Le guerre, a cominciare da quella di Troia, spesso hanno avuto bisogno di una copertura ideale capace di bilanciare il sacrificio che portano con sé e di fornire a posteri materiale per ogni epopea. Ne facevano a meno gli spartani che ogni estate invadevano regolarmente l’Attica, e Carlomagno che altrettanto regolarmente scendeva in campo a primavera. Ma normalmente la copertura ideale serve ad alleggerire gli animi e sgombrare le menti e le coscienze, oppure a confonderle totalmente a seconda delle circostanze storiche, ambientali o culturali, e delle esigenze politiche.

La cosa si complica infatti quando la contrapposizione ideale viene utilizzata per nascondere la realtà degli interessi oggettivi in gioco, come giustificazione propria, o come offuscamento delle ragioni altrui, eccetera. 

La guerra odierna vede, come è noto, due attori sulla scena, mentre il protagonista, che ha scritto e curato pure la sceneggiatura, è rimato dietro le quinte, sicuro di poter condurre e regolare tutta la regia, e di fornire anche la morale della favola. Questa è lo strumento indispensabile per tenere a bada gli spettatori, impedire loro di abbandonare lo spettacolo o, peggio, rovesciare le poltrone su cui sono stati fatti accomodare, e restituire il biglietto. 

L’intreccio tra interessi veri e ragioni fasulle, tra motivazioni legittime e finalità camuffate, tra realtà culturali eterogenee e storie incompatibili, cioè la confusione tra realtà e rappresentazione, ovvero tra realtà fattuale e virtuale, diventa la chiave per tenere le masse inchiodate ai posti assegnati, almeno fino a che con la memoria delle cose, nel giro di una generazione, si sbiadisca anche l’interesse a formulare un giudizio oggettivo e plausibile, affare lasciato agli storici di professione. 

Il perno di questa regia è un gioco degli specchi in cui le scambio delle parti e la falsificazione come strumento di conquista e di lotta politica sono determinanti. 

Ha fatto scuola l’uso sistematico adottato da Stalin di attribuire all’avversario che aveva deciso di eliminare il progetto di attentare alla sua vita, nella logica di un contrappasso anticipato. 

Così, la guerra provocata ad arte dagli Stati Uniti con il fine di innescare la distruzione della Russia è stata fotografata immediatamente per il grande pubblico come la conferma inequivocabile di un programma di espansione onnivora verso occidente. Versione accettabile per ogni benpensante telecomandato e di bocca buona, digiuno di storia recente e di geografia, rimasto fermo al libro della guerra fredda, perché più non vi ha letto “avante”, perché a fare di tutta un’erba un fascio si risparmia anche il cervello. 

Costui è pronto per bere d’un fiato stragi camuffate o inesistenti, il riciclo di remote immagini di archivio che tornano buone in ogni evento bellico, fino alla distruzione di gasdotti miliardari da parte di chi, dopo averli costruiti, avrebbe dovuto trarne buoni profitti. 

Per questo la sacra rappresentazione di una guerra ordita dai barbari lanciati alla conquista dell’ovest fino a Lisbona non poteva non avere in primo piano il simulacro della democrazia, quale spartiacque di civiltà. Di qua, nel giardino fiorito di Borrell, c’è la luce della libertà e dell’uguaglianza, di là la tenebra dell’autoritarismo. Pillola che può continuare ad essere somministrata in modo spudorato solo perché il paziente è incapace di coglierne il contenuto surreale, ma anche ridicolo. 

In ogni caso, sotto lo stendardo di un modello politico che assicura a priori una inconfutabile superiorità civilizzatrice, qualunque conflitto programmato e magari realizzato per procura, come nel caso odierno, è a priori una guerra giusta che all’occorrenza diventa anche santa.

Inoltre, non occorrono nuovi motivi ideali con i quali giustificare di fronte al pubblico televisivo mondializzato una nuova guerra per il dominio universale. Dopo quella sedicente liberatrice del secolo scorso, la bandiera da sventolare rimane sempre la stessa. 

L’aspetto surreale di questa operazione truffaldina sta ovviamente anche nella plateale falsificazione in patria proprio dell’ideale fasullo inalberato come fattore decisivo di legittimazione. Una confraternita di illusionisti non potrebbe mostrare più audacia.

Eppure, nonostante la sua grossolanità, pare non si senta affatto il bisogno di smascherare il gioco di prestigio, che finirà assolto ancora una volta per prescrizione dalla memoria collettiva. E questo, quando ormai tutti sanno quale fine eterodiretta abbia fatto la blasonata democrazia rappresentativa occidentale, durata sì e no l’éspace d’un matin, sicché proprio la sua stessa ragione sociale è una insegna arrugginita sopra un negozio chiuso.

Dunque, l’occidente angloamericano pretende di coprire stucchevolmente le proprie mire di controllo e sottomissione universale sotto bandiere ideali fasulle con cui delegittimare, sul piano altrettanto fasullo della contrapposizione ideologica, la sacrosanta esigenza russa di difendere i propri confini da un accerchiamento militare progressivo e potenzialmente fatale. 

Tutto questo non esclude tuttavia che una contrapposizione ideale e ideologica e culturale sia realmente sottesa alla inimicizia politica che separa da sempre questi mondi e che, paradossalmente, si muove su un piano separato e parallelo rispetto a quello dei legami e delle affinità culturali almeno di alcuni dei popoli europei e delle sue classi colte. 

Infatti, l’inimicizia che più o meno si è sempre manifestata storicamente sul versante delle relazioni internazionali non ha corrisposto affatto ad una radicale lontananza culturale e spesso anche affettiva con la gran parte dei popoli europei. Sulle vette spesso insuperate della letteratura russa si sono formate intere generazioni europee, fino ai giorni nostri, e non si possono percorrere a Venezia le “fondamenta degli incurabili” senza avere nel cuore e nel pensiero Broskij e la sua poesia. Non occorre ricordare le interrelazioni nel campo delle arti figurative, della musica, e del patrimonio coreutico che domina tuttora indiscusso tutto uno scenario artistico mondiale. Anzi, proprio la eternità estetica del balletto russo, come quella mistica delle antiche icone, ci dà la misura di una ricchezza spirituale capace di sopravvivere ai tempi, e che ora in noi “occidentali” sembra invece isterilita e negletta. 

Ma c’è sul tappeto anche la “questione morale”. Quella nostra, drammaticamente nostra, ma mutuata da quell’occidente extraeuropeo che è stato il propulsore di un male progressivo e appare oramai quasi incurabile.

Quell’occidente avventizio, che ha preteso di offrire al mondo il modello politico più avanzato e non perfettibile, ha finito per identificare in esso anche ogni sostanza etica. Gli ha conferito il significato religioso di frutto della elezione divina. Quella appunto che, facendo perno sulla giustificazione riservata agli eletti, conduce alla guerra giusta, capace di giustificare anche ogni mezzo.

I nordamericani hanno ridotto la civiltà occidentale alla formula politica di cui si sentono depositari e che ritengono capace di abilitare ogni degenerazione etica. E in via di ricatto economico e militare non esitano a parlare a nome di tutta l’Europa dominata militarmente, che accetta senza ritegno il proprio suicidio culturale. 

Così, sul piano fasullo delle incompatibilità politiche, viene giocata la carta truccata di uno scontro di civiltà su cui appiattire le vicende belliche. Un modo comunque efficace per spegnere le possibilità critiche del cittadino teleguidato. 

Ecco, dunque, il paradosso: da un lato come “valori dell’Occidente” si etichettano le degenerazioni del costume pubblico e privato, la dissoluzione di ogni autentica legge morale e di ogni canone veritativo, sicché nella migliore delle ipotesi essi indicano un contenitore vuoto e, nella peggiore, contenuti moralmente inaccettabili. Dall’altro si irride all’idea che il nemico per il quale è stata organizzata una guerra sanguinosa e fratricida possa sentirsi estraneo proprio sul piano autenticamente etico alla bella “eticità” occidentale. 

L’occidente si è impegnato a scartare a priori, in via mediatica, la possibilità che un diverso scontro di civiltà, se non è stato il fattore determinante di questa guerra, ne rappresenti comunque un corollario importante.

Non può tollerare e tanto meno ammettere che sullo sfondo dello scontro diventato militare vi sia la contrapposizione di due visioni del mondo e la diversità profonda dello spirito che anima le parti in conflitto. Di quello spirito che come sempre è il precipitato della sintesi tra natura e storia, e che ha a che fare con lo spazio e la memoria, e alla fine con il senso della trascendenza. Infatti, quello che sembra continui ad allontanare la Russia dall’occidente a conduzione angloamericana è la conservazione di quello spirito religioso che Dostoevskij ha scavato e vissuto tanto a fondo. Come osservava Sergio Givone, esso è tanto insopprimibile da essersi espresso in senso rovesciato persino nella campagna antireligiosa che ha segnato l’avvento del bolscevismo.

Ed è proprio il sentimento religioso che nella parabola inesorabile del cristianesimo occidentale pare oggi dissolto nel nichilismo diffuso, nella religione laica dello spirito del tempo e delle sue idee dominanti, ridotto all’adorazione di idoli posticci e dei loro protocolli. Il mancato segno della croce di Bergoglio in visita alla salma di un ateo di rango ha rappresentato icasticamente tutto il dissolvimento etico, intellettuale e soprattutto religioso dell’occidente. 

Ma, la stessa possibilità logica di questa separazione etica e spirituale tra i mondi in conflitto, ampiamente teorizzata da Dughin e affiorata anche nei discorsi pubblici del Presidente russo, è stata respinta con sprezzante sufficienza, troppo sprezzante e troppo insistita per non tradire l’esigenza di allontanare la presa di coscienza di una condizione morale, spirituale e culturale priva di significato e che ha la consistenza del nulla. L’uccisione di Darja Dughina, mirata o preterintenzionale che fosse, ha rappresentato la distruzione del contraltare di una propria immagine decomposta, come quella del ritratto di Dorian Gray. Mentre la riduzione giornalistica di quell’assassinio ad un episodio qualunque di lotta politica, oppure di “normale” rappresaglia, sembra confermare il tentativo inconscio di neutralizzare lo spettro scomodo della propria realtà.

Dostoevskij annotava nel Diario quello che può valere ancora oggi quale paradigma di un rapporto in cui tra falsa coscienza e falsi miti l’occidente contaminato e in decadenza mostra anche una desolante incapacità di redenzione. 

Allora, per questione d’Oriente si intendeva lo sforzo della Russia di sottrarre gli altri popoli slavi cristiani alle indicibili vessazioni e violenze perpetrate contro di essi dall’Islam dell’impero turco. Una preoccupazione che da tempo non affligge più la Chiesa né la politica, in medio oriente come in Kossovo. 

“La sete sincera, nobile e incessante del nostro popolo di servire Cristo fin dai tempi più antichi è un fatto straordinario nel carattere del nostro popolo e del nostro Stato. La Russia è forte per opera del suo popolo e dello spirito di questo e non soltanto per opera, mettiamo, della sua cultura, della sua istruzione, delle sue ricchezze ecc., come è nel caso di certi stati europei diventati, per vecchiezza o per avere perduto la vera idea nazionale, delle costruzioni artificiose, non naturali… L’ Europa non comprende per nulla i nostri ideali nazionali, cioè misurandoli col suo stesso metro, ci attribuisce soltanto sete di conquista, di violenze, di sottomissioni di terre….” 

Certo, intanto i tempi sono cambiati, ma solo nel senso che l’Europa è diventata una mera espressione geografica appesa nella stanza dei bottoni del Pentagono.

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