KAFÈ DOSTO’ – Dostoevskij, un viaggio nella mente di Dio sul bianco della carta

Una lezione al liceo, tanto tempo fa, rimasta impressa nella memoria per il ricordo del silenzio che la sospese; il professore si era interrotto e il suo sguardo appariva lontano, ma ciò che guardava sembrava lì, come presente, pur distante nello spazio e nel tempo. Poi fu di nuovo con noi, rimasti muti. Tutto fu breve ma insieme lento, suggellato da un invito: ragazzi, leggete Dostoevskij e i grandi autori russi. Siete nell’età giusta, nella vita vi accompagneranno, ma sarà molto difficile affrontarli da adulti se non vi abituate fin da ora.

Mi afferrarono quelle parole per il peso che richiamavano: quell’uomo in guerra era stato in un campo di concentramento. Seguii il suo consiglio e presi in mano i Fratelli Karamazov.

Dostoevskij è un autore con il quale non si può non fare i conti; però che dire di lui? In una lettera scritta al fratello in uno dei periodi più spaventosi della sua esistenza, graziato qualche istante prima di esser fucilato e poi condannato alle terrifiche carceri zariste, così rifletteva su di sé: “La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi e non in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in che cosa sta la vita, e in che cosa consiste il suo compito.

Sembrano parole semplici, quasi ovvie, ma portano dentro di sé un segreto che credo di aver colto quando più avanti lessi le lettere di un altro grande russo Pavel Florenskij (1882 – 1937) che nell’ultimo periodo della sua vita trascorso nel terribile gulag delle Solovki espresse la sua Fede attraverso un’adesione totale e un rispetto assoluto nei confronti della vita, pur nell’impossibilità di poter nominare Dio.

Karamazov. La lingua russa possiede una carica di sfumature difficili da rendere in traduzione. Intorno al significato di questo cognome si sono fatte diverse congetture, forse è un intriso linguistico che richiama insieme l’idea dell’oscuro e della pena.

Un tratto dostoievskiàno che impregna tutta la vita dello scrittore, segnata da subito dalla presenza di un padre violento, ciclotimico, ucciso dai contadini esasperati dalle sue angherie e che rappresenterà un solco profondo e sempre sanguinante nella sua psiche sollecitandone il talento fuori del comune che proprio da quella sofferenza trarrà alimento vitale.

Karamazov è un romanzo sulla paternità, sulla sua precarietà, sulla sua distruzione (di cui oggi constatiamo gli effetti), ma anche sulla sua irriducibilità. Per questo è possibile dire che è un romanzo su Dio.

Dostoevskij mette in scena lo scontro di due paternità contrapposte. Una naturale, prevaricante, abusante, grottesca di cui è piena la nostra cronaca nera, ma, sebbene camuffata, anche quella bianca. L’altra trasfigurata che inconsciamente desideriamo, per il bisogno che ne abbiamo e che non riusciamo più a incontrare.

Mi sembra importante porre l’accento su un tratto di Dostoevskij che dovrebbe far riflettere quanti, come noi, vivono in un cristianesimo ormai esausto, che non sembra più essere con Cristo, ma con Lui, il secolo, e fa di questo il suo tesoro segreto.

In Dostoevskij c’è spazio per il paradosso (che è cifra del cristianesimo), ma non per l’ambiguità voluta che s’insinua nella mente per riarticolare il Credo: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità (Lettera a Natalija Dmitrievna Fonvizina in Lettere sulla creatività, Milano, Feltrinelli 2011, pag. 51).

È certo un’espressione paradossale perché Cristo è Verità, ma si può arrivare al punto, nel quale siamo ora, in cui si tenta di trasformare la Verità in una mollezza più allargata, più morbida, più onnicomprensiva che, in apparenza, sembra maggiormente legata alla vita, ma che in realtà è solo un’anticamera della morte.

Nei Karamazov il tema della paternità possiede una dimensione metafisica perché si pone come lo spazio di lettura di ciò che intercorre tra Dio e quell’essere umano moderno ormai accartocciato nel suo nichilismo. Nel romanzo la paternità naturale è stravolta fino a raggiungere il cerchio chiuso della follia rappresentato da Fëdor Pavlovič (il padre) contrapposto a un alter ego impersonato dallo starec Zosima, figura di una diversa paternità giocata sull’abbassamento (kenosi) e non sul potere e sull’arbitrio.

Dopo una vita tormentata e sofferta Dostoevskij racconta il proprio dolore e la ricerca di sé attraverso la vicenda tragica di un padre, Fëdor. È un uomo corrotto la cui filosofia di vita, durante il processo seguito al suo assassinio, verrà così sintetizzata dal procuratore nella sua arringa: Che bruci pure il mondo intero, purché io possa godermela.

Esiste forse un’assonanza nei nomi usati. Fëdor vuol dire dono di Dio ed è possibile che dietro questo nome (che è anche il nome dell’autore) possa nascondersi una domanda che attraversa tutta la vita di Dostoevskij: in quali termini io sono un dono di Dio?

Una domanda comprensibile vista l’influenza negativa del padre, rifratta nell’esperienza molto sofferta causata dal potere statale. Michail (chi è come Dio? Cfr. Ap. 12,7) era il nome del padre di Dostoevskij e sembra quasi che questi nomi si rincorrano e trovino quiete in Aleksej Fëdorovič, colui che difende il dono di Dio, Alëša. Lui, il figlio più giovane e più trasparente, che si farà carico delle ambivalenze paterne quando accetta l’obbedienza di lasciare il monastero e ritornare nel mondo, accetta cioè – lasciando il monastero – di rinunciare ad affermarsi1.

I Fratelli Karamazov sono come un palazzo che sembra facile da riconoscere nella sua imponenza da una prospettiva esterna, ma che, una volta entrati, rivela spazi che rispecchiano scenari e visuali inconsueti.

Credo che si debba affrontare il romanzo passo dopo passo. Per questo motivo preferisco limitarmi a richiamare l’attenzione su un piccolissimo episodio che avviene durante l’incontro tra la famiglia Karamazov e lo starec Zosima, quasi all’apertura della vicenda.

Padre e fratelli attraverso il loro parlare hanno già rappresentato il loro mondo interno e l’enorme difficoltà di relazione gli uni verso gli altri; a quel punto, lo starec inaspettatamente compie un’azione singolare: “[…] si alzò all’improvviso dal proprio posto […] avanzò verso Dmítrij Fëdorovič e, quando gli fu vicinissimo, cadde in ginocchio dinanzi a lui. […] Lo starets si prosternò ai piedi di Dmítrij Fëdorovič con un profondo, preciso e consapevole inchino e sfiorò persino la terra con la fronte. Alëša era così sbalordito che non ebbe neppure il tempo di sorreggerlo quando si rialzò. […] Dmítrij Fëdorovič restò per qualche istante come folgorato: prostrarsi ai suoi piedi – che cosa significava? Alla fine lanciò un grido: ‘Oh, mio Dio!’ e, coprendosi il viso con le mani, si precipitò fuori della stanza”.

È un’immagine forte per la sua singolarità; non è l’inchinarsi dell’uomo di fronte a un uomo per qualche tornaconto personale o per catturare l’attenzione degli altri (come vediamo succedere oggi), ma è l’indicazione della capacità paterna dello starec e ne rileva la qualità principale: riconoscere la presenza terribile di Dio nel destino di un uomo.

Per scendere più a fondo nella comprensione occorre fermarsi un momento sul significato e sul ruolo degli starec (vecchi/anziani) nel mondo russo. Per molti intellettuali della seconda metà dell’ottocento, dilaniati dal nichilismo imperante, lo starec rappresentò l’estrema possibilità di far fronte al nulla, un pezzo di legno che permetteva di galleggiare.

Per capire da un punto di vista “interno” cosa connoti lo starec è possibile appoggiarsi alla descrizione efficace offerta da san Silvano (1866-1938), monaco russo del Monte Athos che ben coniuga le due forme di paternità descritte da Dostoevskij. Ripensando, infatti, al ruolo del proprio padre naturale racconta al suo biografo come, ancor giovane, innamoratosi di una ragazza, prima ancora che si parlasse tra loro di matrimonio, una sera successe “tra loro ciò che spesso succede. L’indomani, sul lavoro, il padre gli dice con dolcezza: ‘Dov’eri, piccolo mio, ieri sera? Il mio cuore era addolorato’. Quelle parole dolci penetrano nella sua anima. Un’altra volta, mentre i! padre lavora nei campi insieme con i figli più grandi”, tocca al futuro monaco Silvano “preparare da mangiare; ma, dimenticando che è un venerdì, questi prepara un piatto di carne di maiale. Tutti mangiano senza dir niente. Sei mesi dopo – si è già in inverno – un giorno di festa il padre, sorridendo con dolcezza, gli dice: ‘Piccolo mio, ti ricordi come ci hai dato da mangiare carne di maiale un giorno che eravamo nei campi? Eppure era un venerdì. Sai, l’ho mangiata come se fosse una carogna’. ‘Perché non mi hai detto niente, allora?. ‘Non volevo ferirti, piccolo mio’. Più tardi, divenuto monaco, egli riconoscerà: ‘Non sono arrivato alla statura di mio padre. Era un uomo completamente analfabeta. Anche quando recitava i! Padre Nostro – l’aveva imparato a forza di sentirlo in chiesa – ne pronunciava certe parole in modo maldestro. Ma era un uomo pieno di dolcezza e di sapienza’. E ancora: ‘Ecco uno starec come vorrei averlo io. Non andava mai in collera, non aveva mai alti e bassi, era sempre dolce. Pensate: pazientò sei mesi, attendendo i! momento adatto per correggermi senza ferirmi’.  

Questo tipo di pazienza è frutto di un’esperienza di pacificazione profonda, possibile solo se si tollera di attraversare con l’anima l’abisso del male senza farsene catturare, aprire porte della mente che pochi osano aprire solo se, come dice la Scrittura, si riesce a restare seduti in silenzio quando la sedia diventa rovente.

L’anziano è un uomo per il quale la relazione (con Dio, con se stesso, con gli altri, con gli animali e con la natura) non si esprime più nel circolo peccaminoso di un rapporto di forza tra le creature perché si è impregnati dalla convinzione dell’assenza di Dio nell’universo. L’anziano è divenuto paziente, capace di riconoscere e sopportare la sofferenza in sé e negli altri.

Esiste, a mio parere, un punto nodale nel cuore del romanzo dei Fratelli Karamazov in cui si scorge sia il desiderio profondo, la nostalgia (questa emozione così intensamente rivoluzionaria) per un’autentica paternità inseguita da Dostoevskij lungo tutta la sua vita.

Poche parole, ma che sono l’architrave della particolare prospettiva che il cristianesimo russo offre a ogni fratello cristiano (e non): “[…] rendersi responsabili di tutti i peccati umani”.

Questa frase la leggiamo all’interno del grande discorso in cui lo starec Zosima parla di sé e del mondo. In un certo senso lo starec è il prototipo del mužik, vocabolo russo che significa uomo (nell’ottocento soprattutto contadino). Non dimentichiamo che la Bibbia connette il nome Adamo con la parola terra/suolo. Il mužik/starec è colui che si piega fino a terra.

Nella tremenda esperienza che dovette subire Florenskij ciò che colpisce non è tanto, come si diceva, l’impossibilità di pronunciare la parola Dio, l’aver sempre una guardia a fianco ovunque si muovesse, subire angherie di ogni tipo ma, come rammentano testimoni sopravvissuti, l’inchinarsi fino a terra quando salutava qualcuno. Quale dignità cristiana in quell’inferno2!

La paternità descritta da Dostoevskij, giocata tutta sull’abbassamento (cfr. Philp 2, 6-7), di cui l’inchinarsi è immagine simbolica, viene ulteriormente qualificata dallo starec Zosima nel suo discorso: “sappiate, infatti, miei cari, che ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla terra, questo è certo; e non soltanto a causa della colpa comune, ma ciascuno individualmente, per tutti gli uomini e per ogni uomo sulla terra. Questa consapevolezza è il coronamento […] della vita di ogni uomo”.

È probabile che Dostoevskij nel tratteggiare il personaggio di Zosima abbia avuto in mente anche un uomo che aveva esercitato un’enorme impressione pochi decenni prima: san Serafino di Sarov (1759-1833). Un uomo che ebbe il coraggio di accettare una specie di discesa negli inferi e condividere e toccare con mano il deterioramento delle creature: uomini, animali e cose. Aveva accettato di esporsi a un silenzio assoluto e a una solitudine totale dopo essere stato aggredito dai banditi che aveva perdonato e ai quali, lui un uomo forte, si era esposto in modo inerme. In quel silenzio aveva imparato il gemito della creazione (Rm. 8, 20-22) diventando capace di condividerlo.

Dostoevskij smonta il nostro bisogno di sentirci salvatori degli altri, smaschera le emozioni che sono alla base del bisogno di protagonismo, ciò che ci spinge a essere al centro dell’attenzione quando il dovere morale consiste, invece, nell’accettare e condividere di essere parte del male del mondo. Lì è autentica umiltà perché, seduti in silenzio sull’orlo dell’abisso, quella nera regione in cui tutto è condotto a materia e l’amore degenera nella concentrazione sull’«io», si diventa capaci di accogliere la Salvezza.

La salvezza è l’adesione a Cristo che si esprime attraverso un percorso di vaporizzazione del nostro «io». Abituati alle nostre stanche liturgie da cui è stato graffiato via il Mistero ed è rimasta solo l’incomprensibilità delle parole, ripetiamo pesantemente “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo”: tollere è verbo polisemico; Cristo toglie perché assume su di sé il peccato del mondo. Possiamo chiedere anche noi: Maestro, che devo fare? La risposta di Gesù è netta: Và e fa anche tu lo stesso (Lc 10, 25b. 37b).

È una prospettiva ardua come ben dimostra Ivan, uno dei Fratelli Karamazov, sottoposto a una vera e propria deflagrazione della mente nel momento in cui, incastrato nei meandri della razionalità, diventa incapace di Dio e apre le porte alla disperazione.

La febbre cerebrale da cui è assalito ricorda la lotta di Giacobbe (Gen. 32, 26) in cui anche l’uomo moderno si può rispecchiare quando è colpito sul limitare estremo oltre cui non può più andare, un Penuel (faccia di Dio), un luogo, un tempo in cui pur avendo combattuto contro Dio, l’anima rimane salva, il gesto della Carità di Dio per l’uomo (Gen. 32, 30).

Dostoevskij dissemina il suo romanzo di gesti forti. Come non accennare al monologo del Grande Inquisitore che Cristo ascolta in assoluto silenzio? Il silenzio, non dimentichiamolo, è una delle sfide maggiori per l’uomo contemporaneo schiavo del rumore perché ne misura l’impotenza.

La capacità di tollerare il silenzio permette di estrarre dall’altro la radice del suo dolore, la rende propria e permette all’altro la condivisione. Ciò che maggiormente sorprende in Cristo è la calma del suo sguardo profondo, non bramoso di obiettare, di afferrare. Tutta la sua risposta è un bacio colmo di dolcezza, anche se provoca una reazione di espulsione, rifiuto, respingimento nelle vie oscure della città.

Lo starec Zosima capovolge la mentalità di aggiornamento della Fede, trasformandola nel momento in cui l’accetta e ne fa la missione (obbedienza) per il giovane Alëša: “Che hai? il tuo posto per ora non è qui. Ti consacro a una grande opera nel mondo. Dovrai percorrere ancora molta strada. E dovrai sposarti, dovrai farlo. Dovrai sopportare ogni cosa, prima di ritornare qui. E ci sarà molto da fare. Ma non dubito di te, ed è per questo che ti mando. Cristo è con te. Custodiscilo in te ed Egli ti custodirà. Conoscerai un grande dolore e nel tuo dolore sarai felice. Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità”.

Leggiamo, pagina dopo pagina, come l’abisso della santità e l’abisso del peccato si tocchino, siano contigui e come nell’anima umana abbiano lo stesso effetto terribile di un aereo che oltrepassa il muro del suono e… disorienta.

Come in certi giorni d’inverno in una pianura sterminata la neve minuta presto si trasforma in fiocchi pesanti e il vento comincia a ululare e sembra comunque di udire le imposte tremare e sbattere e pare di essere travolti in un mare di neve, così affrontare la lettura di Dostoevskij è come intraprendere un viaggio nella mente di Dio sul bianco della carta.

NOTE
1 Un intrigante rovesciamento di abitudini mentali…
2 Al minuto 2.10.27 – 2.10.36 del film “il dottor Zivago”, ispirato all’omonimo romanzo di Boris Pasternack, un uomo saluta inchinandosi secondo l’antico uso, ma gli viene risposto che tutto questo è finito. Non c’era immagine più vivida per trasmettere il cambiamento epocale rappresentato dalla rivoluzione bolscevica che ha sostituito i lavoratori all’uomo creatura di Dio, con tutti gli orrori conseguenti.

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