IL SUICIDIO E I SUOI CONFINI – di Lino Di Stefano

di Lino Di Stefano

 

 

 

ssBene ha fatto Piero Vassallo, nel suo recente articolo su Riscossa Cristiana –‘Il culto del suicidio’ – a richiamare l’attenzione degli studiosi su tale questione e di stigmatizzarne l’esaltazione, come è avvenuto e avviene ancora da parte di alcuni ambienti ‘culturali’ della società contemporanea.

Premesso che, fin dall’antichità, il suicidio trovò accoglienza in alcune dottrine speculative, ad iniziare dallo stoicismo e dall’epicureismo, e prima ancora in alcuni esponenti della scuola cirenaica quale, ad esempio, Egèsia (IV sec. a. C.) il quale parlava della morte quale estremo rimedio all’ irrealizzabilità della felicità  – e per tale motivo egli fu chiamato il ‘Peisithànatos’, persuasore di morte per antonomasia – bisogna aggiungere che la scuola cirenaica da primitiva esaltatrice dell’’edoné’ si trasformò, in seguito, in dottrina pessimistica.

Alcune visioni della vita della civiltà greco-romana, praticarono il suicidio e, se dobbiamo credere a S. Girolamo, anche il grande poeta e filosofo romano Tito Lucrezio Caro (94-15 a. C.), “sua manu se interfecit”, a conferma che tale atto veniva eseguito anche quale forma di grandezza  d’animo e, talvolta, di ribellione alle iniquità del mondo. Ad onta di ciò, è giocoforza precisare che l’atto di darsi la morte volontariamente fu, generalmente, condannato nel mondo antico, nella civiltà moderna e nell’ èra contemporanea.

Fermo restando, però, che sia Zenone di Cizio, sia Cleante di Asso, prestigiosi esponenti dello stoicismo (III-II sec. a. C.), si suicidarono per restare fedeli ai dettami della dottrina la quale prevedeva il distacco volontario dalla vita ove le sofferenze e malattie avessero defraudato il saggio della capacità di autodominio.

Lo stesso Seneca ( 5-4 a. C.- 65 d. C.), professando la menzionata dottrina, non ebbe difficoltà – anche se costrettovi da Nerone – a togliersi la vita  perché egli sosteneva non solo che “sapiens vivet quantum debet, non quantum potest” (Ep., 70), ma anche che “cotidie moriamur; cotidie enim demitur  aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimus vita decrescit” (Ep., 64). Inutile sottolineare che la filosofia stoica faceva della soppressione della vita un ideale etico – sintomo di quel momento storico – ma questo non giustificava  una pratica sicuramente contro natura.

Spetterà ai sommi pensatori greci, Platone ed Aristotele, nonché ai grandi corifei della Patristica e della Scolastica, Agostino e Tommaso, riportare le cose nelle loro giuste dimensioni. Il primo, asserendo, nel ‘Fedone’ (VI, 62, b), che “della vita non possiamo liberarcene da noi stessi” e il secondo, osservando, nell’’Etica Nicomachea’ ( V, 11, 1138 a), che “colui che per ira scanna se stesso compie ciò contro la retta ragione e fa cosa che la legge non permette. Quindi commette ingiustizia”.

A questo punto, se stupisce che Plinio il Vecchio sostenga che “ex omnis bonis quae homini tribuit natura, nullum melius esse tempestiva morte” (Nat. Hist., XXVII, 1), fa invece piacere apprendere, prima, dall’Ipponate che il suicidio “est contra charitatem, qua quisque debet seipsum diligere”) e, inoltre, che  “anche chi uccide se stesso è omicida ed è tanto più colpevole quanto è meno valido il motivo per cui si uccide” (De Civ. Dei, I, 17) e, dopo, dall’Aquinate che il suicida “iniuriam facit communitati” (Summa Theol., II), oltre che a sé stesso.

Ora, la tematica del suicidio fu affrontata, in maniere diverse, anche da alcuni poeti, come ad esempio Goethe e Foscolo, i quali scrivendone lo additarono come una specie di grandezza d’animo, seppur esacerbato,  mai come esempio di moralità rientrando, esso, allora, in alcuni interessi momentanei dei due scrittori. Infatti, nell’ultima lettera  a Lotte, il protagonista, prima di togliersi la vita con un colpo di pistola,  scrive, significativamente: “Ho pregato tuo padre in un biglietto di prendersi cura della mia salma. Al cimitero ci sono due tigli, dietro l’angolo che dà sui campi; là vorrei riposare” (I dolori del giovane Werther), mentre il giovane,  prima di suicidarsi, così si esprime, nell’ultima missiva all’amico: “Fa ch’io sia sepolto, così come sarò trovato, in un sito abbandonato, di notte, senza esequie, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere” (Ultime lettere di Jacopo Ortis).

Un’ulteriore conferma, nella fattispecie, che nei due poeti il suicidio è un gesto estremo di eroismo e vale a dire un atto di opposizione e di rivolta dell’individuo – magnanimo quanto si vuole, ma sfortunato – contro la società, del suo tempo; società ingiusta, persecutrice e sorda al grido di dolore degli spiriti magni. In epoca a noi più vicina, filosofi e poeti – oltreché scrittori – del calibro di Schopenhauer e Leopardi, anime dotate di estrema sensibilità, trattano del suicidio, quantunque non lo attuino perché convinti che esso è un atto contro natura.

Il filosofo tedesco, così si esprime, al riguardo, nella sua opera maggiore, ‘Il Mondo come volontà e rappresentazione’: “Chi è oppresso dal peso della vita, chi vorrebbe e afferma la vita, ma ne aborre i tormenti, e soprattutto non riesce a tollerare più a lungo il duro destino, che proprio a lui è capitato: questi non deve sperare una liberazione dalla morte, e non può salvarsi col suicidio” (I, 54). Il nostro Leopardi, dal suo canto, parlò molto spesso del suicidio, in tante opere – come, ad esempio, nelle ‘Operette morali’-  segnatamente nello ‘Zibaldone’, senza, però, raggiungere una posizione definitiva.

Stabilito, in via preliminare, che “il suicidio è la cosa più mostruosa in natura”  (Frammento sul suicidio), il Recanatese oscilla, nelle sue analisi, tra vari punti di vista, tant’è vero che una volta sostiene che esso non è una sorta di pazzia; una volta dimostra che gli antichi si tolsero la vita per disgrazie individuali – non per una forma di “taedium vitae”-; una volta scrive che gli uomini lo desiderano per il semplice motivo che, a differenza delle bestie, sono infelici; un’altra volta, infine, asserisce che gli antichi soppressero la propria vita per essere ricordati dai posteri.

Ed ecco un’altra tesi dell’infelice poeta marchigiano: “Se la natura…non è più l’arbitro né la regola della nostra vita perché dev’esserlo della nostra morte?” (Zibald., 2241-42) sicché se è vero, secondo lui, che il suicidio è un’azione contro natura, è altrettanto sicuro che quest’ultima, non cancellata dall’abitudine, ci conduce in uno stato di seconda natura.

Assodato che, durante la vita, il piacere è poco presente, mentre il dolore è continuo, per il Recanatese è preferibile non soffrire piuttosto che soffrire, è ragionevole non vivere piuttosto che vivere. Com’è facile notare, il poeta-filosofo Leopardi non fornisce una soluzione univoca intorno al suicidio concludendo testualmente che “l’amor della vita e il timor della morte non sono innati per se: altrimenti niuno s’ammazzerebbe. Innato è l’amor di se, e quindi del proprio bene, e l’odio del proprio male” (Zibal., 2242-43).

Altri studiosi – e sono tanti – discutono intorno al suicidio ed uno di questi risponde al nome del sociologo francese Emile Durkheim (1859-1917), il quale dedica un celebre saggio al tema che intitolò , appunto, ‘Le suicide. Etude de sociologie’ (1897); questi così lo definisce nel citato lavoro: “Dicesi suicidio ogni caso di morte direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo compiuto dalla stessa vittima pienamente consapevole di produrre questo risultato”.

Stabilendo una tipologia del suicidio, il sociologo e pedagogista d’oltralpe si sofferma sia su quello ‘altruistico’ comune tra i militari, sia su quello ‘egoistico’ presente fra le persone sole e scevre da rapporti familiari, sia, infine, su quello cosiddetto ‘anomico’- il più frequente – derivante da particolari condizioni economico-sociali che impediscono agli individui di integrarsi nella la comunità.

Anche Auguste Comte esaminò la questione del suicidio sostenendo che esso è un fatto sociale da spiegare soltanto dal punto di vista sociale; egli, anzi, afflitto da turbe psichiche, dopo essere rimasto in cura, per nove mesi, presso una clinica privata – siamo nel 1826 – nell’aprile dell’anno successivo tenta addirittura di togliersi la vita gettandosi nella Senna e venendo, miracolosamente, salvato da una guardia.

Ora, sia Freud, sia Jaspers esaminano il suicidio: il padre della psicoanalisi, definendolo un omicidio mancato e, di conseguenza, un’estremizzazione dell’istinto di morte (Todestrieb) e l’autore di ‘Psicopatologia generale’ , ribadendo che lo stesso ha origini psicotiche insorgenti dalla disperazione. Anche Heidegger, in ‘Essere e tempo’, si misura con tale atto definendolo un gesto di autolesionismo derivante da un particolare stato di frustrazione dell’uomo.

Sta di fatto, che, non a caso,  il filosofo tedesco fa consistere la cosiddetta vita autentica nell’”Essere-per-la-morte” (Sein-zum-Tode), quando, appunto l’Esserci, cioè l’uomo, pervaso dall’angoscia, prende coscienza della propria finitezza e vive il momento ontologico più vero della sua esistenza. Moltissimi autori – per esempio filosofi-scrittori come Camus e Sartre – come già rilevato, si confrontano col problema del suicidio, né al riguardo, può mancare la figura di Nietzsche il quale ne dà diverse formulazioni come, ad esempio, allorquando scrive che occorre “morire con fierezza se non è più possibile vivere con fierezza”  (‘Crepuscolo degli idoli’).

Adesso, riconfermato che il suicidio è un atto contro natura, anche perché chi fa violenza a sé stesso commette, sempre,  un omicidio, e che, inoltre, chi lo esalta si pone contro Dio, concludiamo con una bella espressione di Giovanni Gentile il quale, in ‘Genesi e struttura della società’, condanna giustamente  quelle “dimidiate filosofie insidiatrici della vita, sempre in agguato e pronte a impadronirsi dell’intelligenza per irretirla dentro le maglie di parvenze malsane”.

A questo punto, nel ribadire la condanna più perentoria del suicidio, non possiamo non osservare, con pacatezza, che nella vita degli individui possono verificarsi – e si verificano, purtroppo – momenti di crisi esistenziali, di acuti dolori, di estreme sofferenze e di gravissime disperazioni; momenti che non giustificano, beninteso, le conseguenziali scelte di audistruzione da parte di alcune persone oppresse dal peso della condizione umana, ragion per cui ci permettiamo di osservare, in conclusione, con Baruch Spinoza quanto segue: “Sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”.

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