IN ALTA VAL VENOSTA – di Piero Nicola

di Piero Nicola

 

Questa ampia vallata si eleva facendo capo al Lago di Resia, quello, per intendersi, col campanile romanico che sorge dall’acqua poco distante dalla riva, e sovrasta il villaggio che andò sommerso quando si produsse il bacino imbrifero, ultimato nel 1949 dopo la ripresa dei lavori interrotti durante la guerra.

Merita discorrere di questi luoghi di molta bellezza naturale, circondati da una chiostra di montagne imponenti culminanti, a Sud, nei ghiacciai del Cevedale e dell’Ortles, non tanto perché tale bellezza sia impareggiabile, quanto perché sinora qui l’attività turistica non ha preso il sopravvento sulle altre occupazioni (l’allevamento e alcune colture tradizionali) e perché le costruzioni attuali non sono ancora troppo invadenti nei nuclei abitati e nella campagna circostante. I mezzi meccanici della fienagione appaiono bensì tollerabili. Del resto, molti trattori e autocarri per la raccolta del fieno hanno l’aria di farsi val venostaperdonare con la loro rispettabile vetustà.

La considerazione sa di ecologismo, di venerazione per la Natura, nei confronti della cui conservazione soltanto, si potrebbero fissare dei limiti allo sviluppo e riserve nei riguardi del progresso, o meglio, si dovrebbe pretendere un progresso più oculato.

Tale superficialità giunge risibile. Non è in questione se occorra che la tecnica rispetti l’ambiente, ma se debba risultare bella o brutta nelle sue espressioni. Il bello e il brutto essendo, al di là del lato estetico, un segno dei tempi.

Come prima accennavo, in questa plaga austera e solare dell’Alto Adige, percorsa da un Adige ancora sottile, animato d’acque fresche e trasparenti, le ingiurie degli attuali costumi non sono trasmodanti, ma proprio per questo risaltano e suggeriscono meditazioni.

Lo sviluppo civile fu continuo dovunque, in qualche maniera. Le sue forme, rispecchianti i contenuti, furono sempre esteticamente apprezzabili, prima della recente modernità inespressiva, o avventurosa e pretenziosa senza carattere, senza un’anima che abbia alcunché da dire, o intesa invano a ripetere motivi tradizionali. I paesi che considero, al pari di quelli d’altre latitudini, quasi spontaneamente vennero edificandosi e trasformandosi in epoche successive, restando sino all’altro ieri mirabili e armoniosi.

Una chiesetta del duecento col suo corpo che si direbbe sgraziato, dai muri massicci, gibbosi e il campanile acconcio, bucato da una monofora sormontata da una bifora, sono tutta poesia. L’interno conserva affreschi ieratici, manchevoli di varie parti. Il soffitto ligneo, di pannelli rustici, reca incise iscrizioni in gotico antico. Un Cristo benedicente guarda, dalla volta d’un’abside minima, un minimo altare di pietra, in un incanto di sacralità. Voglio immaginare il tutto nuovo; faccio sparire i vari deterioramenti e la suggestiva patina del tempo: la sostanza permane.

Per non dire di altre chiese, alcune risalenti all’epoca carolingia, e di torri e castelli. Ma che brutta figura fa quella scuola nuova, dalla struttura essenziale, delicata e insulsa, e quella recente abitazione accanto all’edificio severo, la cui scarna facciata ha due ordini di finestre dagli sguanci esterni che mostrano un grande spessore, e la cui sommità, tagliata a trapezio isoscele, contiene altre tre finestrotte, mentre al pian terreno un semplice portale contornato di marmo grigio chiaro, proveniente dalle vicine cave di Lasa, rivela l’origine gentilizia! Né sono prive del tono comune le case rurali nell’abitato, fornite di rampa per l’accesso al fienile oppure di una grande bocca che immette alla stalla, al cortile. Né la casa ottocentesca aggraziata, arricchita dai bovindo, rompe col costume secolare.

All’osservatore che non sta aggrappato alla modernità come bimbo alla gonna materna, vien fatto di chiedersi che sia mai accaduto, data l’irreparabile discontinuità che salta all’occhio nella vecchia fisionomia del villaggio, e se quelle superfici artificiose e cagionevoli, quelle vetrate eccessive, quelle linee architettoniche stravaganti o banali siano cosa provvisoria, tipo usa-e-getta, una cosa che, ad ogni modo, invecchia male e diverrà meramente decrepita, destinata a scomparire, contrariamente alle costruzioni cui giova l’invecchiamento, testimoniando esse uno spirito pregevole, non caduco, un momento di civiltà. Per conseguenza, il padre di famiglia, o chi pensa all’evolversi della nostra umanità, stenta a concepire come, perdurando questo suo andamento, essa possa affermarsi ancora con opere durature, ed egli paventa che, in avvenire, continui a manifestarsi priva di bellezza.

Si è avuto cura di erigere i muri di sostegno lungo le strade con rivestimenti di pietra secondo la vecchia foggia irregolare. Di contro, però, il guardrail o i paletti di plastica, che mi rinviano ai paracarri di granito, e il cemento affiorante dappertutto, per cui vado cercando i mattoni e i blocchi squadrati o bugnati di cui son composti i monumentali ponti d’una volta, e le sedi stradali che tagliano il paesaggio quasi copiando l’insensibile, astorica ferrovia, sono altrettanti particolari offensivi del buon gusto, al quale si sacrifica ben poco delle comuni risorse. Così le zone periferiche destinate ai commerci, alle imprese artigiane dei pur piccoli centri della valle, ricordano un brano d’un qualsiasi analogo poligono industriale, piovuto quassù inopinatamente, come uno sfregio.

Chiacchierando con il farmacista del capoluogo, apprendo che i poteri regionali hanno favorito lo spostamento degli allevatori e contadini, la loro dimora, le stalle, i magazzeni, dalle vie e vicoli paesani a siti fuori porta. L’effetto sgradevole non cambia. Il dottore è d’accordo, e parla di una selezionata qualità di meli resistente a questa altitudine come di un ritrovato, capace di scalzare l’attività dura e poco rimunerativa dell’allevamento con impianti d’arida tecnologia. Sicché, da capo, ritrovo il grave quesito. E’ possibile che il nostro tempo non sia in grado di pervenire alla soluzione delle sue esigenze in modo pieno e soddisfacente? Ripeto: lamentare che le fattorie costruite sui prati e sui coltivi divorino a poco a poco le verdi distese e i biondi appezzamenti della segale e dell’avena, non significa cogliere nel segno. Il rammarico sta altrove, nella foggia insoddisfacente, nella mancanza di armonia col Creato. D’altronde l’avarizia, indotta dalla brama dei godimenti instaurati, distoglie da certe riflessioni sul decoro, al quale la stessa trascorsa povertà sacrificò parte dei suoi averi, e subito si perde l’induzione per cui la povertà artistica presente mostrerebbe una corrispondente miseria spirituale, per cui la forma da comporre svelerebbe il contenuto donde proviene.

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