PRESENTAZIONE DI “DON BOSCO MISTICO”, DI CRISTINA SICCARDI, EDITO DA FONTANA DI SILOE (GRUPPO LINDAU).

 

–       L’INTERVENTO DI CRISTINA SICCARDI


 

Scriveva Benedetto XVI il 21 gennaio 2008, nella Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul «compito urgente dell’educazione»:

«Educare […] non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una “frattura fra le generazioni”, che certamente esiste e pesa, ma che è l’effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori.

Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare? È forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita».


Di fronte agli enormi e incontestabili successi educativi ottenuti da San Giovanni Bosco (1815-1888) ci sarebbe la tentazione di formulare una più che ingannevole considerazione: nel XXI secolo è più difficile educare rispetto al XIX secolo. Don Bosco, crediamo, non sarebbe di questa opinione. Il tempo in cui egli educò fu difficilissimo, a partire dagli stessi allievi e non soltanto dalle circostanze a loro intorno. Gesù Cristo e Maria Santissima gli fecero vedere, già a 9 anni, chi sarebbero stati i suoi allievi: «belve feroci» che lui e i Salesiani avrebbero trasformato in agnelli.

I sogni (come don Bosco li definiva per umiltà, ma che al dire del suo primo biografo Giovanni Battista Lemoyne [1839-1916] si trattava più verosimilmente di visioni, che potevano durare anche una notte intera) accompagneranno il fondatore dei Salesiani per tutta la sua esistenza, dai nove anni (1924) fino alla fine dei suoi giorni terreni (1888).

Nei primi tempi del Seminario che frequentò a Chieri fece un sogno che può essere posto in parallelo con quello delle «belve feroci». Egli stesso raccontò:


«Io mi vidi già prete […] e così vestito lavorava in una bottega da sarto, ma non cuciva cose nuove, bensì rappezzava robe logore e metteva insieme un gran numero di pezzi di panno. Subito non potei intendere che cosa ciò significasse. Di questo ne feci motto allora con qualcheduno; ma non ne parlai chiaramente finché fui prete, e solo col mio consigliere D. Cafasso». Questo sogno-visione rimase indelebile nella memoria di Don Bosco, indicava come egli non fosse solo chiamato ad occuparsi di giovani buoni da perfezionare, ma a radunare intorno a sé ragazzi fuorviati per farne buoni cristiani, in grado di cooperare alla riforma della società.

L’ambizioso obiettivo educativo di Don Bosco (i Servi di Dio sono santamente ambiziosi, perché se non lo fossero non raggiungerebbero e non praticherebbero le virtù eroiche) furono essenzialmente due: condurre i ragazzi, anche quelli peggiori, a divenire «onesti cittadini e buoni cristiani» e attraverso di loro riformare la società e che cosa significava per Don Bosco riformare la società? Estirpare le idee giacobine e liberali che la Rivoluzione Francese aveva inoculato nella cultura europea e ricristianizzare una gioventù povera che dalle campagne era emigrata a Torino in cerca di fortuna, ma la “fortuna” era sovente il vizio e la delinquenza. Don Bosco lottò con tutte le sue forze contro il liberalismo e contro la Massoneria, difendendo con passione e determinazione la fede cattolica e la Chiesa, che in quegli anni veniva aggredita con violenza dai gruppi di potere politici e culturali massonici e anticlericali. Don Bosco stesso fu più volte vittima di aggressioni, di minacce di morte, di attentati alla sua vita.


La cultura massonica veniva inoculata anche attraverso pedagoghi cristiani, ne è illuminante esempio l’operato dell’Abate Ferrante Aporti (1791-1858). Egli fu l’introduttore in Italia degli «Asili d’infanzia», secondo il piano del protestante scozzese John Owen (1771-1858), responsabile di una setta sansimoniana, nonché fondatore della scuola materna in Gran Bretagna, in particolare in Scozia. Aporti eresse il suo primo asilo nella città natale di Cremona nel 1830 e nello stesso tempo insegnava, con un proprio metodo, ai maestri di scuola elementare.

Benché esistesse già in Torino, fin dal 1825, un fiorente asilo d’infanzia, di chiara impostazione cattolica (il primo in Italia), fondato dal Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo (1782-1838), i liberali proponevano nuovi modelli pedagogici per annientare l’istruzione di Santa Madre Chiesa, proponendo metodi d’impronta protestante. Gregorio XVI (1765-1846) nel 1839, con una circolare ai Vescovi dello Stato Pontificio, aveva fatto proibire gli Asili d’infanzia «in quanto erano della qualità promossa dal medesimo Aporti».

L’arrivo a Torino del docente fu un trionfo per i massoni. La «Scuola di metodo» venne inaugurata il 26 agosto in una sala della Regia Università: nessuno sarebbe stato più ammesso nell’anno scolastico 1844-1845 all’esame di maestro di scuola elementare nelle Provincie di Torino, di Pinerolo e di Susa, se non dietro certificato di frequenza a tale scuola di formazione aportiana.

Monsignor Luigi Fransoni (1789-1862) avvertì il Magistrato della Riforma di essere personalmente contrario all’intervento degli ecclesiastici alla «Scuola di metodo»; inoltre fece esporre nelle sagrestie della capitale una lettera scritta a mano in cui interdiceva al suo clero di frequentarla.

Aporti aveva amici tra gli impiegati del Governo, tra gli ufficiali del palazzo reale e dell’esercito e tra i professori dell’Università. Ed era chiaro il disegno liberal-massone di eliminare dalle scuole, con progetti e programmi, poco alla volta, con costanza e pazienza, le idee della religione rivelata. Don Bosco venne direttamente incaricato da Monsignor Fransoni di verificare e di riferire ciò che veniva realmente insegnato nella nuova «Scuola di metodo», perciò si fece uditore delle lezioni “alla moda” che Aporti teneva, con grande concorso di insegnanti, alla Regia Università. Don Bosco, che non era uomo di moda, ma di Dio, si accorse immediatamente che dalle lezioni venivano subliminalmente esclusi i misteri della religione. Per esempio Aporti non voleva che si parlasse mai ai giovani dell’Inferno, del Purgatorio, del Paradiso, mentre don Bosco ne parlava apertamente, facendo comprendere ai suoi giovani che il Paradiso va meritato, mentre per l’inferno è facile entrarvi. La religione per Aporti era un sentimento, per Don Bosco la ragione della vita. Un giorno Don Bosco gli chiese perché non spiegasse le sue definizioni religiose e Aporti rispose che i giovani non erano capaci ancora di comprenderle. Don Bosco, dopo alcune settimane, fece relazione precisa all’Arcivescovo di Torino, all’epoca monsignor Fransoni, che sarà poi esiliato dalle autorità liberali. L’Arcivescovo gli disse di non andare più ad ascoltare l’insano formatore di insegnanti e Don Bosco così fece.

Aporti escludeva le immagini della Madonna e dei santi, tanto dalle pareti, quanto dalle premiazioni… nella scuola venne lasciato il posto soltanto più al Crocifisso, raggiungendo l’obiettivo delle sette e delle Logge del XIX secolo. La scristianizzazione ha poi proseguito la sua corsa ed oggi anche i Crocifissi spariscono dall’orizzonte sociale. Quando il salesiano don Francesco Cerruti (1885-1917), direttore generale degli Studi e delle Scuole salesiane, molti anni dopo, presenterà a don Bosco il Regolamento degli Asili d’infanzia per le Figlie di Maria Ausiliatrice, dirà il fondatore dei Salesiani: «Vuoi sapere chi allora fosse davvero Aporti? Il corifeo di coloro che nell’insegnare riducono la religione a puro sentimento. Tu ricordati bene che una delle magagne della pedagogia moderna è quella di non volere che nell’educazione si parli delle massime eterne e soprattutto della morte e dell’inferno».

Aporti, che per suo volere dopo qualche anno smetterà di  celebrare la Santa Messa, non accusò il benché minimo disagio di fronte agli ammonimenti che Monsignor Fransoni gli fece in un incontro personale che ebbe con lui e proseguì con lo stesso tenore di prima i suoi corsi. Quando i liberali seppero di quell’incontro entrarono in escandescenza, difendendo Aporti, al fine di salvaguardare la formazione di maestri a-cattolici, dunque di allievi a-cattolici.


I Santi sono per natura “ambiziosi”, ovvero si prefiggono sempre obiettivi grandi, molto più grandi delle loro forze perché si affidano alla forza di Dio che essi servono con abnegazione e in questo Don Bosco fu formidabile. Si annullò totalmente per donare anime al Salvatore, anime che amava con la tenerezza di un vero padre. La sua sensibilità era straordinaria. Aveva circa dieci anni quando catturò un merlo, lo chiuse in gabbia, lo allevò, lo addestrò al canto; si affezionò moltissimo a quella creatura e trascorreva la sua giornata nell’attesa di ritornare dal suo merlo. Ma un giorno trovò la gabbia dove l’aveva collocato spruzzata di sangue e il corpo del volatile mezzo sbranato da un gatto. Giovannino pianse per diversi giorni e nessuno riusciva a consolare il suo dolore. Poi, dopo un po’ di tempo, tornò in sé e prese una decisione: non avrebbe più attaccato il suo cuore a nessuna cosa terrena… Ma, nonostante il proponimento, fu impossibile per lui seguirlo: il suo cuore era grande, dunque fu impraticabile la via dell’amare con distacco ed ecco che quando incontrerà a Chieri il giovane Luigi Comollo (1817-1839) entrerà con lui in spirituale e altissima amicizia. Quel cuore tenerissimo di bambino prima e di ragazzo dopo si trasformò in quello di padre poi: vi fece entrare un esercito di ragazzi ed ognuno si sentì amato come fosse stato figlio unico e per ciascuno preparò un posto in Paradiso «per stare sempre insieme con loro», come lui stesso ripeteva sovente. La sua immensa capacità d’amare non fu mai scomposta perché la direzione fu sempre la medesima: amare le anime nell’Amore Infinito.

Da che cosa derivava l’autorità di Don Bosco come maestro? Giungeva dalla sua paternità sentita e vissuta nelle fibre di tutto il suo essere e questa paternità, fatta di fermezza, di sicurezza e di profonda amabilità, veniva sensibilmente percepita dai bambini e dai giovani. La sua autorità era impressionante, la si percepiva anche quando era assente: per esempio, se doveva allontanarsi dalla classe, era sufficiente che lasciasse il suo tricorno sulla cattedra per mantenere il silenzio e l’ordine. Poco dopo la Pasqua del 1855 don Bosco ottenne dal Ministro dell’Interno Urbano Rattazzi  (1808-1873) il permesso di portare a spasso i ragazzi del Riformatorio (il carcere minorile) di Torino: partì con loro il mattino presto, li condusse a Stupinigi e li riaccompagnò tutti e 300 alla «Generala». Nessuno di loro fuggì: fu un episodio che riscosse un grande clamore.

Come faceva il “Capo dei birichini“ (così si firmava) ad ottenere l’obbedienza? Non doveva gridare, bastava uno dei suoi sguardi taglienti, bastava che non proferisse parola, era sufficiente non dare il buongiorno o la buonanotte e l’ospite del suo Oratorio comprendeva la propria manchevolezza e colpa: a volte scoppiava in pianto e spesso si pentiva. Quello sguardo, quell’assenza di parole, quell’ignoramento erano la punizione più temuta dai giovani di Valdocco… e ciò per due ragioni: avevano paura di aver perso la considerazione e l’amore di colui che consideravano più padre del proprio padre. Alcuni erano orfani, ma altri no, eppure Don Bosco, che conosceva la magnifica arte divina (propria dei santi) di «rubare i cuori», otteneva ciò che i genitori non riuscivano ad ottenere.

Come stava bene don Bosco con i giovani e come stavano bene i giovani con lui: «Cor unum et anima una»!

Don Bosco era l’anima della ricreazione. Entrava, sia direttamente che indirettamente, dentro i giochi. E quando i ragazzi potevano avere come loro compagno don Bosco erano felici. Se, nel gioco, scorgeva qualcuno che usava parole e modi scomposti gli diceva di prendere il proprio posto che lui avrebbe occupato il suo e avveniva il cambio.

Scrive Lemoyne: «Innamorava il vederlo in mezzo a noi, diceva uno di questi allievi, ora già in età avanzata. Alcuni di noi erano senza giubba, altri l’aveano, ma tutta a brandelli; questi a stento teneva ai fianchi i calzoni, quell’altro non aveva cappello, o le dita dei piedi sì affacciavano dalle scarpe rotte. Si era scarmigliati, talora sudici, screanzati, importuni, capricciosi, ed egli trovava le sue delizie stare coi più miserabili. Pei più piccini, aveva poi un affetto da madre».

Più volte accadde che don Bosco sfidasse tutti i suoi giovani a sorpassarlo nella corsa e fissava la meta, destinando il premio per il vincitore. Ed eccoli allineati… don Bosco solleva la veste al ginocchio e grida: «Attenti…. Uno, due, tre! Via…» e 800 ragazzi si slanciano in avanti. Ma lui era il primo a raggiungere il traguardo… L’ultima di queste sfide ebbe luogo nel 1868, aveva 53 anni e nonostante le sue gambe edematiche, correva ancora con tanta velocità da lasciare tutti alle spalle. Dichiara Lemoyne: «Noi presenti, non potevamo credere ai nostri occhi». Per non parlare delle meravigliose passeggiate, sempre accompagnate dalla celebrazione della Santa Messa, che Don Bosco e la sua brigata compivano nei paesi e fra le verdi colline intorno a Torino: giorni memorabili di cui hanno lasciato traccia i suoi biografi.

Il vincente metodo preventivo di Don Bosco, che abolisce il castigo pesante, è sintetizzato nella formula: «ragione, Religione e amorevolezza», ossia unione di ragione, Fede e Carità. Questa pratica è appoggiata alle parole di san Paolo: «Charitas patiens est… Omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet» (1 Cor 13, 4). Ovvero: «La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque cosa».

Don Bosco, come è proprio dei mistici, conosceva molto bene il mondo e i suoi pericoli e questa conoscenza gli veniva dalla sua familiarità con la realtà divina, che veniva nutrita dalla preghiera, dalle visioni, dal suo continuo stare alla presenza del Signore. Don Bosco viveva in grazia di Dio e questa grazia voleva infonderla in tutti i suoi giovani, donando loro la Fede e insegnando la dottrina della Chiesa. La Fede per Don Bosco non era un sentimento, ma un’identità: Fede e vita coincidevano, per tale ragione dava alla Santa Messa e ai sacramenti della confessione e della comunione un’importanza vitale, tanto quanto l’ossigeno è indispensabile per respirare.

Sta scritto nel Regolamento del «Sistema preventivo»: «La frequente Confessione, la frequente Comunione, la Messa quotidiana sono le colonne che devono reggere un edifizio educativo, da cui si vuole tener lontane la minaccia e la sferza.  Non mai obbligare i giovanotti alla frequenza dei Santi Sacramenti, ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di approfittarne.  Nei casi poi di Esercizi Spirituali, tridui, novene, predicazioni, catechismi si faccia rilevare la bellezza, la grandezza, la santità di quella Religione che propone dei mezzi cosi facili, cosi utili alla civile società, alla tranquillità del cuore, alla salvezza dell’anima, come appunto sono i Santi Sacramenti».

Inoltre i «Maestri, i Capi d’arte, gli Assistenti devono essere di moralità conosciuta.  […]. Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento.  La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatro, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità ed alla sanità.  Si badi soltanto che la materia del trattenimento, le persone che intervengono, i discorsi che hanno luogo non siano biasimevoli.  Fate tutto quello che volete, diceva il grande amico della gioventù San Filippo Neri, a me basta che non facciate peccati». Il peccato fu il grande nemico da combattere per Don Bosco, i peccati dei singoli come i peccati inoculati attraverso gli errori propinati sia dai liberali-massoni sia dai protestanti. Ai peccati egli non diede tregua e per tale motivo il demonio andò a visitarlo più volte, perseguitandolo e non lasciandolo riposare la notte.

Agli educatori egli raccomandava la pazienza, la diligenza e molta preghiera, «senza cui sarebbe inutile ogni Regolamento». L’umilissimo Don Bosco, amico stretto di sorella povertà, fu il cantore della Verità (quella che rende liberi), della bellezza, della gioia, quella gioia che soltanto il Cristianesimo può donare. Egli diceva: «Tutto passa: ciò che non è eterno è niente!».

Don Bosco, che ebbe tre grandi amori (gli amori bianchi: l’Eucaristia, la Vergine Immacolata, il Papa) è nato nel Monferrato, una fertile terra di Santi, il nostro migliore augurio vada, dunque, al nuovo Sommo Pontefice Francesco, argentino di nascita, ma le cui radici familiari affondano proprio nel Monferrato, a Portacomaro.

Il nome Francesco riconduce a tre giganti:

San Francesco d’Assisi (1182-1226),

San Francesco Saverio (1506-1552),

San Francesco di Sales  (1567-1622).

Ognuno di loro fu educatore, ossia formatore di anime. Le nostre anime in questi tempi così difficili e smarriti anelano ad un Pastore che le possa nutrire e formare in quella forza che Don Bosco individuò nelle due robuste e altissime colonne del sogno profetico sulla Chiesa che egli fece nel 1862: vide la nave del Pontefice (la Chiesa) assalita, durante una furiosa tempesta, da numerosi nemici. Il Papa stava al timone e tutti i suoi sforzi erano diretti a condurre la nave in porto, in mezzo a quelle due colonne, sopra le quali si ergevano l’Ostia e Maria Immacolata.

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