INTERVENTO DEL PROF. ROBERTO DE MATTEI A RADIO MARIA – 20 APRILE 2011

Intervento prof. Roberto de Mattei – Radio Maria – 20 aprile 2011


Radio Maria – 20 aprile 2011

 

fonte: Sito della Fondazione Lepanto


I Parte: tutto ciò che accade ha un significato

Cari amici di Radio Maria e voi, signori ateisti, che con tanta attenzione seguite le mie trasmissioni e quelle di Padre Livio, questa sera non posso che chiarire e sviluppare i temi di cui alcuni gruppi e lobby mediatiche si sono serviti per attaccare violentemente Radio Maria e me, fino al punto di chiedere le mie dimissioni da Vice Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, malgrado mai in questa trasmissione io abbia parlato a nome del CNR o abbia fatto riferimento ad esso.

Anche oggi parlo come cattolico e come uomo libero, e come tale, dai microfoni di Radio Maria, una radio cattolica e privata, desidero ribadire una verità elementare, una verità che nasce dal buon senso prima ancora che dalle fede: tutto ciò che accade ha un significato; tutto, in una parola, è Divina Provvidenza.

La Divina Provvidenza non è altro che Dio, considerato non in sé stesso, ma nel suo rapporto con le cose create. I cattolici lo proclamano nella Santa Messa quando recitano: “Credo in Dio onnipotente, Creatore del cielo e della terra e di tutte le cose visibili e invisibili”. È questo il principio della nostra fede, a cui tutto è appeso, da cui tutto discende. Il vecchio Catechismo iniziava perciò con queste domande: “Chi ci ha creato?”; “Ci ha creato Dio”; “Chi è Dio?”; “Dio è l’Essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra”.

Tutto è racchiuso in queste formule. Il cielo e la terra, tutte le cose visibili e invisibili sono state create da Dio. Con questa stessa verità sfolgorante si apre la Sacra Scrittura: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn. 1, 1). E con parole analoghe san Giovanni inizia il suo Vangelo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Tutto per Lui è stato fatto e senza di Lui non è stato fatto nulla di ciò che esiste” (Gv. 1, 1). E un dogma di fede, ma è anche un’evidenza di ragione: tutto ciò che esiste ha la sua origine in Dio e tutte le cose visibili e invisibili da Lui ricevono l’essere che hanno e che le mantiene nell’esistenza[1].

Affermare che Dio esiste e che è il creatore e signore del cielo e della terra, non è un’opzione fideistica, non è un afflato sentimentale, non è un’esperienza incomunicabile, ma è una verità razionale a cui la nostra ragione può arrivare a partire dalla considerazione delle realtà create, che cadono sotto l’esperienza sensibile, quella del mondo che ci circonda.

A dimostrare l’esistenza di Dio dovrebbe bastare l’evidenza dell’universo creato. La bellezza del firmamento, la vastità dei mari e la maestà dei monti, l’esistenza meravigliosa di tutto ciò che vive, dal più infimo microrganismo al bimbo che prende forma nel grembo della madre, tutto ci parla dell’esistenza di Dio e ci fa dire con sant’Agostino: “Ecco il cielo e la terra esistono e gridano che sono stati fatti. (…) Gridano, anche che non si son fatti da sé: per questo siamo, perché siamo stati fatti. Prima di essere, non eravamo, così da poterci fare da noi. Questo loro parlare è costituito appunto dall’evidenza. Pertanto fosti tu, o Signore, a fare il cielo e la terra, tu che sei bello, perché essi sono belli; tu che sei buono, poiché essi sono buoni; tu che sei, poiché essi sono[2].

Noi ripetiamo queste parole e leviamo lo sguardo a Dio che riconosciamo Essere perfettissimo, abisso di tutte le perfezioni, di cui siamo privi, ma di cui siamo anche riflesso. Tutto ciò che di vero, di buono, di bello esiste nell’universo riflette le perfezioni di Dio, Essere increato, Atto puro, Causa prima e fine ultimo di tutte le cose che sono.

È per questo che i Salmi definiscono stolto chi non crede in Dio (Ps. 13, 1) e san Paolo nellaLettera ai Romani leva il suo lamento: “Non c’è persona sapiente, non vi è chi cerchi Dio” (Rm. 3, 11). Chi nega Dio è uno stolto perché nega l’evidenza che gli stessi sensi ci attestano, non perché i nostri sensi vedano Dio, ma perché i nostri occhi vedono le sue opere, e dalle opere possono risalire al loro autore, e proclamare, con la sua esistenza, la sua gloria, come fanno con il loro muto linguaggio i cieli e la terra (Sal. 18, 2).

Oggi viviamo un’epoca di follia, perché l’esistenza di un Dio creatore, che ha cura di ogni cosa creata, visibile e invisibile, è apertamente negata dalla falsa sapienza del mondo. Le istituzioni politiche e sociali e i mass media che influenzano l’opinione pubblica, ma anche molti cattolici che vivono immersi nell’ateismo pratico, giudicano insipiente chi proclama pubblicamente l’esistenza di Dio e la sua Provvidenza.cieco nato

Eppure, se noi siamo, se qualcosa, pur nella sua finitezza, è, non può esistere il nulla assoluto. L’evidenza dell’esistenza di qualcosa smentisce la possibilità del nulla assoluto: il nulla non può che essere relativo a qualcosa che è; questa è la prima evidenza; la seconda evidenza che si impone è che tutto ciò che esiste ha un limite, è contingente, è finito, non ha in sé stesso la sua origine e la sua ragione. Ma da dove viene allora ciò che non è né il nulla assoluto, né l’assoluto essere? Chi, se non un Essere infinito, può avere avuto la forza di trarre le cose dal nulla?

Dal nulla, nulla viene, nulla si fa. Solo una causa infinita può togliere l’infinita sproporzione tra il nulla e l’essere, superarne l’incolmabile distanza. Se il nulla assoluto non esiste, esiste però, necessariamente, l’Essere assoluto, che è Colui che trae dal nulla tutte le cose che sono. L’essere assoluto non è l’uomo. L’uomo può fare molte cose, manipolando con la tecnica la realtà fisica che lo circonda, ma non sarà mai in grado di produrre l’essere dal nulla. Ciò vale per l’universo intero. L’universo ha avuto un’origine che la favola dell’evoluzione non spiega, perché retrocedendo nel tempo per milioni o miliardi di anni, come vorrebbero gli evoluzionisti, arriveremmo comunque a un punto di partenza, a un atomo originario, ad un grumo di materia da cui, con o senza big bang tutto sarebbe scaturito. Ma cosa c’era prima di questa esplosione primordiale? Chi ha tratto il primo pulviscolo di materia dal nulla, se non un Dio assoluto e onnipotente, capace di creare, ovvero di produrre l’essere dal nulla? Oppure riteniamo che la materia stessa sia eterna, infinita, pensante e auto-creante? È questa la vecchia dottrina dei panteisti, più radicale e coerente di quella degli ateisti, ma altrettanto sciocca e insipiente.

Colui che ha creato le cose dal nulla, le mantiene nell’essere dopo averle create. Tutto ciò che esiste, dal granello di sabbia alle vette dei monti, dal filo d’erba al bimbo che nasce, riceve da Dio l’essere in ogni momento della sua esistenza. Se Dio per un attimo sottraesse al creato l’essere, il creato ripiomberebbe in quel nulla da dove Dio lo ha tratto. Gli atei che balbettano le loro blasfemie prive di senso possono farlo solo perché Dio lo permette loro: potrebbero in un attimo precipitare nell’abisso del nulla, se Dio lo volesse; ma Dio non vuole perché, dopo aver creato l’universo, non si limita a conservarlo nell’essere, ma lo dirige a un fine e anche le offese che egli riceve fanno parte di un progetto di cui i negatori di Dio sono inconsapevoli strumenti.

Dio non solo chiama le cose dal nulla all’essere; non solo, dopo averle create, le mantiene nell’essere, ma assegna pure alle cose create un fine da conseguire, e a questo fine le guida e le dirige. Questo fine è Dio stesso, il primo principio da cui tutto dipende, da cui tutto deriva, a cui tutto ritorna. Tutto ciò che Dio ha fatto è stato prodotto per un fine e il fine ultimo di ciò che Egli ha creato non può essere altro che Egli stesso, perché altrimenti bisognerebbe immaginare che l’universo potesse tendere a un fine ultimo estraneo a Dio. Immaginare che ci sia qualcosa che non ha Dio per fine, sarebbe come dire che c’e qualcosa che non ha Dio per causa; ma, in questo caso, Dio non sarebbe Dio, perché qualcosa gli sarebbe sottratto, né si capirebbe da dove questo qualcosa trarrebbe la sua ragione di essere. Non esistono cause, fini o perfezioni nell’universo indipendenti da Dio: nulla è infatti fuori di Lui, “alfa e omega, primo e ultimo, principio e fine” (Apoc. 22, 13) di tutto ciò che è, e per questo la Scrittura dice che “il Signore ha fatto tutto per la sua gloria” (Prov. 16, 4).

Tutto va ricondotto a Dio come causa prima e come fine ultimo, non perché Dio abbia bisogno di nulla, ma perché Dio, essendo Sommo Bene, chiama le creature dal nulla all’essere per partecipare loro i suoi beni, per diffondere loro il suo amore, perché il Bene è per sua natura diffusivo. Dante lo esprime in questi versi:

Non per aver sé di bene acquisto

Ch’esser non può, ma perché suo splendore

Potesse, risplendendo, dir: ‘Subsisto’

S’aperse in nuovi amor l’eterno amore.[3]

Dio non solo assegna un fine ad ogni cosa, ma fa in modo che ogni cosa raggiunga il suo fine. Se Dio assegnasse un fine a tutte le cose e qualcosa non raggiungesse il suo fine, la Sapienza e l’Onnipotenza di Dio ne uscirebbero diminuite e ciò contraddice all’essenza stessa di Dio. Tutto raggiunge il suo fine, niente si sottrae al governo di Dio. “Essendo proprio dell’ottimo – dice san Tommaso – fare sempre cose ottime – non conviene che la divina bontà lasci le cose, da essa prodotte, imperfette. E siccome l’ultima perfezione di ogni cosa è rappresentata dalla consecuzione del fine, appartiene alla divina bontà non solo produrre le cose, ma anche guidarle al loro fine; nel che appunto consiste il governare[4]. Questo governo dell’universo creato è propriamente la Divina Provvidenza, che san Tommaso definisce “l’ordinamento delle cose verso il loro fine[5] e, in senso figurato, noi possiamo definire come la mano di Dio che opera nel tempo ciò che la sua mente divina ha pensato e voluto dall’Eternità.

La Sacra Scrittura attribuisce il governo delle cose alla Divina Sapienza che, fin dall’eternità ha dato ordine ai cieli e alla terra, ha stabilito le leggi misteriose dell’universo e ha disposto “tutte le cose in un certo peso, ordine e misura” (Sap. 11, 21). Il Concilio Vaticano I lo ha ribadito solennemente: “Dio per mezzo della sua Provvidenza protegge e governa tutte le cose che ha creato, arrivando da un’estremità all’altra con potenza e tutto disponendo con soavità[6].

Dio non è indifferente a ciò che ha creato, ma si occupa del più piccolo, del più dimenticato, del più umile degli esseri che ha creato, perché ognuna delle sue creature reca la sua impronta, ed è da Lui amata e guidata al suo fine. Può farlo perché è onnipotente e onnisciente, perché sa e può ogni cosa: è Dio. Non solo può farlo, ma lo fa, perché ama infinitamente le sue creature.

È qui che cade il problema del male, che alcuni vedono incompatibile con l’esistenza di un Dio infinitamente buono. Se tutto dipende da Dio, come si spiega il male nell’universo? Qualcosa è sfuggito alla Provvidenza divina, oppure si deve ritenere che Dio è l’autore del male?

Dobbiamo rispondere che il male esiste, ma non in sé stesso: esiste solo come privazione di bene. Esiste il Bene assoluto, che è Dio, ma non esiste il male assoluto, così come esiste l’Essere assoluto, ma non esiste il nulla assoluto. In Dio, sommo Bene, non esiste alcun male, perché in Dio non c’è privazione di nulla, c’è solo la pienezza dell’essere e delle sue perfezioni. Il male esiste solo nella creatura, come privazione di bene che consegue alla sua finitezza. Il male, come il falso o il brutto, non è una realtà o entità positiva, qualcosa che esiste per sé stessa, ma è la negazione di una determinata entità in un determinato soggetto. Esiste ad esempio la verità, ma non esiste in se stessa la falsità: il falso, per esistere, ha bisogno di una verità che nega o che deforma; allo stesso modo la bruttezza non esiste in sé, ma solo come negazione o deformazione del bello; il male non esiste in sé, ma solo come privazione dell’essere fisico o morale a cui si riferisce.

Il male è di due tipi, fisico o morale, a seconda che fisica o morale sia la perfezione che esso nega. Il male fisico è comune a tutti gli esseri creati: minerali, piante, animali, uomini. Il male morale e quello che solo le creature razionali, uomini od angeli, compiono, esercitando le facoltà che sono loro proprie, l’intelligenza e la volontà.

Il male morale, che san Paolo definisce mysterium iniquitatis, è un terribile e profondo mistero, che ha le sue radici nella libertà della creatura razionale, chiamata a unirsi alla volontà divina o a separarsi irrimediabilmente da essa. Esso è conseguenza del dono della libertà. Dio infatti ha creato gli uomini per essere felici e perché la loro felicità fosse più grande ha dato loro la libertà. Ma le creature, quali noi siamo, non possiedono una perfetta e assoluta libertà: ciò ci equiparerebbe a Dio e noi non siamo Dio; però non siamo neanche animali necessitati a muoversi dai loro istinti, privi di libertà. Siamo uomini capaci di intendere e di volere, liberi come i nostri progenitori, di rispondere di sì o di no all’amore che Dio ha per noi. Il male morale, che chiamiamo anche peccato, non è altro che il nostro rifiuto dell’amore di Dio, il non riconoscere Dio con le parole, o con i fatti, come nostro principio e nostro ultimo fine, come padrone della vita e della libertà che ci ha dato. Il mistero del male morale dell’uomo, non è altro che il mistero di una creatura che si ribella al suo creatore, che proclama la sua autosufficienza, la sua indipendenza, senza avere in sé la possibilità di fare nulla, perché tutto ciò che siamo dipende da Dio e senza di Lui nulla possiamo fare di buono.

Il male fisico è molto più comune e vasto di quello morale, perché mentre il male morale è ristretto alle creature dotate di ragione e di volontà, responsabili delle loro azioni, il male fisico è comune a tutti gli esseri, ragionevoli e irragionevoli. Il male fisico è entrato nella storia dell’umanità con il peccato originale commesso da Adamo ed Eva. San Paolo ce lo insegna: “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e al peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini perché tutti hanno peccato” (Rm. 5, 12). La precarietà del corpo umano, le sofferenze, la morte, dipendono solo dal peccato originale, con il quale Adamo e i suoi discendenti persero il dono dell’immortalità. Dio aveva creato l’uomo immortale: dopo il peccato la vita umana fu, come dice sant’Agostino, “un correre verso la morte[7].

Eppure Dio, dal male fisico e morale che permette, sa trarre un bene superiore a questo male, per quanto grave esso sia.

Il male morale, ad esempio, è un’offesa alla suprema autorità di Dio, è una violazione della sua legge, ma Dio lo trasforma in una proclamazione del bene. Non ci sarebbero le splendide affermazioni delle verità della fede, senza le negazioni degli eretici e degli empi, così come non ci sarebbe l’eroismo dei martiri senza la crudeltà dei persecutori. Per questo sant’Agostino dice che i cattivi hanno il potere di peccare, ma non hanno quello di assicurare al loro peccato i fini che si sono proposti[8].

Per quanto riguarda i mali fisici, la loro ragione ultima è riassunta da una frase di san Tommaso: “I mali che ci assillano in questo mondo ci costringono ad andare a Dio[9]. Il male, il dolore, la sofferenza, spesso aprono gli occhi agli uomini e li conducono a Dio. Il male fisico, pur non dipendendo dall’uomo come il male morale, come esso è permesso da Dio per un bene più alto. Per questo dobbiamo convincerci che tutto ciò che non dipende dalla nostra volontà dipende dalla Volontà di Dio, a cui dobbiamo uniformarci.

Al male fisico nessun uomo può sottrarsi. Ad esso non è neppure sfuggito Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, che pur non avendo commesso alcun male, ha voluto soffrire tutte le conseguenze del male compiuto dagli uomini, incarnandosi per redimerci.

Il mistero dell’amore del Redentore si accompagna al mistero del male degli uomini. È un mistero, che la ragione fatica a comprendere, quello dell’immenso amore che porta Dio, dopo averci creato, ad assumere su di sé le pene dei nostri peccati, a soffrire realmente le pene più atroci per salvarci e renderci felici. Ed è un mistero che la mente fatica a comprendere, la follia degli uomini che chiudono gli occhi di fronte all’evidenza dell’amore di Dio per scegliere liberamente di odiarlo e di essere infelici, nel tempo e nell’eternità. Esiste per gli uomini, alla fine del tempo, un’eternità felice nel Paradiso e un’eternità infelice nell’Inferno, perché Dio, non solo è Provvidente, ma è anche infinitamente giusto e la retribuzione dei meriti o dei demeriti delle creature libere è espressione della sua giustizia.

Dio è buono, Dio è amore, afferma chi rifiuta l’idea di una giustizia infinita. Ma Gesù nel suo ultimo discorso agli Apostoli dice loro: “Se mi amate osservate i miei comandamenti” (Gv. 15, 21). Chi ama Dio, osserva la sua legge. Non c’è vero amore al di fuori dell’osservanza della legge divina e naturale, perché chi ama fa la volontà dell’amato e la volontà di Dio è espressa innanzitutto nella legge che Egli ha dato agli uomini e che la Chiesa conserva. Bontà di Dio, misericordia di Dio e giustizia di Dio sono dunque inscindibili. Dio, trattandoci con giustizia, ci ama e amandoci ci tratta con giustizia. Giustizia e misericordia sono perfezioni divine che in Dio non si possono separare. I peccati degli uomini cadono sotto la giustizia di Dio, ma non c’è nessun peccato che supera la Sua misericordia. Tutti i peccati immaginabili degli uomini, paragonati alla misericordia divina, sono come una goccia d’acqua paragonato a un oceano infinito. La parabola del Figliuol prodigo, che san Luca riporta nel suo Vangelo (15, 11-32), è il poema di questa misericordia del Signore. Ma il Figliuol prodigo è perdonato dal Padre perché si è pentito del suo peccato. Il Dio che punisce è anche il Dio che perdona, ma il perdono misericordioso, se cancella la pena, non cancella la gravità della colpa. Dio ha una misericordia infinita per il peccatore, ma un odio altrettanto ardente verso il peccato. A Santa Faustina Kowalska, l’apostola della Divina Misericodia, Gesù apparve ricordandole che la sua Misericordia non ha limiti, abbraccia e perdona ogni peccatore, ma Egli ha orrore del più piccolo peccato. “Dì ai peccatori che nessuno sfuggirà alle mie mani. Se fuggono davanti al mio Cuore misericordioso, cadranno nelle mani della mia giustizia[10].

La misericordia infinita di Dio ci accompagna fino al momento della nostra morte, ma quando quel momento giunge, suona irrimediabilmente per l’anima l’ora della giustizia. La Provvidenza è lo svolgersi di un disegno divino, infinitamente misericordioso, nel tempo e nello spazio creato. Ma se Dio, attraverso i disegni della Divina Provvidenza, esercita la sua misericordia nel tempo, esercita poi la sua Giustizia nell’eternità, perché Egli, Creatore e Signore del cielo e della terra, è anche Giudice supremo e infallibile: nel giorno del giudizio, secondo il nostro Credo, Egli “verrà a giudicare i vivi e i morti”.

Dio ci giudicherà perché è giusto. Nel messaggio cristiano l’attesa del Giudizio universale è una verità fondamentale. Se il giudizio particolare, quello che ci attende al momento della morte, sarà un fatto invisibile ed intimo tra l’anima e Dio, il giudizio universale sarà visibile a tutti. Cristo, che fu giudicato dal mondo, siederà come giudice del mondo. Tutti i disegni e le opere di Dio saranno rivelati e il mondo conoscerà le opere di ciascuno. “Allora – dice il Vangelo – il Re dirà a quelli che saranno alla sua destra: ‘Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo’ e poi dirà a quelli che saranno alla sua sinistra: ‘Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli’” (Mt. 25, 31-46).

Sarà questa la pena più terribile per i dannati: ero libero; Dio mi chiamava, Dio sussurrava al mio cuore, Dio mi invitava a un banchetto di amore e io scientemente, deliberatamente, ho risposto di no, ho anteposto al banchetto di amore eterno l’effimero banchetto dei piaceri e degli onori del mondo. Ho preferito tuffarmi nell’amaro godimento di un attimo e ho rifiutato la felicità che il Signore aveva preparato per me nell’eternità. Sono io, quell’io di cui mi ero tanto gonfiato, quell’io che avevo posto al centro di tutto, la causa delle mie sofferenze eterne, della mia eterna infelicità. E ormai è troppo tardi. Fosse possibile tornare indietro, si lamenterà il dannato, fosse possibile lanciarsi nelle braccia del Dio di amore e di misericordia che mi attendeva. Troppo tardi. È finito il tempo della misericordia, è suonata l’ora dell’eterna Giustizia. Dio è infinitamente misericordioso e me lo ha mostrato in ogni modo, nella mia vita; ma è anche infinitamente giusto e l’Inferno e il peccato sono la prova della sua Giustizia. Se non esistesse l’Inferno, se non esistesse il Paradiso, Dio non sarebbe giusto, ma se non fosse giusto non sarebbe neppure misericordioso e se non fosse infinitamente giusto e misericordioso come è, non sarebbe Dio. Dio invece è, uguale a se stesso nell’eternità. Egli è, è sempre stato e sempre sarà, e i cieli e la terra, il Paradiso e l’Inferno cantano la sua gloria.

Fu quello che annunciò san Paolo all’Areopago di Atene, circondato dai dotti e dagli scienziati del suo tempo. Dio, disse l’Apostolo, “ha fissato un giorno nel quale con giustizia giudicherà il mondo; per questo egli ha stabilito un uomo, accreditandolo col farlo risorgere dai morti. Quando gli uditori sentirono parlare di resurrezione di morti, cominciarono a prenderlo in giro, altri invece gli dissero semplicemente: su questo argomenti ti ascolteremo un’altra volta” (Atti, 17, 31, sgg.).

Il pensiero del giudizio universale deve accompagnare la nostra vita. Dio esiste, Dio ci ha creato, a Lui dovremmo rendere conto di ogni parola, azione, in una parola della nostra vita che Lui ci ha donato e che solo a Lui appartiene. Lo stolto che si proclama ateo non nega Dio, ma nega il Dio che giudica, perché, supponendolo assente, pensa di poter peccare più impunemente, di poter emancipare la propria volontà da ogni legge. Ma l’alternativa a Dio, l’esito inesorabile dell’ateismo, teorico e pratico, è il nichilismo: tutto finisce nel nulla, tutto inizia dal nulla, tutto è nulla, dal nulla le cose emergono e nel nulla sprofondano. E se tutto è nulla non c’è ragione che guidi la vita e l’universo. Tutto è solo delirio, voragine, “abisso orrendo, immenso”, come scrive Giacomo Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma il nulla non esiste: esiste invece l’eternità.

L’uomo ha un’anima immortale e un destino ultraterreno: se rifiuta la misericordia di Dio nel tempo, conoscerà la sua giustizia nell’eternità. Il tempo è l’ora della misericordia, l’eternità è l’ora della giustizia. Per questo i castighi nell’eternità sono atti di giustizia inappellabili e conclusivi, mentre i castighi nel tempo sono atti di misericordia verso gli uomini o i popoli per chiamarli attraverso il pentimento alla felicità cui sono destinati.

II Parte: la Divina Provvidenza e i castighi divini

Tutto è Divina Provvidenza significa che nulla accade senza che da Dio sia voluto o permesso: “Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati”, dice Gesù (Lc, 12, 7). Il detto popolare lo riassume in queste parole “Non si muove foglia che Dio non voglia”. Ma se non si muove foglia che Dio non voglia, perché ogni movimento pur minimo dell’universo è voluto o permesso da Dio e ha quindi una sua ragione, che cosa pensare quando a scuotersi non è una foglia, ma la terra stessa?

Sempre nell’animo umano i terremoti e le catastrofi naturali furono considerate voci di Dio. Ciò non contrasta col fatto che esiste una spiegazione scientifica dei fenomeni naturali. I terremoti seguono le leggi della natura, che lo scienziato deve indagare, ma l’autore della natura e delle sue leggi è Dio, che mantiene il perfetto equilibrio dell’ordine fisico naturale e permette talvolta che quest’equilibrio sia sospeso per i suoi misteriosi disegni, ma sempre per una ragione.

Terremoti, epidemie, guerre, sconvolgimenti storici e naturali di ogni genere hanno accompagnato fin dalle origini la vita dell’uomo e sempre l’uomo vi ha visto la mano di Dio, interpretandole spesso come castighi per l’umanità. Le sofferenze dei singoli, quando non sono volute, ma subite, non sono castighi, ma purificazioni volute per il bene delle anime. Ma la teologia cristiana della storia insegna che quando è un popolo a soffrire una grande catastrofe si tratta spesso, anche se non necessariamente, di un castigo, che serve a scontare i suoi peccati pubblici.

Le sciagure collettive non sono permesse da Dio solo per scontare i nostri peccati sociali, ma anche per ricordarci la nostra precarietà e per sollevare il nostro sguardo verso il cielo, o per purificarci attraverso la sofferenza, ma sempre per ottenere un bene maggiore alle anime; tra questi beni ci può essere anche lo slancio di solidarietà tra i sopravvissuti, l’abnegazione e la generosità dei soccorritori e di coloro che aiutano le vittime con preghiere, sacrifici personali e aiuti materiali o spirituali.

Nel corso degli eventi storici, come nella vita degli uomini, la giustizia di Dio non è mai separata dalla sua misericordia. La collina del Calvario è il luogo e il momento in cui l’opera della creazione trovò il suo compimento e l’Amore di Dio per gli uomini raggiunse il suo apice. Ma il supremo atto di amore di Gesù fu accompagnato da un terremoto che scosse tutta la terra, come per dimostrare l’orrore della natura per il delitto compiuto. Quando Gesù, gettando un alto grido, rese il suo spirito, “la terra tremò e le pietre si spezzarono” (Mt. 27, 51) e il centurione e quelli che erano con lui, ricorda Matteo, “visto il terremoto e ciò che accadeva, ebbero gran timore e dicevano: ‘Costui veramente era il Figlio di Dio’” (Mt. 27, 55).

Nel terremoto il centurione Longino vide la mano di Dio e, intimorito, proclamò la Divinità di Cristo. Quando la terra trema gli uomini sono presi anch’essi da tremore, che è l’inizio della Sapienza, e volgono lo sguardo a Dio. Quando la terra trema, il grido che si leva dai nostri cuori dovrebbe essere quello del centurione: Dio esiste e noi lo abbiamo colpito. Il terremoto convertì Longino che proclamò la divinità di Cristo. Le catastrofi non toccheranno le nostre menti e i nostri cuori?

I terremoti non sono le uniche catastrofi della storia: sono le più eccezionali. Castighi di Dio, sono stati considerati le guerre e le rivoluzioni; la fame, dovuta a siccità e carestia; le epidemie, come la peste, che hanno afflitto la storia. A fame, peste et bello libera nos Domine: è l’invocazione liturgica che nel corso dei secoli si è ripetuta nelle Rogazioni, ovvero nelle processioni indette dalla Chiesa per implorare l’aiuto del cielo contro le calamità. Una processione di questo genere fu promossa a Roma dal Papa san Gregorio Magno, nell’anno 590, all’indomani della sua elezione al pontificato, in un momento in cui la città di Roma era colpita da una terribile peste. La processione guidata dal Pontefice si snodò nella Città Santa e, secondo la tradizione, quando giunse davanti alla Mole Adriana, oggi Castel Sant’Angelo, fu visto nel cielo un Angelo rimettere nel fodero una spada insanguinata, come segno della cessazione dell’immane flagello. Fu in quest’occasione che sarebbe nata l’antifona Regina coeli Laetare alleluia, cantata dagli angeli, a cui san Gregorio rispose con la sua voce. Molti considereranno ciò una pia leggenda, ma l’Angelo con la spada ancora si staglia su Castel Sant’Angelo, imprimendo il suo monito nella memoria collettiva degli uomini.

Dio, Causa prima, si serve degli angeli, come cause seconde. San Tommaso afferma che “tutte le cose fisiche sono governate dagli angeli[11]. Ciò significa che gli angeli governano tutto ciò che è compreso nell’universo, dal microcosmo degli atomi all’immenso mondo degli astri. Ciò non è anti-scientifico. Il linguaggio della fede e della metafisica non nega il ragionamento della scienza, ma lo oltrepassa. Ed è in questa prospettiva metafisica e soprannaturale che l’uomo di scienza cattolico deve cercare di comprendere le catastrofi, anche recenti, che affliggono l’umanità. Pensiamo ad esempio al terremoto di Messina, analogo a quello del Giappone per le sue tragiche conseguenze.

All’alba del 28 dicembre 1908, una violentissima scossa di terremoto, di non più di trenta secondi, ma del decimo grado della scala Mercalli, seguita da un terribile maremoto, distrusse la città siciliana e si estese alle coste calabre. Le vittime furono oltre 80.000. Messina venne ridotta a un cumulo di macerie. L’Italia e il mondo rimasero sgomenti di fronte alla portata della catastrofe. Si creò immediatamente una catena di solidarietà per portare aiuto ai sopravvissuti. Tra coloro che più si prodigarono per aiutare le vittime sono scritti a lettere d’oro i nomi di due sacerdoti, poi canonizzati dalla Chiesa: don Luigi Orione e padre Annibale Maria Di Francia.

Padre Annibale Di Francia, fondatore dei Rogazionisti e delle Figlie del Divin Zelo, era un uomo del Sud, nato a Messina nel 1851, che dedicò tutta la sua vita a rispondere all’appello del Signore secondo cui “La messe è abbondante, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Padrone della messe, perché mandi operai alla sua vigna” (Mt. 9, 38). Don Luigi Orione, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza, era un uomo del Nord, nato nel 1872 a Tortona, e dedicò tutta la sua vita, come Annibale Di Francia, a un generoso apostolato per portare soccorso spirituale e materiale alle anime, in nome della Divina Provvidenza.

Padre Annibale aveva proprio a Messina la sua base di apostolato, in un quartiere chiamato Avignone, dove aveva raccolto centinaia di orfanelli, Quando scoppiò il terremoto, tutto a Messina crollò, tranne le povere case del quartiere Avignone, dove tutti gli orfanelli di padre Di Francia rimasero illesi. E quando il 14 gennaio 1909, don Orione giunse a Messina, aprendosi un varco tra i ruderi e le voragini della città distrutta, fece proprio del quartiere Avignone, l’unico ancora parzialmente in piedi, quello che fu chiamato il “Quartiere generale della carità”. Fu allora che don Orione, nominato vicario generale della Diocesi, conobbe padre Di Francia e tra i due sacerdoti si strinse un’indissolubile amicizia cementata, nello spazio di tre anni, dalle preghiere e dalle fatiche che li logorarono. Padre Di Francia morì il 1 giugno del 1927; don Orione lo raggiunse in Paradiso il 12 marzo del 1940. Entrambi furono iscritti nell’albo dei santi da Giovanni Paolo II.

Questi due sacerdoti, che nessuno oserebbe accusare di mancanza di cuore o di carità, erano convinti che il terremoto di Messina fosse stato un castigo divino. Nella mattina di domenica del 27 dicembre 1908 erano apparse nella città strisce con la scritta “Gesù Cristo non è mai esistito”, e per dimostrare l’empia affermazione, alla sera, in un pubblico dibattito era seguita una processione blasfema che era giunta fino alla spiaggia: un crocifisso era stato buttato a mare tra lazzi e oscenità, mentre il circolo Giordano Bruno si riuniva per decretare la distruzione della religione in Messina. Sempre quella domenica, 27 dicembre 1908, sul giornale satirico “Il Telefono” si poteva leggere una parodia di Natale con l’invocazione a Gesù Bambino, rimasta tristemente famosa:

O Bambinello mio – vero uomo e vero Dio – per amor della tua croce – fa sentir la nostra voce – Tu che sai, che non sei ignoto – manda a tutti un terremoto”.

Poche ore dopo Messina era rasa al suolo. Non era stata distrutta la religione, ma la città. La poesia sacrilega, all’indomani del terremoto, fu fatta diffondere da don Orione, mentre tutti i messinesi ricordavano come in una predica fatta in cattedrale, il 16 novembre 1905, sant’Annibale Maria Di Francia avesse preannunziato il terremoto con queste impressionanti parole, che propongo alla vostra meditazione:

Senza mezzi termini, senza reticenze e timori, io vi dico, o miei concittadini, che Messina è sotto la minaccia dei castighi di Dio: essa non è meno colpevole di tante altre città del mondo che sono state distrutte o dal fuoco o dalle guerre o dai terremoti: deve dunque aspettarsi da un momento all’altro di subire anch’essa la stessa sorte… Ecco il terribile argomento del mio lacrimevole discorso. Io comincio da farvi una enumerazione di tutti quei motivi pei quali i castighi del Signore su questa città appariscono alla mia atterrita fantasia quasi inevitabili.

1° Il primo motivo è che i nostri peccati reclamano i castighi di Dio. Presso di noi “peccato” è una parola di poco peso. Lo commettiamo con la massima facilità, ci abituiamo assai naturalmente, arriviamo a bere l’iniquità come acqua e con l’anima piena di peccati e di delitti ridiamo, scherziamo, dormiamo e pensiamo ad acquistarci il ben vivere per peccare ancora di più. Se qualche volta ci pentiamo, è un pentimento superficiale e momentaneo: ben presto si torna al vomito. Leggiamo la Sacra Scrittura, interroghiamo la storia di tutti i secoli, e noi troviamo che Dio punisce non solo nell’altra vita, ma anche in questa. Diluvi sterminatori, terremoti distruttori, guerre, epidemie devastatrici, carestie, siccità, mali sempre nuovi e incogniti: tutto dimostra che Iddio castiga severamente i peccati anche in questa vita. Messina ha peccati?

O miei concittadini, rispondetelo voi! Qui la bestemmia regna sovrana. Qui l’indifferentismo religioso non è poco; qui l’usura, il furto, gli omicidi apertamente, per strada, di giorno. Qui la cattiva stampa. Qui gl’insegnanti atei, le superstizioni sono all’ordine del giorno.

Vi è lo spiritismo, vi sono le magherie, vi sono i sortilegi. In Messina vi è la disonestà divenuta abitudine; vi è l’avarizia e la durezza del cuore per cui si lasciano perire i poveri e il danaro si spende piuttosto nel lusso. Tutti questi peccati gridano al Signore: “Signore, affrettati punisci!”.

2° Un secondo motivo per cui dobbiamo ritenere per certi i castighi di Dio, è che tante altre città a noi vicine hanno già avuto questi castighi, appunto perché avevano i nostri stessi peccati. Ora, se Dio punì quelle città che avevano questi stessi peccati, perché non punirà anche noi? Dio è giusto.

3° I castighi di Dio verranno su di noi perché abbiamo avuto diversi avvisi e non ne abbiamo fatto caso. Undici anni or sono, la terra ci tremò sotto i piedi. Dopo 4 anni, il 1898, terremoti: minore fervore. Finalmente 40 giorni fa terremoti. Che si fece? Nulla! Il popolo, le famiglie rimasero indifferenti! Ci siamo abituati. Ci sembra che godiamo d’un privilegio d’immunità presso Dio e che possiamo peccare a nostro bell’agio. Ah, non è così! Tutti questi replicati avvisi non sono che i lampi e i tuoni precursori dell’imminente scoppio dell’uragano!

4° La nostra storia, fin dall’origine, ci accerta che Messina, quando in un’epoca quando in un’altra, è stata visitata sempre dal divino flagello. Il passato insegna l’avvenire. Se Iddio per tanti secoli ha fatto così con questa città, perché deve mutare adesso la sua condotta?

E qui non posso nascondervi, fratelli miei, che appunto il terremoto è il flagello col quale io temo che il Signore voglia punirci. Diverse ragioni di ciò mi persuadono:

1° In primo luogo, regna in Messina tale indifferentismo, tale acquiescenza col peccato, tale noncuranza dei castighi di Dio, che abbiamo bisogno di essere scossi: abbiamo bisogno di un castigo che ci scuota, che ci atterrisca, che ci risvegli! E tale è il terremoto, quando è veramente forte sterminatore!

2° Questo è il flagello che pare abbia preso Iddio attualmente nelle sue mani: questo flagello ha fatto rumoreggiare. E le minacce che ci ha fatte non sono state minacce di guerra ma di terremoti!

3° Perché il terremoto per quanto è terribile ha però questo di buono, che apporta una conversione generale! È un gran missionario. Si resiste alle prediche. Ma quando ci sentiamo tremare[12].

Il terremoto, afferma sant’Annibale Maria Di Francia, è un gran missionario. Queste parole sono troppo dure? Queste parole sono prive di carità e di pietà? Sono le parole di un uomo che dedicò la sua vita ai poveri e agli afflitti, l’uomo più santo che viveva a Messina, tanto che don Orione, scavando tra le rovine, ripeteva una frase rimasta nella memoria collettiva: “Ma voi sapete quale grande santo avete in Messina?”. Questo santo era il padre Annibale Di Francia, che nel 1905 aveva preannunciato ai suoi concittadini la distruzione della città, come punizione dei loro peccati. Quest’uomo, Annibale Di Francia, è stato canonizzato da Giovanni Paolo II, il 16 maggio 2004.

Questo è il linguaggio dei santi, rifiutato dai tiepidi, dai pavidi, da coloro che si fanno un’immagine di Dio a loro uso e piacere, coloro che rifiutano il Dio giusto e non si rendono conto che con ciò rifiutano anche il Dio misericordioso.

Non stiamo ricordando il linguaggio dell’Antico Testamento e neppure le parole profetiche di santi medievali come san Vincenzo Ferreri che, nelle sue prediche in cui annunciava castighi per l’umanità, si proclamava l’Angelo dell’Apocalisse. Parliamo di santi del ventesimo secolo, di apostoli della carità, come san Luigi Orione e sant’Annibale Maria Di Francia. Ma anche il Beato Giovanni XXIII, il Papa Buono, il 28 dicembre del 1958, commemorando il cinquantesimo anniversario del terremoto di Messina, inviò un radiomessaggio “Ai diletti figli della città di Messina”, in cui, dopo avere invitato i messinesi a sperare sempre nel materno patrocinio della Madre di Dio, diceva:

Bisogna però che la speranza vostra non sia presunzione; bisogna cioè che voi, accogliendo il consiglio che Ella dava alle nozze di Cana, facciate tutto ciò che Gesù vi dice (cfr. lo, 2, 5). Egli vi dice di fuggire il peccato, causa principale dei grandi castighi, di amare Dio al di sopra di tutte le cose, di riporre in Lui solo la vostra speranza e la vostra difesa contro le calamità”; e, aggiungeva: “in quest’ora tremenda in cui lo spirito del male adopera ogni mezzo per distruggere il Regno di Dio, debbono essere impegnate tutte le energie per difenderlo, se volete evitare alla vostra città rovine immensamente più grandi di quelle materiali disseminate dal terremoto cinquant’anni orsono”.

C’è un rapporto dunque tra le rovine materiali e quelle spirituali che colpiscono le città e i popoli. Lo manifestava il Signore a santa Faustina Kowalska[13], annunciandole il castigo di una città, Varsavia, per i peccati che in essa si commettevano, soprattutto l’aborto, che è l’uccisione dell’innocente inerme nel grembo della madre. Varsavia fu distrutta durante la Seconda guerra mondiale. E Papa Giovanni Paolo II, devoto di santa Faustina, che alla Divina Misericordia dedicò una delle sue prime encicliche, la Dives in Misericordia (1980), in un’altra enciclica, la Evangelium Vitae, condannando l’aborto, ricorda che “Dio non può lasciare impunito il delitto” (n. 9) e “dopo il delitto Dio interviene a vendicare l’ucciso” (n. 8). Queste parole di Papa Wojtyla non nascono da ira, ma esplicitano un concetto che appartiene alla tradizione cattolica. È lo stesso Giovanni Paolo II a spiegare che da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” e vi ha incluso, anzitutto, l’omicidio volontario, che oggi si rinnova negli innumerevoli aborti commessi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto nel mondo.

Giovanni Paolo II ricorda l’esistenza di peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio e il Nuovo Catechismo della Chiesa cattolica ribadisce quali sono questi peccati: “Gridano verso il cielo: il sangue di Abele; il peccato dei sodomiti; il lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova e dell’orfano; l’ingiustizia verso il salariato[14].

Giovanni Paolo II, il Papa che parla dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio è anche il Papa della Dives in Misericordia. C’è contraddizione in questo? No, perché Dio è infinitamente misericordioso, ma è giusto, come ribadisce Giovanni Paolo II, quando dice che l’aborto, come la sodomia, è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio.

Sappiamo come Dio punì il peccato di Sodoma e Gomorra: con la distruzione di quelle città. Qualcuno dirà che si trattava del Dio del Vecchio Testamento, mentre col Nuovo, Gesù è venuto a portare l’amore. Ma Gesù, nel Nuovo Testamento, ammonisce severamente le città che rifiutano la sua predicazione: Corazin, Betsaida, Cafarnao, e le considera più colpevoli della stessa Sodoma dicendo loro che “alla terra di Sodoma sarà usato minor rigore nel giorno del giudizio” (Mt,11, 24) e a Cafarnao dice: “Sarai abbassata fino all’inferno. Poiché se in Sodoma fossero stati operati i miracoli che sono stati compiuti in te, essa sarebbe rimasta fino a questo giorno” (Mt. 11, 23).

Che cosa pensare di una società, come quella contemporanea, che ha fatto dell’omicidio volontario e del peccato di Sodoma la regola pubblica e sociale?

Per l’intima solidarietà che lega tra loro gli uomini e le generazioni, il male ha infatti, come il bene, una profonda ripercussione sulla società. Nella Esortazione Reconciliatio et poenitentia, del 2 dicembre 1984, Giovanni Paolo II ha ancora affermato che “non c’è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette”. Il peccato è “sociale” perché “ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana”.

Sul piano individuale, la conseguenza del peccato è la morte dell’anima, ossia la perdita della vita eterna; sul piano pubblico, la sua conseguenza è la disgregazione dei legami sociali, che equivale alla morte dei popoli e delle nazioni.

Nell’omelia tenuta il 2 ottobre 2005 per l’apertura del Sinodo dei Vescovi, Benedetto XVI, commentando la parabola evangelica dei vignaioli che uccidono i messaggeri e il Figlio stesso del padrone (Mt. 21, 23-42; Mc. 12, 1-18; Lc. 20, 1-17), ha affermato che quando l’uomo rifiuta Dio e “si fa unico padrone del mondo e proprietario di se stesso”, crea una società senza giustizia, dominata “dall’arbitrio del potere e degli interessi”: “la vigna ben presto si trasforma in un terreno incolto calpestato dai cinghiali”. Secondo il Papa, in conseguenza del rifiuto di Dio, la minaccia del giudizio divino incombe sulla “Chiesa in Europa, sull’Europa e sull’Occidente in generale”, come avvenne per la distruzione di Gerusalemme. Il Signore grida oggi nelle nostre orecchie le parole che nell’Apocalisse rivolse alla Chiesa di Efeso: “Se non ti ravvedrai verrò da te e rimuoverò il candelabro dal suo posto” (2, 5). “Anche a noi – continua il Pontefice – può essere tolta la luce e facciamo bene se lasciamo risuonare questo monito in tutta la sua serietà nella nostra anima, gridando allo stesso tempo”.

Benedetto XVI non esita a pronunciare la parole castigo, riferendola alle nazioni e alla Chiesa stessa. “Se guardiamo la storia, siamo costretti a registrare non di rado la freddezza e la ribellione di cristiani incoerenti. In conseguenza di ciò, Dio, pur non venendo mai meno alla sua promessa di salvezza, ha dovuto spesso ricorrere al castigo. E’ spontaneo pensare, in questo contesto, al primo annuncio del Vangelo, da cui scaturirono comunità cristiane inizialmente fiorenti, che sono poi scomparse e sono oggi ricordate solo nei libri di storia. Non potrebbe avvenire la stessa cosa in questa nostra epoca? Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni ora vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza deleteria e distruttiva di una certa cultura moderna”.

Queste nazioni, dice il Papa, potrebbero essere castigate, come accadde alle comunità cristiane un tempo fiorenti e oggi dimenticate. Accadde a Cartagine, devastata dai Vandali e poi sommersa dall’Islam. Il Cristianesimo fu cancellato da quella terra. E cosa attende le nazioni europee che iscrivono i vizi di Cartagine nelle loro leggi? “Non potrebbe avvenire la stessa cosa in questa nostra epoca”. Questa domanda drammatica di Benedetto XVI interpella ognuno di noi.

La teologia della storia cristiana oggi è spesso ignorata o accantonata, ma Gesù Cristo continua a restare al centro della storia e a costituire il metro di giudizio di tutto quanto nella storia accade. E a questo metro di giudizio, coerentemente rifiutato dagli atei, i credenti non possono rinunciare.

La prospettiva di un grande castigo per l’umanità, se non si fosse convertita, costituisce il nucleo del “segreto” di Fatima del 1917. Nelle parole di Benedetto XVI risuona l’eco di quel messaggio che proprio l’allora cardinale Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Fede, presentò e commentò il 26 giugno del 2000. Il cosiddetto segreto di Fatima consta di due visioni: la prima è la terribile visione dell’inferno, il castigo individuale dei peccatori. Nella seconda visione un Angelo, con una spada di fuoco nella mano sinistra, indica con la mano destra la terra, ripetendo per tre volte con voce forte la parola “Penitenza”, mentre il Papa, vescovi e sacerdoti, religiosi e religiose, laici, uomini e donne, cadono colpiti a morte ai piedi di una grande croce che si leva su una montagna.

Mentre mostra loro queste drammatiche visioni, la Madonna avverte i tre pastorelli di Fatima che “Dio sta per castigare il mondo per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre (…) i buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Infine il mio Cuore Immacolato trionferà”.

Il Messaggio di Fatima, ufficialmente divulgato dalla Santa Sede, ci ricorda come la spada di Damocle di un terribile castigo incombe sull’umanità. La parola chiave di questo segreto, secondo Benedetto XVI, è il forte appello alla penitenza rivolto al mondo e alla Chiesa. Nel suo celebreRapporto sulla fede, il cardinale Ratzinger, affermò che da Fatima “è stato lanciato un segnale severo che va contro la faciloneria imperante, un richiamo alla serietà della vita e della storia, ai pericoli che incombono sull’umanità. E’ quanto Gesù stesso ricorda assai spesso non temendo di dire: “Se non vi convertite tutti perirete”(Lc. 13,3 )”. Il Papa cita quel passo del Vangelo di Luca in cui, rivolgendosi agli abitanti di Gerusalemme, Gesù dice: “Se non vi convertirete tutti perirete. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?”. Dio infatti è misericordioso, ma il suo perdono è condizionato al ravvedimento, e se manca il pentimento e la penitenza, il castigo è logico e necessario. Il castigo di una città o di un popolo coinvolge, certo, anche degli innocenti, ma nessuno può dirsi interamente innocente e la morte è comunque, prima o poi, il destino di ogni mortale.

Chi ama Dio, deve amare anche la sua giustizia e non solo la sua misericordia. E chi non teme i castighi di Dio è un insipiente, perché è privo di quel timore di Dio che è l’inizio della sapienza. Oggi si ha timore del mondo, ci si piega alle leggi del mondo, ma non si ha timor di Dio, si nega o si ignora la legge di Dio. Ma per gli uomini che, come noi, vivono nel tempo, l’ultima parola di Dio non è quella della giustizia, è quella della misericordia. Per questo sant’Agostino con una delle sue formule folgoranti dice: “Avete paura di Dio? Salvatevi tra le sue braccia”. Io aggiungo: “Avete paura dei castighi che aspettano il mondo? Salvatevi in Dio tra le braccia di Maria”. Chi ha fiducia in Lei, si salverà.

È la Madonna stessa che ci invita a rifugiarci nelle sue braccia con quelle parole piene di misericordia e di speranza che dissipano ogni timore: “Infine il mio Cuore Immacolato trionferà”.


[1] Denz-H n. 800.

[2] Confessioni, XI, 46.

[3] Dante, Paradiso, XXIX, 13-18.

[4] Summa Theologica, I, q. 103. a. 1.

[5] Summa Theologica, I, q. 22, a. 5.

[6] Conc. Vat. I, sess. III. Cap. I.

[7] De Civitate Dei, 13, 10.

[8] De praedestinatione sanctorum, II, 16.

[9] Summa Theologica, I, q. 21 a. 4 ad 3.

[10] Santa Maria Faustina Kowalska, Diario. La Misericordia divina nella mia anima, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 567.

[11] Summa Theologica, I, q. 110, a. 1.

[12] Appunti di predica, 15 novembre 1905, in Scritti, vol. 55, doc. 2005.

[13] Santa Maria Faustina Kowalska, Diario, cit., p. 23.

[14] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1867.

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