José Borjés, martire controrivoluzionario  –  di Domenico Rosa

Il nostro amico e collaboratore Domenico Rosa, attualmente seminarista presso i Missionari del Sacro Cuore di Gesù, non potendo partecipare al raduno della Tradizione a Civitella del Tronto, ha voluto tuttavia contribuire con questo bell’articolo sul generale José Borjés, preceduto da una breve lettera rivolta a tutti i lettori. Vi invitiamo anche a leggere sul Sito di Firenze l’intervista a lui rilasciata da Pucci Cipriani, organizzatore del Raduno della “Fedelissima”. Grazie Domenico, ti siamo vicini con la preghiera e ti auguriamo ogni bene in Nostro Signore.

PD

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Cari amici,

la mia nuova vita nella famiglia religiosa dei Missionari del Sacro Cuore di Gesù mi impedisce di essere con voi a Civitella del Tronto. Su quella rocca inespugnabile dove come gli amanuensi ogni anno ci siamo raccolti per resistere al mondo e ai suoi mali. Tanti ricordi affiorano in me in questo momento nel pensare alle passate edizioni dove la preghiera e l’amicizia ci hanno unito in Cristo. Anche se assente sarò con voi e vi porterò tutti nel mio cuore. In modo particolare rivolgo un saluto affettuoso a Pucci Cipriani, animatore e anima dei convegni sulla Tradizione, che fece conoscere a me, abruzzese di Quadri, paese nell’entroterra abruzzese, quelle meravigliose pagine di Storia. Pertanto cerco di contribuire anch’io all’Incontro della “Fedelissima” con questo scritto sul Martire Borjes. Nel salutarvi vi chiedo una preghiera per il mio cammino, io farò lo stesso.

 Domenico 

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José Borjés, martire controrivoluzionario

di Domenico Rosa

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zzjbrgsI destini di un valoroso condottiero spagnolo si incrociano con quelli di una parte di italiani per nulla disposti a finire sotto un nuovo regno che li considererà sempre di serie B e da emancipare anziché capire le loro peculiarità. Il periodo storico in cui si inquadra la vicenda è quello postunitario, quando legittimisti francesi e napoletani, nella vana speranza di coordinare i moti antiunitari, contattarono Don José Borjés, antico ‘cabecilla’ (condottiero). Nato nel 1813 a Vernet, piccolo villaggio catalano, fu per tutta la vita consapevole e protagonista. Figlio di un militare legittimista, crebbe nel clima e nel ricordo della gloriosa insurrezione del popolo spagnolo contro le armate napoleoniche. Eroico combattente nelle guerre carliste di Spagna, fedele al motto “Por Dios, la Patria y el Rey”, non ebbe esitazioni a schierarsi con la causa lealista del Regno delle Due Sicilie, recandosi in Italia Meridionale per iniziare i combattimenti.

Borjés partì con tante promesse ma con soli venti uomini e poco più di venti fucili, a differenza dell’eroe Garibaldi che, come scrive il De Sivo “andò con mille da sicuro porto in sicuro mare, sorretto da mezza Italia, da Francia e Inghilterra, con oro massonico con la già compra flotta avversa, e co’ preparati i tradimenti militari”.

L’Italia Meridionale, non del tutto riavutasi dagli eventi del 1799 e del 1806, era finita sotto il tallone sabaudo. Vittorio Emanuele e ancor più il machiavellico Cavour, misero in atto un vera e propria guerra di conquista. Quello che loro chiamavano Risorgimento fu in realtà solo ed esclusivamente l’ampliamento del Regno di Sardegna. I Savoia misero a disposizione la forza militare, strumentalizzando a loro esclusivo vantaggio, l’ideale unitario e gli uomini che lo perseguivano. Con la loro aggressione agli altri stati preunitari, calpestarono il diritto internazionale e condussero guerre senza mai dichiararle.

Il Meridione non aveva nessuna intenzione di unirsi agli altri stati preunitari e manifestò questo suo dissenso con una rivolta decennale, contraddicendo i plebisciti-farsa definiti dai conquistatori “suffragio unanime”. I Piemontesi, dal canto loro, nel 1863, proclamarono lo stato d’assedio, con la famigerata “Legge Pica”, che prevedeva la fucilazione immediata per chiunque venisse trovato in possesso di un’arma da fuoco; allo stesso modo sulla base di un mero pettegolezzo si inviavano al domicilio coatto donne, vecchi e bambini. Il tessuto di sicurezza sociale, rappresentato dalle opere pie venne smantellato, la vendita delle terre demaniali incamerate dai liberali, lasciò i contadini senza più gli usi civici: pascolo degli animali, taglio della legna, raccolta di bacche.

Lo statuto, le leggi civili, penali e l’organizzazione burocratica ed amministrativa furono estesi immediatamente a tutta l’Italia, pur non essendo le migliori in assoluto ed in tutto i campi. Alle opere pie che assicuravano al popolo i tradizionali aiuti, subentrarono istituti sconosciuti nell’ex Regno delle Due Sicilie: la leva obbligatoria per tutti i giovani, la tassa sul macinato (un sistema spietato di raccolta delle imposte sempre crescenti); il monopolio sul sale e sul tabacco, cioè su due tra i pochissimi generi che i contadini non producevano in proprio ed erano costretti ad acquistare. Insomma i Piemontesi governarono il Sud non tenendo conto della sua cultura e del suo territorio, ma come fosse un’umida valle del Vercellese.

Vittorio Emanuele II non ritenne opportuno mutare la numerazione dinastica quando assunse il titolo di re d’Italia, impossessandosi delle cospicue riserve finanziarie delle Due Sicilie, che da sole costituirono i due terzi del patrimonio nazionale, diede vita ad uno dei governi più nefasti a memoria d’uomo che sfociò nell’emigrazione del popolo meridionale. Iniziò una politica fortemente negativa, molte verità vennero nascoste dai nuovi governanti; i mali vennero attribuiti ai passati governi del Sud e si ritenne necessaria la cura sistematica del ferro e del fuoco. Luigi Farini, Viceré di Napoli, così definiva le province meridionali: “Questa è Affrica, al cospetto di questa gente i beduini sono fior di virtù civili”.

Da questa definizione si può comprendere come la classe dirigente piemontese disprezzava metà dell’Italia. A tutto questo va aggiunta la connotazione fortemente antireligiosa del risorgimento, di cui lo stato Sabaudo, affiancato dalla Massoneria, si fece interprete aiutato dalla Protestante Inghilterra.

L’elemento religioso è presente e tangibile nelle raffigurazioni dell’epoca, così come sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti, (con le varie eccezioni) nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura. I vescovi, benché spesso scacciati dalle loro sedi, sostengono efficacemente l’insurrezione, stampando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede. L’attacco che i liberali portano avanti non è solo contro il potere temporale del Papa, ma anche contro quello spirituale.

A questo proposito ascoltiamo le parole della studiosa Angela Pellicciari: “Al momento della proclamazione del Regno d’Italia, all’inizio del 1861, la Chiesa Italiana è completamente sconvolta: più di 100 le diocesi senza vescovo, ben 57 quelle dell’Italia Meridionale, Napoli e le maggiori città del Regno incluse. Il rigore un tempo usato contro i malviventi viene riservato ai Cattolici: monaci e monache, frati e suore gettati sul lastrico; sacerdoti sbeffeggiati, incarcerati, uccisi, il patrimonio artistico e culturale della nazione finito nelle case dei liberali o semplicemente distrutto […] con tutto ciò ai preti si impone di cantare il Te Deum in onore della nuova civiltà e della nuova moralità. La capillare persecuzione anticattolica frutta un bottino ingente: circa un milione di ettari di terra per non parlare delle migliaia di edifici (conventi, romitori, cappellanie, chiese) capillarmente diffusi su tutto il territorio nazionale. Tutto questo patrimonio accumulato in più di millecinquecento anni dalla popolazione cattolica passa di mano e va ad arricchire l’élite illuminata. Oltre ad acquisire i beni dei Cattolici, i liberali si impossessano per due lire dei beni demaniali: più di un milione e cinquecentomila ettari, secondo la valutazione dello storico marxista Emilio Sereni […] A pagare il prezzo di questo gigantesco passaggio di ricchezza (oltre alla Chiesa) sono i contadini i quali videro, sulle terre che essi coltivavano a condizioni generalmente non troppo gravose, per conto degli enti religiosi proprietari, subentrare nuovi padroni, ben più esigenti ed avidi degli antichi; ed ai quali vennero a mancare d’altra parte, le risorse economiche ed assistenziali che […]  in altri tempi questi beni ecclesiastici avevano loro assicurato”. I Savoia si appropriarono quindi del Regno d’Italia, ma lo persero ingloriosamente appena 80 anni dopo e per una incredibile nemesi storica, il Re di Maggio, Umberto II, partì da Napoli per l’esilio dalla stessa scala d’imbarco usata da Francesco II di Borbone.

Francesco II, Re cattolico e dignitoso, aveva visto nel generale Borjés l’erede del Cardinale Fabrizio Ruffo che nel 1799 aveva guidato la gloriosa riconquista del Regno. Scrive Valentino Romano nel suo diario di guerra: “ […] un serio tentativo di riconquista del Regno può concretizzarsi solo attraverso un’iniziativa isolata, capace di coinvolgere le popolazioni: il suo pensiero [di Francesco II] corre al Cardinale Ruffo; è certo di ripetere i successi dell’Armata della Santa Fede; occorre però — come nel 1799 — un  uomo fidato, dal forte carisma, un trascinatore di consensi, un abile stratega, un condottiero vero”. Caratteristiche proprie della personalità del catalano, assieme ad un’altezza d’animo che aspira che a quelli che nella sua epoca e nel suo ambiente sono ancora i più grandi ideali, cioè la conquista della gloria e il riconoscimento di restauratore della dinastia e della religione cattolica, che già fu di Fabrizio Ruffo. Ma come Borjés ben sa, non bastano le virtù e l’eroismo per giungere alla vittoria, poiché anche nella sua Spagna, pur battendosi con valore assieme ai suoi commilitoni, ebbe la meglio la fazione liberale sul legittimismo. Per di più, lui in questo regno non è un principe della Chiesa, ma un forestiero, che non conosce il territorio sul quale è chiamato a operare.

Quando Borjés, nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1861, sbarca sulla spiaggia di Gerace, nei pressi di Capo Spartivento, lo accolgono al grido di “Viva Francesco II”, ma non trova i duemila uomini ben armati che gli erano stati promessi dai comitati borbonici europei, e soltanto dopo sei giorni riesce ad arruolare un guerrigliero, un antico soldato del III Cacciatori della Guardia, rimasto anonimo. Purtroppo per lui il momento d’oro dell’insorgenza borbonica, quando paesi e piccole città accoglievano in trionfo gli insorti sventolando le bianche bandiere gigliate, era passato e il Meridione si trovava a fare i conti con una feroce repressione. I contadini che il generale doveva inquadrare avevano combattuto con notevole coraggio nei mesi immediatamente precedenti al suo arrivo avvenuto nel momento sbagliato, quasi alle soglie dell’inverno. I figli del popolo, se ben guidati avrebbero continuato a battersi per anni, per Dio e per il Re, esattamente come avevano fatti i loro padri e i loro nonni, accorrendo in gran numero sotto le insegne della Santa Fede.

Aggrediti senza motivo in casa propria, si sentivano in dovere di reagire con ogni mezzo a loro disposizione, non solo per una questione personale, ma ancor più per l’attacco all’ordine cosmico fissato ab aeterno, iniziato nel 1789 in Francia.

Per capire meglio lo scontro epocale fra due civiltà, riportiamo un articolo apparso sul giornale Il Diritto, portavoce ufficioso di Agostino De Pretis: “Le lotte per l’unificazione politica italiana non erano rispetto all’umanità, null’altro che mezzi per conseguire quel fine, che a lei sta sommamente al cuore, della totale distruzione del Medioevo nell’ultima sua forma: il Cattolicesimo”. Il Regno Napoletano appare come l’ultimo avamposto del vecchio mondo, nel quale la distinzione fra Dio e Cesare non nega l’influenza sociale della religione e l’obbligo del potere politico di rispettare i principi essenziali di un naturale ordine superiore, la formula tradizionale Trono e Altare.

Borjés, fedele a questo motto partecipò ancor giovanissimo alle guerre carliste, schierandosi con i legittimisti che appoggiavano Don Carlos, fratello di Ferdinando VII, contro i liberali sostenitori di Isabella, figlia minorenne del defunto re, e della reggente Maria Cristina. Costretto dalla sconfitta all’esilio in Francia, accettò con entusiasmo la proposta dei comitati borbonici di recarsi nell’Italia Meridionale per organizzare militarmente gli insorti. Nonostante le difficoltà che abbiamo analizzato, il coraggioso generale volle persistere nell’impresa e si mise sulle tracce della banda capeggiata dal “Principe dei cafoni”, Carmine Crocco, di circa 1000 uomini. Crocco, trentunenne di Rio Nero in Vulture, era un capo intelligente e carismatico capace di gesti generosi e affezionato agli amici, ma aveva un passato da bandito, donnaiolo e incline e a far bottino. Abitudini che apparivano agli occhi intransigenti del rigoroso cattolico spagnolo, ripugnanti, infatti non tardò a condividere per lui la definizione di brigante appioppata ad entrambi dai piemontesi. Dal canto suo, Crocco mal sopportava di obbedire ad uno straniero di troppi scrupoli; per le troppe diffidenze e per un’antipatia a pelle che i due provavano l’uno per l’altro, la separazione divenne inevitabile. Il rionerese, in vista dei difficili approvvigionamenti invernali, decise di dividere la banda contadina in piccoli gruppi, affidati al comando dei suoi antichi colonnelli. I volontari che non intendevano accettare questa decisione, venivano allontanati e privati delle loro armi.

Molti di loro però, prima di andarsene vollero testimoniare allo spagnolo la loro fedeltà alla causa: “Tornate con una piccola forza e ci troverete sempre pronti a seguirvi”. Borjés, con una dozzina di spagnoli e otto napoletani, prende la via di Roma, non potendo condividere, dato il suo alto senso dell’onore, una resistenza troppo simile ad aggressioni brigantesche. Il suo viaggio caratterizzato da un freddo intenso tra le innevate montagne abruzzesi avrà un triste epilogo. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre nei pressi di Tagliacozzo a pochi chilometri dal confine pontificio, la salvezza è quasi a portata di mano, ma i napoletani, che non hanno cavalcature, non sono in grado di proseguire. Per non abbandonarli il comandante ordina una breve sosta alla cascina Mastroddi (dal nome dei proprietari, una ricca famiglia liberale di Tagliacozzo), in località La Luppa. Ignari di avere appuntamento con la morte, i legittimisti progettano di sostare qualche ora prima di marciare verso la meta, ma poche ore dopo la cascina viene circondata dai bersaglieri del maggiore Enrico Franchini.

Nello scontro cadono tre spagnoli, mentre gli altri sono costretti ad arrendersi dopo che il maggiore ha fatto appiccare il fuoco ai piani bassi della fattoria. Borjés, da soldato, porge la spada al Franchini che sprezzante la rifiuta. Successivamente i prigionieri vengono trasportati a Tagliacozzo dove verso le 4 del pomeriggio vengono fucilati alla schiena. José Borjés, muore da cristiano e da soldato, riconoscendosi come tutti i suoi compagni nelle ultime parole lasciate sopra un piccolo foglio di carta da uno dei suoi ufficiali, l’aragonese Pedro Martinez: “Gesù e Maria noi siamo tutti rassegnati ad essere fucilati, addio. Ci ritroveremo nella valle di Giosafat; pregate per tutti noi”. Il ‘cabacilla’ abbracciò uno dopo l’altro i suoi compagni e intonò insieme a loro, nella sua lingua materna, una preghiera bruscamente troncata dalle scariche dei fucili.

La mistificazione storica, che ha sacrificato la verità all’oleografia risorgimentale, apponendo ai resistenti meridionali il marchio infame di “briganti”, provvide a collocare sul prato antistante la cascina Mastroddi nel 1966, una lapide con la seguente iscrizione: “In questo remoto casolare l’8 dicembre 1861 al comando di Enrico Franchini soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie fidenti nell’unità d’Italia prodemente debellavano ardita banda mercenaria che capeggiata da José Borjés mirava a restaurare il nefasto regime borbonico.

Trentasette anni dopo, l’8 dicembre 2003, la stessa amministrazione comunale, unitamente al Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, rimosse quella lapide e la sostituì con una diversa iscrizione: “In questo remoto casolare l’8 dicembre 1861 si infranse l’illusione del generale José Borjés e dei suoi compagni di restituire a Francesco II il Regno delle Due Sicilie. Catturati da soldati italiani e guardie nazionali di Sante Marie al comando di Enrico Franchini furono fucilati lo stesso giorno a Tagliacozzo. Riposino in pace”.

Nella nuova iscrizione si avvertono gli echi di un sano revisionismo che cerca di restituire al Regno delle Due Sicilie e ai suoi abitanti quella dignità a lungo negata di una patria che come scrive Giacinto de Sivo: “Era il sorriso del Signore. […] L’invidia, l’ateismo e l’ambizione congiurarono insieme per abbatterla e spogliarla”.

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