“Feeria non può essere intrappolata in una rete di parole, essendo l’indescrivibilità una delle sue caratteristiche”

Negli stessi anni 1938-1939 in cui Il Signore degli Anelli prendeva forma, Tolkien scriveva: “Sulle fiabe” (On Fairy-Stories). Credo personalmente sia necessario passare attraverso questo straordinario saggio per comprendere l’intero legendarium tolkieniano. Feeria era il Paese delle Fate e sin dall’inizio il grande scrittore inglese si premurava di definirlo: “Feeria è un paese pericoloso, pieno di trabocchetti per gli incauti e di tranelli per i temerari”. Iniziava quindi con un prezioso avvertimento ad una prudenza vigile, attenta; per avventurarsi in quel paese fiabesco bisognava predisporsi a meravigliarsi come i bambini con un minimo di informazioni occorrenti per quel fantastico viaggio.

Tolkien si poneva queste domande per poter parlare adeguatamente di Feeria: “Che cosa sono le fiabe? Quale ne è l’origine? A che servono?”. Domande solo apparentemente semplici, a cui dava delle esaurienti e significative risposte. Egli scriveva che: “É l’uomo, a paragone delle fate, che è soprannaturale” ed in questo rifletteva la statura divina conferitagli da Gesù Cristo, Uomo-Dio. In merito all’essere minuscolo (di statura) di elfi o fate era dovuto in larga misura, secondo Tolkien, ad un adulterato prodotto della fantasia letteraria che, soprattutto in Inghilterra, aveva prediletto il delicato e il grazioso, il leggiadro e il minuscolo nell’arte. Come poteva definirsi una fiaba? Ecco come rispondeva Tolkien: “La definizione di una favola, ciò che è o dovrebbe essere, non dipende da alcuna definizione o resoconto storico di elfi o fate, bensì dalla natura di Feeria, del Reame Periglioso in sé e per sé e dell’atmosfera che vi domina”. Era impossibile e impensabile una descrizione dettagliata e, ancor meno, esaustiva. Andava oltre ogni analisi scrupolosa, scientifica.

Tolkien conosceva molte raccolte di fiabe, ad iniziare dai dodici libri di colore diversi di Andrew Lang (1844-1912) ma affermava che il fascino delle favole corrispondeva agli effetti che stimolava nell’uomo: “La malia di Feeria non è fine a sé stessa: il suo merito risiede nei suoi effetti, tra i quali va annoverata la soddisfazione di alcuni primordiali desideri umani e uno di essi è quello di sondare le profondità dello spazio e del tempo”. “Soddisfazione”, “desiderio umano” ma non “sogno” né incubo né illusione. Essenziale, per una fiaba genuina, era che fosse presentata come “vera” e non, come ad esempio le storie di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, come una vicenda onirica. Allo stesso modo, affermava Tolkien, non potevano dirsi propriamente fiabe le “favole di animali” puramente tali: “I racconti di Beatrix Potter si situano in prossimità dei confini di Feeria, ma per lo più, almeno a mio giudizio, al di qua di essi”.

Per rispondere adeguatamente in che cosa consistessero le fiabe era necessario comprenderne l’origine: “Per quanto attiene alle fiabe è più interessante, e anche in un certo senso più arduo, considerare ciò che esse sono, ciò che sono divenute per noi e quali valori il lungo processo alchemico del tempo vi abbia fatto germinare”. Nella considerazione di Tolkien elementi affini si trovavano in tantissime fiabe ma quello che costituiva interesse era il prodigio della mente umana, capax infiniti: “La mente umana, dotata dei poteri di generalizzazione e astrazione, percepisce non soltanto “erba verde” distinguendola da altri oggetti, ma s’avvede che è sia “verde” sia “erba”. L’uomo diveniva così un “sub creatore”, a immagine e somiglianza di Dio e rivelava tutto il suo fantastico potenziale.

Fonte: Il Settimanale di Padre Pio

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