Ringraziamo Emilio Biagini, scienziato e scrittore, e carissimo amico, che ci ha inviato un capitolo di un saggio di prossima pubblicazione, dal titolo “Malascienza: la lunga marcia verso il nulla”. In questo capitolo, di cui pubblichiamo ora la prima parte, l’Autore tratta un argomento affascinante: l’origine dell’Universo.
LA BARZELLETTA DELL’UNIVERSO ETERNO – prima parte
di Emilio Biagini
Il “colpo di genio” di Giordano Bruno
Il pensiero “moderno”, secondo i laicisti, comincia con Giordano Bruno. Chi era costui? Una sinistra figura di frate apostata, stregone e spia, che insegnava la schiavizzazione delle menti altrui (vedi il suo trattato De vinculis). Durante il suo soggiorno in Inghilterra, si valse del fatto di essere sacerdote per ascoltare le confessioni dei cattolici clandestini e perseguitati, e denunciarli poi alla durissima inquisizione protestante inglese, che torturava i malcapitati, prima di impiccarli e squartarli, per ottenere da loro i nomi di altri “papisti”, che a loro volta venivano impiccati e squartati perché denunciassero altri “papisti”, eccetera.
E perché tutto questo odio, bravi inglesi scismatici, imperialisti e maestri di democrazia? Perché i cattolici, in quanto fedeli al Papa, potenza “straniera”, erano colpevoli di “alto tradimento”. Questa genialata risaliva, come tutti sanno, alla mente contorta di Enrico VIII, il re sifilitico dalle sei mogli, che faceva tagliare la testa a quelli che, come san Tommaso Moro, sapevano farla funzionare. Disperatamente inutili furono le insurrezioni cattoliche del Nord inglese, rimasto lungamente fedele alla Chiesa e quindi terra di martiri (Biagini 2004), a differenza del Sud, dove prevalevano interessi mercantili e materialistici, e dove veniva maturando il piano imperiale di dominio inglese del mondo: tutte cose che si accordavano pienamente con lo sfrenato odio antiromano.
L’intuizione fondamentale, il “colpo di genio” di Giordano Bruno, sul quale si basa molto del suo grande prestigio i laicisti, è che l’universo sarebbe “infinito”: un errore madornale che urta contro il paradosso di Olbers (un universo infinito emetterebbe luce accecante e non ci sarebbe distinzione fra giorno e notte), contro il paradosso di Mach (un universo infinito avrebbe infinita energia gravitazionale e non sarebbe possibile alcun moto), e infine contro il paradosso biologico formulato da chi scrive (un universo infinito emetterebbe infinite radiazioni ionizzanti che renderebbero impossibile qualunque forma di vita, e questo è un fatto talmente ovvio che ci sono arrivato perfino io).
Certo, il povero Bruno, nel Cinquecento, non poteva sapere della legge di gravità né delle radiazioni ionizzanti, ma al paradosso di Olbers poteva benissimo arrivarci: non c’era bisogno di nozioni di fisica né di biologia, e neppure di apparecchiature di alcun genere. Bastava il concetto di infinito: quell’insieme al cui ennesimo elemento n è sempre possibile aggiungerne un altro, n+1, e così via senza fine. Il concetto di infinito era ben noto all’epoca di Giordano Bruno, egli stesso ne parla diffusamente nel suo scritto Degli heroici furori. E poi ci voleva solo un po’ di buon senso, nell’applicare l’idea di infinito al numero delle stelle, per capire che, per quanto apparentemente piccole e lontane, essendo in numero infinito, non potevano che emettere un’infinita quantità di luce.
La cosmologia non contraddice la Creazione, se mai la conferma
La branca dell’astrofisica che studia l’origine e l’evoluzione del cosmo, ossia la cosmologia, ha dimostrato che l’universo è limitato nello spazio e nel tempo; ha avuto un inizio e avrà una fine. Ha cioè avuto inizio, nella forma che noi conosciamo, dalla “grande esplosione” (big bang) circa 13,73 miliardi di anni fa, con uno scarto, in più o in meno, di 0,12 miliardi di anni (in precedenza l’età stimata era di 15 miliardi di anni). La “grande esplosione” diede anzitutto luogo ad un’immensa luce: ciò che coincide perfettamente con la Creazione narrata dalla Genesi (1, 3) come atto del Verbo, la Parola creatrice (“E Dio disse: ‘Sia fatta la luce’. E la luce fu”). Da quell’istante, l’universo ha iniziato ad espandersi. Non bisogna pensare a un universo che, nell’espandersi, impiega un certo tempo ad occupare uno spazio vuoto. Era lo stesso universo in espansione a generare, con la propria energia gravitativa, lo spazio e il tempo. Fuori dell’universo non c’era nulla, neppure il vuoto, solo il non-esistente.
L’espansione dell’universo è stata scoperta grazie ad un fenomeno fisico detto effetto Doppler. cioè a quel fenomeno per il quale una sorgente di onde (sonore o luminose) che si trovi in movimento rispetto all’osservatore viene percepita con una diminuzione della lunghezza d’onda se si avvicina (perché alla lunghezza d’onda si sottrae la distanza percorsa rispetto all’osservatore, e quindi è come se l’onda venisse accorciata, compressa), e con un aumento se si allontana (alla lunghezza d’onda si aggiunge la distanza percorsa rispetto all’osservatore, e quindi è come se la lunghezza d’onda venisse estesa, allungata). Ecco perché il rumore di un treno che si avvicina ha un tono acuto (minore lunghezza d’onda), che diventa immediatamente più grave appena il convoglio ha sorpassato l’osservatore (la lunghezza d’onda aumenta). Poiché le galassie si allontanano l’una dall’altra, la loro luce appare spostata verso le radiazioni elettromagnetiche luminose di lunghezza d’onda maggiore, corrispondenti alla banda del rosso. È appunto studiando la luce delle galassie scomposta mediante gli spettrografi che si ha la prova che l’universo si sta espandendo con velocità proporzionale alla distanza: un fenomeno scoperto da Hubble (1934).
Tale velocità venne calcolata in 55 km/sec per milione di parsec (abbreviazione di parallasse/secondo, unità di misura astronomica pari alla distanza di un astro la cui parallasse è di 1”, ossia il cui angolo di visuale rispetto al diametro dell’orbita terrestre è di un secondo d’arco; 1 parsec = 3,27 anni luce), ossia un’ipotetica galassia distante 3,27 milioni di anni luce è vista allontanarsi a 55 chilometri il secondo, una distante il doppio, ossia 2 parsec, corrispondenti a 6,54 milioni di anni luce, si allontana a 110 chilometri il secondo, e così via, in proporzione.
Di qui, ricostruendo matematicamente a ritroso le fasi passate dell’espansione, l’astrofisico belga Lemaître (1931) poté giugere al momento iniziale e formulò l’ipotesi dell’“atomo primordiale”, successivamente ribattezzata della “grande esplosione” da Fred Hoyle. Questa idea aveva un illustre precedente nel grande vescovo cattolico di Lincoln, Robert Grosseteste (1175-1253), precursore della fisica moderna, il quale aveva suggerito che l’origine dell’universo fosse un punto di luce primordiale. Grosseteste non disponeva dei dati necessari per provare la sua ipotesi, ma Monsignor Lemaître sì.
Questi, partendo dallo spostamento verso il rosso della luce delle galassie, fu in grado di dare una precisa base matematica all’intuizione del grande vescovo di Lincoln, ma, ahimé, era anche lui sotto il peso dell’inespiabile colpa di essere un prete cattolico, e il merito di aver scoperto l’espansione dell’universo venne attribuito ad un non cattolico che ci era arrivato molto dopo: lo statunitense di origine russa Gamow (1952), che pubblicò la scoperta sotto il titolo “La creazione dell’universo”, ma al quale va comunque riconosciuto il merito di aver posto in evidenza la nucleosintesi, ossia la formazione, nel fuoco primordiale successivo al big bang, dei nuclei atomici di deuterio (un isotopo dell’idrogeno) e di elio.
L’ipotesi di Lemaître fu ben presto confortata da numerose prove. Anzitutto il big bang permette di spiegare l’elevata percentuale di elio nell’universo (circa 8%) mentre le reazioni nucleari che avvengono all’interno delle stelle non formano tale elemento in quantità sufficiente: bastano infatti a spiegare a malapena un decimo dell’elio esistente. L’elio, invece si è formato in grande maggioranza proprio nel fuoco primigenio della grande esplosione.
I quasar sono immani nubi di gas dalle quali si stanno formando nuove galassie: quanto più lontano si spingono i sondaggi dei radiotelescopi, tante meno galassie e tanti più quasar si trovano. Le onde radio viaggiano alla velocità della luce e, dato il tempo che impiegano, noi ci troviamo a studiare i corpi celesti com’erano nel passato. Una lontananza nello spazio equivale anche ad una lontananza nel tempo. Vediamo la Luna com’era poco più di un secondo fa, il Sole com’era otto minuti fa, la stella Alfa Centauri com’era poco più di quattro anni fa, Sirio com’era 8,6 anni fa, e così via finché, alle massime distanze, troviamo solo quasar, giungendo così vicino all’istante iniziale, ad uno stadio dell’universo in cui non si erano ancora formate le galassie.
La velocità della luce (circa 300.000 km/sec) è, secondo Einstein, una costante universale, e non può essere superata. In condizioni naturali i neutrini viaggiano a velocità lievemente inferiore a quella della luce: infatti l’esplosione di una supernova, che produce sia luce che neutrini, ha permesso di osservare che i neutrini prodotti dall’esplosione raggiungevano la Terra immediatamente dopo la luce della stessa supernova. Pare invece che, artificialmente eccitati, i neutrini possano superare la velocità della luce di pochi miliardesimi di secondo, come dimostrato dall’esperimento del CERN di Ginevra compiuto nel 2011. Si è frettolosamente affermato che questo risultato manderebbe in pensione Einstein, ma la fisica cresce piuttosto per contributi addittivi, non per contrasti rivoluzionari, e le teorie apparentemente superate vengono comunque reinterpretate in una sintesi più ampia, per cui sarà piuttosto arduo far scomparire i fondamentali contributi einsteiniani. Non è ancora chiaro quali conseguenze possa avere questa scoperta, se verrà confermata, sulla cosmologia, ma ben difficilmente potranno essere messi in discussione l’espansione dell’universo e il fatto che esso abbia avuto un inizio ed avrà una fine.
La prova più spettacolare a favore dell’espansione dell’universo è la scoperta della radiazione di fondo, predetta dalla teoria e scoperta nel 1965 dagli astrofisici Penzias e Wilson: si tratta di una radiazione “fossile” a microonde, ultima eco dell’immane energia sprigionatasi nel big bang. Tale radiazione, creduta in passato assolutamente isotropa (ossia omogenea in ogni direzione) corrisponde alla radiazione emessa da un corpo nero a 2,7 gradi kelvin (pari a poco meno di 270°C sotto zero). La scala kelvin è identica a quella centigrada, con l’unica differenza che, invece di partire dal punto di congelamento dell’acqua distillata, parte dallo zero assoluto, ossia da circa 273°C sotto zero, una temperatura alla quale il moto molecolare si arresta e non è possibile scendere ulteriormente (quindi, nella scala kelvin, l’acqua gela a 273 gradi e bolle a 373).
L’universo, inizialmente caldissimo e dominato dalla radiazione, venne raffreddandosi, mentre diminuivano la sua densità e la curvatura dello spazio-tempo, entrando nel regime della relatività generale einsteiniana. Man mano che l’universo si raffreddava, la radiazione si trasformava in materia, e quindi la densità energetica della materia aumentava irreversibilmente a spese di quella della radiazione, così che cresceva l’entropia per particella, espressa dal rapporto s. Le percentuali di deuterio (isotopo pesante dell’idrogeno) e dell’isotopo 3He dell’elio nell’universo, calcolate sulla base del rapporto s, si accordano perfettamente con le percentuali osservate, e ciò rappresenta un’importante conferma del big bang. Il “sorpasso”, ossia l’istante quando le due densità divennero pari ,ebbe luogo intorno ai 1010k (dieci miliardi di gradi Kelvin).
L’equazione dell’entropia s esprime la sommatoria (Σ) dei rapporti fra quantità
di calore assorbita ΔQi e temperatura Ti in gradi kelvin:
Δs = Σ ΔQi / Ti
dove Δ indica un rapporto incrementale. Si potrebbe dire che questa equazione
rappresenta la prova matematica dell’inevitabile fine del mondo.
In un sistema isolato, l’energia complessiva si conserva, mentre l’energia potenziale (capace di produrre lavoro) si trasforma irreversibilmente in calore, finché il sistema stesso si arresta, rimanendo paralizzato, inutile, morto. Il rapporto tra le due forme di energia è appunto l’entropia. Più precisamente, l’entropia è la funzione di stato dell’energia convertita in calore e non più utilizzabile per compiere lavoro. In un sistema isolato (ossia che non riceve energia dall’esterno), essa non può che aumentare sempre più, finché tutta l’energia potenziale del sistema sarà esaurita.
L’universo è il sistema isolato per definizione, quindi destinato a finire. Al fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906) va il merito di aver compreso per primo la fine dell’universo come fine di ogni mutamento, e quindi del tempo, in seguito all’esaurimento dell’energia potenziale, cioè al livello massimo di entropia. L’universo tende a divenire completamente vuoto, la curvatura dello spazio-tempo diminuisce sempre più, ossia la geometria dell’universo diviene sempre più piatta. Fine della storia, di tutte le storie.
Ahi, ahi, poveri settari, che accessi di bile li assale quando sentono questa sinfonia. Poverini, come faranno a cacciare l’idea della Creazione, se l’universo ha un inizio e una fine? Che abbia ragione san Tommaso d’Aquino con la sua Causa incausata e il suo Motore immobile?
Si è cercato di inquadrare la cosmologia in un evoluzionismo integrale in chiave atea (vedi ad esempio Scharf 1975), in un congresso “scientifico” tenutosi a Halle, in quella che era allora la Germania Est, satellite dell’URSS, sotto la balsamica ombra del benefico Muro di Berlino, di democratica memoria: solo che l’operazione si è ritorta contro i settari che vi si sono cimentati (Biagini 1980).
Una seria obiezione alla teoria della “grande esplosione” era la difficoltà a spiegare la distribuzione non uniforme della materia: l’universo è infatti formato da corpi celesti più o meno densi circondati da immensi spazi vuoti, mentre la radiazione di fondo sembrava inizialmente recare la traccia di una condizione omogenea. Per ovviare a tale problema, il fisico statunitense Alan Guth presentò nel 1976 la teoria dell’universo “inflazionario”, secondo cui l’universo si sarebbe espanso a partire da una “fluttuazione” nello spazio che avrebbe originato un punto più piccolo di un atomo in maniera rapidissima, raddoppiando le proprie dimensioni in un tempo di 10-34 secondi. Tale fluttuazione permetterebbe di spiegare, in teoria, le deviazioni dall’omogeneità e l’addensamento della materia.
La scoperta di fluttuazioni nella temperatura della radiazione di fondo, avvenuta nel 1992 ad opera di George Smoot, grazie al satellite Cosmic Background Explorer (COBE), ha infine spiegato sperimentalmente la distribuzione non uniforme della materia. Tali variazioni di temperatura dimostrano infatti che fin all’inizio dell’universo esistevano disuniformità che hanno permesso l’aggregarsi della materia a formare i corpi celesti.
(continua) – vai alla seconda parte
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