IL SERPENTE – un racconto di Emilio Biagini (parte prima)

IL SERPENTE

racconto di Emilio Biagini

(parte prima)

 

serpe

 

Tentò di aprire gli occhi, ma le palpebre non gli obbedivano. Eppure voleva vedere. Sentiva di doversi in qualche modo render conto di ciò che lo circondava. E presto. L’angoscia. Un’angoscia silenziosa, senza fondo. Ma, per quanti sforzi facesse, non poteva ricordarne il motivo. I legami di causa ed effetto, la logica concatenazione dei fenomeni, s’erano ritirati dal suo mondo, lasciandogli una folla di fantasie slegate, di visioni assurde turbinanti nel cervello.

Si sforzò ancora di ricordare qualcosa di preciso e di comprendere dove fosse. Non poteva muoversi, né aveva idea esatta della positura dei propri arti. Un barlume di pensiero si accese in lui, spegnendosi subito, come un fuoco fatuo. E accanto a questo un’abissale sensazione di vacua futilità, e una specie di fischio o di rombo che cresceva nel suo cranio, cresceva, si dilatava. Ancora una volta si sforzò di connettere, di ricordare, ed emerse in lui soltanto un’idea di ripiegamento su se stesso, e per un tempo indefinito — secondi? minuti? ore? secoli? — si fissò nel tentativo di paragonare quest’idea con l’altra dell’abbattersi pesante di qualcosa su di lui.

Poi, senza più alcun conato di pensiero, lasciò che le strane visioni scorressero nei suoi occhi chiusi: sconfinati paesaggi di colline ondulate, su cui serpeggiavano sentieri stretti e malagevoli, nude tranne qualche albero scheletrico sotto un cielo plumbeo, e nella luce spettrale ecco su una collina emergere la visione di una città più che umana, con altissimi palazzi e campanili, scossi da un brivido rossastro di luce. Volti, volti, volti opprimenti di donne, uomini, vecchi e fanciulli, statuari, immobili, dallo sguardo immerso nel vuoto con allucinata fissità, in una tensione arcana e incomprensibile; e tutti nello stesso tempo si voltavano verso di lui, come statue ruotanti su un perno, rivolgendo al suo viso i loro occhi vuoti; aprivano tutti insieme la bocca come per parlare, e non ne usciva suono. Egli voleva fuggire. Ma non poteva.

Luci viola, gialle, rosse, danzavano follemente qua e là sotto le sue palpebre. Una danza spettrale che non voleva estinguersi. Ebbe un brivido, come se tutto quel delirio non fosse che il preludio a una rivelazione soprannaturale.

Ad un tratto percepì una presenza paurosa che non sapeva definire, ma che gli sembrava intenta su di lui, a scrutarlo. E avrebbe voluto interrogare, rassicurarsi, sentire parole di conforto. E quella presenza emanava un’aura maligna, fetida. Che cos’era?

Un’ansia oppressiva l’aveva ormai invaso. “Ma io esisto”, pensò, ed era l’unica certezza. Ma sotto quale forma? Mille inespresse angosce si accalcavano in lui e non osava formularne alcuna intera.

Finalmente, con lentezza esasperante, la coscienza tornò. Era a letto, in una corsia d’ospedale. Ricordava il malore improvviso, la durezza del marciapiede sotto la schiena e la testa. Dovevano disintossicarlo, adesso.

— È pieno di eroina come un uovo — aveva detto il medico del pronto soccorso.

“Devo, devo tagliare la corda”, fu il suo primo pensiero appena riprese a connettere. Anzitutto finse di sprofondare nell’incoscienza. Non voleva domande. Ora la sete lo tormentava. Niente fame, però. Neppure alcun desiderio sessuale delle infermiere che vedeva circolare per la corsia, benché non toccasse donne da tempo immemorabile. Solo la droga. A questo era ridotto Adolfo.

La sua vita sembrava segnata dall’inizio. Fin da piccolo si era rivelato estremamente sensibile ad ogni influsso. Era così pronto ad accettare tutto che finiva per non credere a nulla. Sua madre non lo guidava affatto: i giovani devono pur avere la loro indipendenza. Quanto a suo padre, non l’aveva conosciuto. L’eredità, piuttosto consistente, s’era volatilizzata presto, in speculazioni avventate, sotto la pessima amministrazione materna. Adolfo, nato benestante, si ritrovava povero. Cresciuto in maniera anarchica, senza istruzione — perché studiare?—, senza alcun appoggio, il suo carattere fortemente impressionabile n’era uscito malsicuro e con una particolare impronta di cupa angoscia, la continua paura di non aver diritto a ciò che naturalmente spettava, secondo lui, agli altri: amore, posizione, la vita insomma. Temeva e odiava il prossimo. Ai primi contatti con chiunque, un irresistibile impulso difensivo gli faceva troncare tutti i ponti. Vari aspetti infantili rimasero stabilmente fissi, senza mutamento di sorta. Disabituato alla responsabilità, s’arrendeva al primo ostacolo. Le uniche donne della sua vita furono due prostitute, di cui una strabica, ancora quasi bambina e già avviata al vizio dalla madre.

La strada fu la scuola di Adolfo. Si trovava bene soltanto immerso nella folla anonima dei vicoli lerci della città vecchia. A casa tornava solo per mangiare e dormire. Non aveva ancora vent’anni quando sua madre morì. I rimasugli dell’eredità finirono venduti all’asta dai creditori e quell’unico legame con una vita regolare, rappresentato da un tetto stabile, non esistette più.

Odiando la società, che oscuramente incolpava di tutte le sue disgrazie, Adolfo si ridusse a vegetare in una camera malamente ammobiliata, nel più infimo quartiere, dove giochi rumorosi di scugnizzi in strada toglievano la pace di giorno, mentre la notte era turbata da canti di avvinazzati e liti di puttane. I suoi pensieri e le sue occupazioni simili a quella camera. Trascorreva ore e ore sdraiato sul letto, meditando le complicate geografie dipinte sui muri dall’umidità. Con occasionali lavoretti si procurava tanto da non morir di fame, riparando alla meglio qualche cucina economica nei paraggi, spalando la neve, rubacchiando quando poteva.

Per un breve tempo venne pagato da uno scaricatore del porto perché lavorasse al suo posto: riceveva un quarto del salario, che era una somma più che sostanziosa, mentre il portuale titolare se ne stava a casa godendosi i tre quarti rimanenti: miracoli dei monopoli sindacali. Ma lavorare in porto era faticoso, e in poche settimane Adolfo ne ebbe abbastanza.

Per un periodo alquanto più lungo, “lavorò” come “testimone” per conto dell’Azienda Municipale Trasporti Pubblici, ossia fece parte di quel piccolo gruppo di individui che, dietro pagamento, dichiaravano di aver visto tutto dell’incidente stradale e che la colpa era interamente del malcapitato pedone. In tal modo, quando accoppava o storpiava qualcuno, la Compagnia riusciva sempre a farla franca, contenendo il proprio deficit, che sarebbe altrimenti schizzato alle stelle. Lì si guadagnava meno, e in misura più irregolare, ma non era un lavoro faticoso: si trattava solo di mentire. Adolfo avrebbe continuato volentieri ad esercitare la nuova professione, solo che non era riuscito a mantenere a lungo quel meritorio impiego. Non perché era trasandato e mal vestito, che anzi questo faceva buona impressione ai giudici, quasi tutti debitamente politicizzati a senso unico, ma piuttosto perché era un confusionario, e le sue testimonianze rischiarono una volta di far condannare l’Azienda. Per fortuna aveva a che fare con un giudice molto comprensivo e democratico, che si rendeva ben conto dell’esigenza di tutelare ad ogni costo la burocrazia pubblica contro il comune cittadino dalle ossa rotte. Tuttavia, da allora, l’Azienda non l’aveva più chiamato a testimoniare.

Ripensava di continuo a questi fallimenti, e il sangue gli ribolliva. Pensare l’opprimeva e l’odio non gli dava tregua. In fondo, la sua aspirazione era, come quella di tutti, ad una vita “normale”, possibilmente senza far nulla. Ma gli “altri” gliel’avevano negata. Una congiura: ne era sicuro. Vedendo passare qualcuno ben vestito, pensava: “dove l’hai rubati i soldi?” Se poi l’altro era al braccio di una donna, Adolfo stringeva le labbra maledicendo tutti e due.

Questi pensieri, che non poteva comunicare a nessuno, e forse non avrebbe neppure saputo come esprimere, finivano per far male a lui solo. Siccome, oscuramente, se ne rendeva conto, provò ad affogarli nel vino ma, forse per la pessima qualità di quello che poteva permettersi, più che ubriaco ne usciva stomacato, e vomitava.

Venne il giorno in cui qualcuno gli fece scivolare in mano un’esile bustina bianca e gli sussurrò all’orecchio come servirsene. Adolfo non aveva ancora trent’anni, ma il suo aspetto fisico era già in decadenza. La pelle sfiorita, stirata agli zigomi, gli occhi infossati con un alone scuro, i capelli lunghi e scomposti. Magro e sempre un po’ curvo, si aggirava per la città come un lupo affamato.

Quella bustina gli aprì una nuova vita, infinitamente più varia e ricca, dalla quale non seppe più staccarsi. Dapprima l’effetto non fu che una blanda sonnolenza, che lo riempì di una sorta di torpido piacere. Ma un cambiamento meraviglioso sopravvenne ben presto. Ogni piccola cosa sembrò dilatarsi ai suoi occhi e vibrare, gonfia d’importanza, d’un arcano significato mai intuito prima. Ecco: c’era qualcosa dietro il velo sensibile, qualcosa d’ignoto che si contorceva e vibrava come un serpente, che lo sfidava a svelare il mistero, quello che nessun essere vivente aveva mai scoperto. “Lo scoprirò io”, pensava in preda ad un vago capogiro, agitandosi nel letto e dilatando le pupille. Chiuse gli occhi, ed ecco aeree visioni di prati color smeraldo, di castelli variopinti tessuti d’aria galleggianti nell’infinito, evanescenti arcobaleni di luce, trine di raggi d’argento su una coltre di tenebre, cascate di porpora fluttuanti col vigore di un uragano. Tutto questo e altro ancora, in un flusso continuo, cangiante come un caleidoscopio, finché le immagini si fecero più sfocate e imprecise, finché svanirono nel nulla e non gli rimase che un pesante cerchio alla testa.

Piatta e banale riemerse la realtà intorno a lui, e tutto fu di nuovo grigio e uniforme. Da allora visse per la droga, e i sogni dell’eroina divennero la sua sola ed unica vita.

Nessun lavoro troppo noioso, nessuna fatica troppo pesante pur di potersi procurare le paradisiache bustine che offrivano pace, sicurezza, sogno. Poi la disgregazione della volontà. Ne aveva sempre avuta poca. La perdette del tutto. Niente più lavoro. In pochi mesi rotolò verso il delitto.

La malavita allignava numerosa e agguerrita nel quartiere. Chi non vi era direttamente affiliato tirava dritto per i propri affari, aiutandola col silenzio. Dal limbo oscuro dei fiancheggiatori passivi e dei piccoli furtarelli occasionali, Adolfo balzò sulla gloriosa scena dei combattenti per Sua Maestà il Crimine. In verità non occupò mai in quell’esercito un grado superiore al soldato semplice, tanto bastava tuttavia a renderlo interessante agli occhi delle prostitute locali. Ma egli non si curava più dei loro richiami. L’eroina era il suo unico pensiero.

Fece varie volte da palo in furti con scasso; per quattro mesi fu la “spalla” di un borseggiatore, cioè il compare che s’impadronisce del portafoglio appena sfilato dall’altro e taglia la corda in direzione opposta. Non che ci fosse molto pericolo. La polizia sapeva bene che ad ogni arresto seguiva una fulminea scarcerazione, grazie alla “clemenza” dei togati rappresentanti della giustizia. Ma ad un certo punto era stato lo stesso borseggiatore a liberarsi bruscamente di lui: aveva l’aria troppo stralunata e c’era il sospetto più che fondato che facesse sparire per sé una fetta troppo grossa della refurtiva.

Egli intanto si addentrava sempre più nell’eroina. Compariva spesso nelle sue visioni un serpente, e ogni volta un poco più grande e dilagante con le sue spire dai riflessi metallici. I prati in fiore, i castelli, le rupi, le foreste delle sue visioni divennero l’abituale nido del serpente che strisciava silenzioso avanti e indietro, insinuandosi ovunque. Adolfo era affascinato da quelle scaglie lucenti, dal corpo affusolato del fantastico animale che invadeva la sua stanza, si srotolava pigramente su per le pareti e sul soffitto, come se la legge di gravità non lo riguardasse.

L’eroina creò palazzi di cristallo risplendenti di luce, favolosi giochi d’acqua, cascate luminose: Adolfo vi nuotava in compagnia dell’amico serpente. E ad un tratto l’immagine di bellezza si tramutava in orrore e la visione si faceva gravida di angoscia. Forme umane indistinte si levavano dalla terra e lo inseguivano lungo sentieri oscuri, dove rumori mai uditi, ricorrenti onde di continui ululati lo gelavano di spavento. Al risveglio malediceva la droga, giurava di non toccarla più. Ma la privazione diveniva ben presto intollerabile. E di nuovo il rettile tornava a visitarlo.

Benché il serpente crescesse fino a proporzioni abnormi, mai Adolfo aveva potuto vederne gli occhi. Una sorta di insano desiderio s’annidò in lui: rivedere l’animale del sogno, nella speranza di chissà quale rivelazione. Ben presto la sua fantasia malata si fissò sulla vista che il destino sembrava negargli, come se negli occhi del rettile si celasse una misteriosa verità che ogni volta gli sfuggiva.

Disteso sul letto d’ospedale, architettava ora il modo di evadere. Non per paura della polizia, ma per l’idea che i “signori” avrebbero cercato di disintossicarlo, sottoponendolo a odiose costrizioni. Gli avrebbero certo rubato i suoi sogni meravigliosi.

Che fastidio essersi sentito male in modo così stupido! Forse aveva il cuore debole, chissà. Gli mancava qualsiasi nozione di medicina per poter giudicare, e del resto non gli importava. Si sentiva bene adesso, e tanto bastava.

Con piacere vide che i suoi miseri vestiti erano ripiegati sulla sedia vicino al letto e rimase immobile aspettando la notte. Resistette alla sete ed anche alla fame che, dopo il lungo digiuno e l’astinenza dalla droga, s’insinuava nelle sue viscere. Un medico venne e lo visitò superficialmente. Egli stette immobile, fingendosi svenuto. Gli fecero un’iniezione di canfora, che lo eccitò.

Venne il momento atteso. L’infermiera di guardia, in fondo alla corsia, sonnecchiava. La notte era calma, i ricoverati dormivano. Adolfo si lasciò scivolare sul pavimento e strisciò fino alla sedia, prese i suoi vestiti e, senza rumore, tenendosi basso dietro il letto, se li infilò alla meno peggio. Non trovava più le scarpe. “Maledetti”, digrignò tra i denti, neppure lui sapeva all’indirizzo di chi. Le scarpe erano decrepite e scalcagnate, ma sue. Chiaro: lo avevano derubato.

Scivolò alla finestra: dava su un piccolo giardino oscuro. Niente di più facile che svignarsela di lì. S’insinuò nell’apertura toccando subito terra sulla ghiaia umida. Riaccostò il battente dall’esterno. Nessun allarme. Tenendo bassa la testa, riuscì ad attraversare con rapidità il giardinetto fino alla recinzione. Al posto dell’inferriata metallica solo un debole surrogato di cemento, di quelli fabbricati durante la guerra, senza punte in cima né altri ostacoli di sorta. Al di là di esso subito la strada. Che fortuna!

Poco dopo correva verso la tana, Attraversò la città immersa nel sonno e, poiché aveva perduto le chiavi, dovette rifugiarsi da un compare che lo sfamò, gli prestò un paio di scarpe e, dopo aver debitamente bestemmiato e vomitato insulti contro di lui per il giusto riposo interrotto, lo fece rientrare nell’appartamento in cui aveva la sua camera ammobiliata, e poi nella camera stessa, con un grimaldello.

Adolfo cercò subito la sua provvista di droga. La teneva nella federa del cuscino. Sparita.


(continua – vai alla seconda e ultima parte)

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