LA “BEATA EUSTOCHIO PADUANA”, LOTTATRICE INDOMITA CONTRO IL DEMONIO – di Giampaolo Scquizzato

di Giampaolo Scquizzato

 

 

 

Se a un qualsiasi cittadino padovano o anche ad un quisque de populo mediamente appassionato di viaggi, cultura, storia, attualità, si chiedesse per che cosa è principalmente conosciuta Padova, le risposte potrebbero essere ben variegate ma la maggior parte, indicativamente, porterebbero ad emergere alcuni caratteristici elementi: la prestigiosa e antica Università (“padovani gran dottori”), la giottesca Cappella degli Scrovegni, il Prato della Valle (una delle più grandi piazze d’Europa), la Basilica di Sant’Antonio di Padova (per tutti “il Santo”), e l’immancabile aperitivo “spritz”. Padova è inoltre famosa per essere la città dei 3 “senza”: il “Santo senza nome”, perché Sant’Antonio, è conosciuto da tutti solamente come “il Santo”; il “Caffè senza porte”, in quanto il centralissimo Caffè Pedrocchi, sino agli inizi del ‘900 era aperto ventiquattro ore al giorno; e del “Prato senza erba”, visto che il Prato della Valle, era fino alla fine del XVIII secolo, una zona paludosa, priva di un vero e proprio manto erboso. Ad onor del vero, Padova è balzata agli onori della cronaca nazionale anche per le drammatiche vicende relative alla famigerata “via Anelli” e alla costruzione del relativo muro. E per un cattolico, sommariamente attento alle vicende locali, non è potuto sfuggire neanche il primato della città patavina in merito ai registri delle coppie di fatto, prima apripista della penisola, anticipando anche la “modernissima” Milano; nonché per la fantasmagorica rassegna di cultura omosessuale “Pride Village”. Infine giusto per non farci proprio mancare niente, per le gossippare (nonchè, ultimamente, giudiziare) vicende dell’ex prete Sante Sguotti e, per essere à la page con la legislazione francese, la proposta di regolamentazione del matrimonio gay, che porta anche il copyright padovano dell’onorevole pidiellino Galan. Ma tali titanici sforzi per far sprofondare l’alma Padova nei media nazionali, non possono (anzi non devono!) offuscare quanto di santo offre la città: oltre alla già citata Basilica di sant’Antonio e alla Cappella degli Scrovegni, il santuario di san Leopoldo Mandic, l’Abbazia benedettina di santa Giustina (che ospita le reliquie dell’evangelista san Luca), l’antica Chiesa degli Eremitani.

beForse meno conosciuta è la Chiesa di san Pietro Apostolo che contiene le spoglie mortali della beata Eustochio, al secolo Lucrezia Bellini, nata a Padova nel 1444, morta cinque lustri dopo, il 13 febbraio del 1469, della quale fu riconosciuto il culto e approvata la beatificazione nel 1760 da Papa Clemente XIII, già Cardinale Carlo Rezzonico e vescovo di Padova. Nella cappella, proprio sopra l’urna che custodisce il corpo della Beata è possibile ammirare una tela (intitolata “la Beata Eustochio vittoriosa calpesta il demonio”) del pittore Eugenio Guglielmi (1809-1846), che rappresenta la monaca con lo sguardo contemplativo, rivolto verso l’alto, la mano sinistra sollevata e quella destra che stringe un crocifisso; nella parte inferiore del quadro vediamo la beata che schiaccia il demonio che tiene in mano dei flagelli con cui spesso usava tormentare la suora. Questo dipinto riassume in maniera sintetica ma intensa la vita di questa monaca, che già fin dalla sua infanzia ha dovuto non solo subire ogni sorta di vessazione da parte del maligno, ma anche umiliazioni, derisioni, accuse inaudite e infondate dalle stesse consorelle. Ma come ben rappresenta il quadro, tutto questa “macchina del male” costruita ad hoc e capitanata dal “padre della menzogna” ha dovuto miseramente soccombere sotto l’immemorabile peso della santità di questa umile suora.

Un breve sguardo alla biografia[1]. Lucrezia fu figlia illegittima di una non ben precisata monaca del monastero benedettino di S. Prosdocimo in Padova e di un signore locale, Bartolomeo Bellini. Già dalla tenera età di quattro anni fu oggetto di possessione e vessazioni da parte del demonio, che non la abbandonerà mai, tormentandola usque ad mortem.

Dai sette anni il padre affiderà la bambina per l’educazione al monastero di San Prosdocimo, luogo probabilmente del suo concepimento e che certo non risplendeva al tempo per virtù, preghiera, ascesi. Per ridare nuovo slancio alla vita religiosa del monastero, furono inviate le monache Benedettine di S. Maria della Misericordia, ordine di cui Lucrezia prese l’abito con la prima professione religiosa del 15 gennaio 1461, assumendo il nome religioso di Eustochio (ricordando così il nome della discepolo di san Girolamo, che consacrò la sua vita alla preghiera e allo studio della Sacra Scrittura). Nonostante alcuni periodi di apparente tranquillità, il diavolo non si era dimenticato della fanciulla e continuò soprattutto dopo la professione religiosa a molestare la povera giovane, imponendole di fare atti contrari alla Regola, torturandone il corpo con flagelli, tagliandole le carni con un coltello, cercando di dissanguarla incidendole le vene, opprimendola con improvvisi conati di vomito, stringendole una fitta corda per soffocarla, obbligandola ad atteggiamenti violenti anche nei confronti delle consorelle, tanto da obbligare queste ultime a legare Eustochio ad una colonna per alcuni giorni, con l’intento di sedarne l’impetuoso carattere. La monaca fu inoltre incolpata di essere stata la causa di una malattia che colpì la badessa: alla luce di questi frequenti e strani eventi, Eustochio fu accusata di stregoneria, considerata una bugiarda, venne imprigionata e lasciata per tre giorni a pane e acqua. Era considerata “l’abominio e l’esecrazione” di tutte le suore, isolata, calunniata, evitata per timore di essere contagiati da strane malattie o dal demonio.

Tutte queste sofferenze fisiche e morali misero a dura prova la Santa ma non intaccarono la sua incrollabile fiducia in Dio, la sua preghiera sempre constante e contemplativa, il perfetto esercizio delle virtù, la perfezione della vita religiosa (nonostante i disturbi del nemico), l’amore per l’Eucaristia e un continuo e assorto colloquio con Dio. L’accettazione della croce, della sofferenza e degli ininterrotti supplizi demoniaci fecero della Beata una splendida discepola del Cristo Crocifisso, rinnegato, flagellato, disprezzato: anche Eustochio, umile e abbandonata alla volontà di Dio Padre, accettò tutto per amore e per la salvezza delle anime, cosciente che “il demonio non si dà mai per vinto, mai non perde la speranza di guadagnarci”.

Il demonio cercò di toglierle il velo, lo scapolare, di strozzarla; cercò in ogni modo di farla cadere nello sconforto e nella disperazione riguardo all’amore di Dio per lei, offrendole ogni sorta di lusinga. Allorchè fu chiusa in carcere, le diceva “Prega, piangi, sospira: tutto è perduto. Iddio ti ha rigettata per sempre; tu sei dannata, e molto non andrà che con me dovrai venire nell’Inferno”. Un giorno lo spirito maligno arrivò persino a piantarle un pugnale nel petto, minacciandola che l’avrebbe pugnalata al cuore. Suor Eustochio chiese, invece, al demonio di imprimere nel suo petto il monogramma di Cristo (IHS), e, una volta morta, lavando il corpo le consorelle si accorsero che proprio sul petto aveva impresso il monogramma: il diavolo era stato costretto a sottomettersi e obbedire al desiderio della Santa.

Meditando costantemente la passione e le umiliazioni subite da Gesù, Eustochio riuscì a sconfiggere ogni tentazione, anche quella di abbandonare la vita religiosa, decidendo di rimanere ad espiare la colpa che era stata all’origine della sua nascita proprio là ove si era consumata l’illecita relazione. Era solita dire, con un’affermazione rimasta scolpita nella sensibilità popolare, che “dove era nata per disgrazia, ivi voleva vivere e morire per elezione“. E ancora: “Le mie tribolazioni sono tutte regali e finezze d’amore, che mi fa il mio dolce sposo Gesù, ed io ne sono così contenta, che non le cambierei colle maggiori felicità della terra”.

Solo un secolo più tardi avrà a dire Santa Teresa d’Avila, anche’essa tormentata dal maligno: “Se il Signore è così potente come so e vedo; se i demoni non gli sono che schiavi, come la fede non mi permette di dubitare, che male mi posso fare, se io sono la serva di questo re e Signore? Piuttosto, perché non sentirmi così forte da affrontare l’inferno intero?”. Sembrano proprio parole che si attagliano anche all’esperienza spirituale della monaca padovana.


L’esempio della beata Eustochio è edificante per ogni fedele, incoraggiandolo a lottare la buona battaglia, a confidare in Cristo, a portare la croce, a soffrire con Lui sulla Via del Calvario, ad offrire tutto ciò che Dio, secondo il suo perfetto disegno, permette che accada a “gettare il lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (1 Pt 5,6), a non temere gli assalti, ordinari o straordinari, del maligno ma a resistergli nell’umiltà e nella carità, nella fede in Cristo, a non disperare nella notte delle tenebre ma a fare nostro l’imperativo di Gesù: “Confidite, Ego vinci mundum” (Io 16,33).




[1] Per i riferimenti biografici e le citazioni delle espressioni della Beata Eustochio ho fatto riferimento all’opuscolo di BRAZZALE Mons. Pietro “La Beata Eustochio(Lucrezia Bellini). Una monaca vittoriosa contro satana”, pro manoscritto, 2007, Padova.

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