.  “E’ come se cercassi di dire qualcosa a me stesso, qualcosa che non voglio udire quando sono sveglio”. Alla domanda della nuora su cosa potrebbe essere ciò che non vuole udire, risponde: “Che sono morto, pur essendo vivo”. La frase allude chiaramente al distacco e alla freddezza verso i suoi simili che egli ha ottenuto chiudendosi nel suo egoismo e nella sua indifferenza, e questa dichiarazione risulta come un’ammissione di colpa e di pentimento per un comportamento sbagliato.  E alla fine del film, quando il figlio e la nuora si ritrovano, cerca, sia pur goffamente, di contribuire alla loro riconciliazione. Marianne lo capisce e, accomiatandosi da lui per andare a ballare col marito, gli dà un bacio sulla guancia. “Ti voglio bene, Marianna”, dichiara Isak, e lei risponde con semplicità: “Anch’io ti voglio bene, papà Isak”. Il messaggio del film viene quindi condensato in queste due battute, dove il regista affida all’amore il compito di vincere il timore del contatto con l’altro e il disgusto di vivere per poter uscire dalla gabbia dell’indifferenza e della morte dell’anima.

Al tempo in cui girò il film, Bergman non aveva ancora compiuto quarant’anni ma, evidentemente, era già in grado di fare previsioni e bilanci su una vita giunta al tramonto, indubbiamente proiettandovi i suoi dubbi e i suoi rimpianti sull’esistenza che aveva condotto fino a quel momento. Il protagonista del film, un medico di settantotto anni che si reca a Lund per ricevere un prestigioso titolo accademico, è interpretato da un altro grande regista svedese, Viktor Sjostrom, che restituisce  il personaggio con intensa partecipazione, svariando dalla trepida commozione all’angoscia e al rimpianto del proprio passato (rievocato proustianamente dall’incontro con i luoghi dove il professore ha trascorso momenti della sua giovinezza in cui rivede, nel mitico “posto delle fragole” dove avvenivano gli incontri tra innamorati, la ragazza che ha amato in gioventù ma che poi gli ha preferito un altro) e al rimorso per essersi isolato da tutti espresso dalla sua coscienza attraverso i sogni, tra cui spicca quello in cui un gelido docente universitario lo sottopone a un esame di medicina e boccia tutte le sue risposte, ricordandogli che il primo dovere di un medico è chiedere perdono e accusandolo quindi di indifferenza, egoismo e mancanza di riguardo. Bergman ha riconosciuto con sincerità l’apporto determinante di Sjostrom alla riuscita del film, ammettendo che l’amico e maestro aveva fatto suo il proprio testo per immettervi le sue esperienze e pervenendo così a una sorta di simbiosi con quelle del più giovane collega. E il risultato è stato un grande film che si è inserito d’autorità nella storia del cinema immortale.

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