di Guido Vignelli
Molti si sono meravigliati del pronto appoggio dato al Governo Monti dai vertici del mondo cattolico ufficiale, sia politico che religioso, compresa la Segreteria della C.E.I. Alcuni hanno spiegato questo appoggio con la superstite influenza del movimento “cattolico-democratico”, facendo notare che non poche fra le personalità del nuovo governo e sottogoverno sono legate alla figura dell’ex burocrate e politico democristiano Romano Prodi. Altri hanno spiegato questo appoggio con l’insorgere dello “spirito di Todi” (espressione di Avvenire, 14 dicembre 2011), facendo notare che tre fra i nuovi ministri avevano partecipato come autorevoli relatori all’ormai noto convegno tenutosi (a porte chiuse!) lo scorso ottobre a Todi con l’avallo del segretario della C.E.I.: convegno che mirava rilanciare il cosiddetto “impegno politico dei cattolici” e il “terzo polo” alternativo alla maggioranza di centro-destra, proponendo una fase di “tregua” fra i partiti e un Governo di “solidarietà nazionale” che risolvesse la situazione di emergenza mediante una svolta austera e moralizzatrice capace di “riformare lo stile di vita italiano” (programma poi fatto proprio dal neo-presidente Monti).
Per capire bene il senso di questo strano appoggio cattolico al nuovo Governo di “tecnici”, bisogna tener pesente che Monti è stato imposto al Parlamento per salvare non l’Italia bensì la declinante Unione Europea con la sua burocrazia e la sua moneta unica (“Can this man save Europe?”, titola infatti la recente copertina della rivista Time). A questo scopo, bisognava (anche) eliminare la cosiddetta “anomalia italiana”, consistente in una nazione che, sebbene europeista a parole, in realtà non si è adeguata al modello lib-lab imposto da Bruxelles. Il Governo Monti è sintetizzabile secondo i seguenti slogan impliciti: “europeismo unico fondamento etico della politica”, “tutto il potere al soviet eurocratico”, “oro alla patria europea”, “liberalismo nella produzione ma socialismo nella gestione”.
Quest’ultima formula è rivelatrice, perché da una parte esprime la preoccupazione di rilanciare il liberalismo per salvare il socialismo, e dall’altra manifesta le origini storiche dell’attuale tecnocrazia. Questa formula infatti fu coniata dal vecchio progetto tecnocratico ottocentesco di Saint-Simon e Comte, poi fu ripresa dalla Fabian Society di un secolo fa, infine è pervenuta all’attuale progetto europeista promosso dalla cosiddetta Sinarchia nei suoi vari club, circoli e Commissioni più o meno riservati, settari od occulti. Delineato all’inizio del XX secolo dall’occultista Saint-Yves d’Alveydre allo scopo di realizzare una “Repubblica Universale” (massonica) mediante dapprima la Società delle Nazioni e poi l’O.N.U., il “progetto sinarchico” è stato oggi ripreso nella sua versione europeista dai vari Monnet e Spinelli e infine è stato rilanciato da Jacques Delors, il “cristiano democratico” seguace di Mounier che ha avviato l’unione monetaria europea. Per rendersi conto di questo legame storico, basta rileggere il libro di Louis Daménie intitolato La tecnocrazia, punto d’incontro della sovversione (Il Falco, Milano 1985).
Orbene, nonostante alcune apparenze contrarie, il progetto tecnocratico-globalitario ha sempre trovato e trova tuttora, se non proprio piena adesione, perlomeno simpatia e collaborazione in quegli ambienti cristiani (ufficiali o ufficiosi, religiosi o politici) che sono rimasti influenzati dal “cattolicesimo democratico”, ossia da quella corrente eretizzante che considera la Rivoluzione anticristiana come una occasione provvidenziale utile per realizzare la “nuova umanità rigenerata” e la “riforma della Chiesa”: una rovinosa illusione che da Lamennais è giunta a Maritain, Mounier, Dossetti e infine al citato Delors.
Secondo questo cristianesimo di sinistra, la politica dovrebbe favorire non il bene comune della società, ma la cosiddetta solidarietà, capace di assicurare al popolo benessere e felicità. In questo contesto, l’auspicata fraternité verrebbe realizzata favorendo, da una parte, tanta liberté quanta permette agli agenti anarcoidi di dissolvere le strutture sociali provocatrici di disuguaglianze, e dall’altra parte, tanta égalité quanta permette agli agenti totalitari d’impedire che le abitudini e le esigenze della vita reale conservino o ricreino le citate strutture. In concreto, il solidarismo vorrebbe mettere i meccanismi (liberali) di produzione al servizio delle procedure (socialiste) di distribuzione della ricchezza e del potere. Le autorità e le strutture politiche, sociali ed economiche dovrebbero adeguarsi a un cooperativismo collettivistico che, superando il contrasto tra liberalismo e socialismo, sarebbe capace di eliminare ogni forma di disuguaglianza; lo Stato stesso non dovrebbe più governare la società ma solo limitarsi ad amministrarla, affidando la “gestione delle cose e delle risorse umane” a una classe tecnocratica. Questo sistema solidarista può tollerare il “libero mercato”, ma solo come fattore disgregante utile per diffondere idee, tendenze, beni e poteri capaci di abbattere disuguaglianze, strutture e classi sociali. Invece non può tollerare, anzi vorrebbe abolire, quei fattori spirituali e materiali che creano o trasmettono disuguaglianze di valore o di fatto: ad esempio il talento e il merito personali, la proprietà privata, la libera professione con i suoi codici deontologici, la famiglia con la sua missione educativa e assistenziale, la stessa Religione cristiana con le sue istituzioni, leggi morali e norme liturgiche (si pensi al riposo festivo oggi messo in discussione).
Appare allora comprensibile che il cristianesimo solidarista tenda a convergere non solo con il cooperativismo, il socialismo e l’ecologismo pauperista, ma anche con quel neo-liberalismo tecnocratico che mira a realizzare una globalizzazione egualitaria e anarcoide. Questo spiega perché il “cristianesimo democratico” è sempre stato amico della tecnocrazia e della finanza apatride e globalitaria, in nome del comune amore per le astratte liberté ed égalité e del comune odio per le concrete realtà ed esigenze sociali dei popoli.
Questo solidarismo tecnocratico si abbellisce con un moralismo che predica serietà, competenza, responsabilità, austerità, sobrietà, eco-sostenibilità, talvolta perfino patriottismo e religiosità. In realtà, esso mira ad ostacolare, reprimere ed abbattere non tanto l’egoismo, il consumismo e lo spreco, quanto la ricchezza reale, il risparmio, la proprietà privata, l’eredità, le libertà economiche, le professioni, le classi sociali e specialmente quel ceto medio che tende ad ostacolare sia l’individualismo liberale che il collettivismo socialista. Il solidarismo tecnocratico ritiene che il vero nemico della rivoluzione non siano i vertici politici o burocratici o finanziari, che spesso ha come alleati, bensì quella base borghese di piccoli-medi proprietari risparmiatori e produttori che, se non possono essere sterminati come fece Stalin, vanno almeno intimoriti, paralizzati e impoveriti con una persecuzione politica e fiscale che li consegni nelle mani del sistema burocratico statale o di quello tecnico-finanziario. Ad esempio, non è un caso che si tenti d’impedire il risparmio, che si basa sul merito, e di favorire il gioco d’azzardo, che punta tutto sul caso.
Questo moralismo solidarista vede quindi di buon occhio l’attuale crisi economico-politica e la conseguente emergenza sociale, perché le sfrutta come una occasione storica ed anzi “provvidenziale” per imporre al popolo italiano una politica di “austerità”, una economia “eco-solidale” e una rivoluzione sociale che altrimenti non verrebbero mai accettate, per il semplice fatto ch’esse conducono al degrado e alla miseria non solo economici ma anche spirituali. Si noti che questo progetto d’impoverimento, depotenziamento ed emarginazione dovrebbe coinvolgere anche la Religione: non a caso un “cattolico democratico” come il sociologo Giorgio Campanini ha recentemente auspicato che l’attuale crisi favorisca un processo di austerità moralizzatrice capace di spingere la Chiesa a “riformarsi” e a fare la “scelta di povertà”, ad esempio rinunciando ai propri poteri e privilegi, anche fiscali, in modo che giunga a compimento il processo espropriatorio iniziato dai regimi laicisti ottocenteschi (cfr. Avvenire, 21 dicembre 2011, p. 26).
Alcuni obietteranno che esiste una divergenza insuperabile tra la tendenza socialista, assistenzialista e burocratica tipica del solidarismo e quella liberale-liberista-libertaria tipica della tecnocrazia. Ma in realtà, gli amori e le preferenze che separano queste due tendenze sono molto meno influenti degli odii e delle affinità che li uniscono facendoli collaborare al progetto rivoluzionario. L’unica differenza tra la tendenza solidarista e quella tecnocratica consiste nel fatto che, mentre la prima vorrebbe sopprimere le concrete libertà, disuguaglianze e strutture sociali e religiose semplicemente soffocandole mediante una burocrazia opprimente, la seconda invece preferirebbe dissolverle facendole proliferare anarchicamente in un caos privo di regole, protezioni e istituzioni, estinguendole mediante una sorta di suicidio assistito; la differenza quindi concerne solo la scelta del modo in cui eliminare quelle realtà sociali: o l’aborto o l’eutanasia. Per il resto, solidarismo e tecnocrazia non rifiutano secolarizzazione, globalizzazione, centralizzazione, burocratizzazione della società e finanziarizzazione dell’economia, bensì intendono porle al servizio della nuova rivoluzione “postmoderna”, ecologista e pauperista.
Pur di realizzare questo progetto, la base socialista-cristiana e il vertice liberal-tecnocratico pretendono di sospendere le regole democratiche e le forme di rappresentanzal fino al punto di smentire la tanto decantata “sovranità popolare”. Secondo loro, infatti, parafrasando un noto motto di Voltaire, “non c’è democrazia per i nemici della democrazia”; pertanto, quando un popolo si lascia sedurre dalle “tendenze conservatrici” (ossia di sopravvivenza) e strumentalizzare dalle “forze della reazione” (ossia di risanamento), allora le élites “illuminate e responsabili” debbono “costringere il popolo a farsi liberare” da loro, secondo un noto paradosso di Marcuse.
A quest’assurda e contraddittoria pretesa, bisogna rispondere in tre modi. Innanzitutto bisogna richiamare la nuova élite a un minimo di coerenza con i suoi stessi princìpi ufficiali, esigendo ch’essa (almeno) rispetti i valori, le esigenze e i diritti di quella società che pretende di moralizzare e salvare. Poi bisogna svelare al popolo italiano le vere intenzioni della tecnocrazia alla luce dei suoi princìpi occulti, mettendolo in guardia da progetti di “redenzione sociale” che si approfittano delle emergenze interne o internazionali. Infine bisogna ammonire élites e popolo a ritornare alla sana e integra dottrina sociale della Chiesa, che riconduce ogni autorità a Dio e ogni potere alla società civile, negando sia ad élites pretese competenti, sia a basi pretese progressive, il diritto di tramare contro l’Italia, il suo bene comune e la sua vocazione storica cristiana. Questa è oggi la vera “emergenza” che richiede princìpi chiari e scelte coerenti.
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