LA COSTITUZIONE: SIMBOLO DELLA PATRIA O COMPENDIO DEL PENSIERO DEBOLE? – di Piero Vassallo

di Piero Vassallo


 

Dietro la cortina dei fumi carboniferi, alzati dai soffiatori politichesi, due scuole di pensiero giocano a nascondino.

La scuola oligarchica, che la delicatezza dei comunicatori organici definisce progressista, pensa che le costituzioni nascano dalla mente dagli alti finanzieri, i soli che sarebbero capaci di creare la nazione dal nulla.

La scuola tradizionale, spiritualmente unita alle imprese cattoliche della popoulace, afferma che la costituzione deve interpretare la legge naturale e l’autobiografia dei popoli.

Nella visione tradizionale la costituzione è infatti una specie di atto notarile, un simbolo del consenso del popolo alla sua storia. Un atto che manifesta la forma culturale ricevuta dalla provvidenza storica e la trasmette allo stato, che deve adempiere a funzioni specialmente delegate dal corpo sociale.

La scelta tra le due dottrine (in radice antitetiche) non può essere evitata, pena l’impianto del dibattito sulle riforme all’interno di una struttura ambigua e ondivaga, bicamerale, per l’appunto.

I rappresentanti della cultura tradizionale, dunque, hanno l’incombenza di contrastare l’inclinazione ad eludere il problema di definire esattamente che cosa è una carta costituzionale, e di riportare il dibattito al piano alto della filosofia del diritto.

Compito arduo, che richiede, preliminarmente, la piena comprensione della posta in gioco nell’attuale dibattito.

La filosofia tradizionale, infatti, deve liberarsi dal gravame delle obiezioni che la opponevano all’idea di dare un fondamento costituzionale alle leggi.

Si tratta di comprendere che tali obiezioni dipendono dall’influenza del pessimismo antropologico di Hobbes, secondo cui il passaggio dalla selvatichezza primitiva all’ordine civile richiede l’azione di un potere estrinseco, in pratica la violenza educatrice dello stato.

L’illuminismo sarebbe coinciso con il pensiero cattolico e avrebbe avuto dalla sua parte la ragione e il diritto, se la sua critica si fosse diretta unicamente all’hobbesismo delle monarchie assolute. Se così fosse stato, oggi si potrebbe predicare la coincidenza dell’illuminismo con i princìpi del diritto naturale.

Se non che il nucleo del progetto illuminista, al contrario di quel che almanaccava Maritain, non era la rivendicazione del diritto naturale. Nel corpo delle dottrine illuministiche il diritto naturale era un’escrescenza avventizia.

Russel Kirk ha dimostrato che i rivoluzionari francesi “tentarono di sostituire alla concezione biblica la dottrina ottimistica della bontà dell’uomo[1], e, in ultima analisi ad escludere il giusto uso della forza.

Del Noce, il giudizio del quale trova autorevole conferma nell’Evangelium Vitae, ha dimostrato esaurientemente che la tradizione illuministica si è separata, senza difficoltà, dai princìpi del diritto naturale ed è regredita alle forme della trasgressione libertina.

Il divorzio tra diritto costituzionale e illuminismo, vale a dire il suicidio della rivoluzione, è la più significativa novità del nostro tempo.  Lo hanno finalmente compreso anche autorevoli intellettuali d’area ex progressista, quali Antonio Baldassarre e Giuliano Amato, che hanno suscitato il dissenso di quarantacinque parlamentari della sinistra.

Se i pensatori tradizionali non vedessero questo cambiamento della scena si dovrebbe parlare di suicidio della tradizione.

Nella vacanza della falsificazione illuministica del diritto naturale, non è dunque irragionevole la proposta d’inserire la costituzione tra le figure ortodosse della filosofia tradizionale.

Ora la legittimazione del costituzionalismo rafforza e non indebolisce la dottrina tradizionale, in vista dell’atteso conflitto con quella devastante versione del positivismo giuridico kelseniano, che ha fondamento nel mito della libertà assoluta.

Di qui la lacuna che la scuola tradizionale deve colmare, per uscire dallo stato di minorità, che la costringe alla condivisione qualunquistica delle idee ricevute.

Ora, affinché il movimento della restaurazione si faccia forte della identità tradizionale, è indispensabile ribadire il suo orientamento popolare, e dichiararlo in opposizione all’indirizzo oligarchico della neosinistra.

Questo significa che,  “a destra”, le fisime elitarie, di solito dettate da suggestioni iniziatiche e massoniche, vanno liquidate senza alcun rimpianto.

Anche da questo punto di vista appare ineludibile la necessità d’inserire la costituzione tra le classiche questioni del diritto naturale.

Alla costituzione va pertanto attribuito il titolo di contratto del popolo con la sua tradizione, un significato diverso  da quello delle costituzioni illuminate e massoniche.

In forza di questo contratto, i costituenti sono, anzi tutto, tenuti a riconoscere l’identità storica della nazione e a compendiare fedelmente i valori tradizionali condivisi.

Una volta redatto questo certificato d’identità, sarà ragionevole produrre l’elenco delle distinte funzioni e dei diversi organi politici ad esse preposti, e stabilire i metodi per selezionare la classe dirigente.

Il procedimento inverso, separare le istituzioni dai concetti, o peggio illudersi che le forme istituzionali siano sufficienti a chiarire il concetto del bene comune conveniente a quel dato popolo, non produrrebbe altro che la metastasi dell’hegelismo confusionario e antiquato della falsa destra e dei rivoluzionari conservatori.

Nella definizione illuministica, e veteroprogressista, il popolo era concepito alla stregua di massa amorfa, alla quale la vita era partecipata dal pensiero degli illuminati, inventori e autori del contratto sociale.

Questa teoria identificava il popolo con la costituzione sovrana e con lo stato,  presunta forma sostanziale della società.

La filosofia hegeliana ha portato alle estreme (e tragiche) conseguenze l’equivoco illuminista, introducendo la nozione dello stato come totalità. Tutto era nello stato, niente fuori dello stato. Nel Novecento la destra e la sinistra hegeliane condividevano questo postulato.

Ora è ovvio, ma non inutile, rammentare le catastrofi prodotte dalla definizione totalitaria di stato-nazione, poiché tale ricordo corrobora il realismo politico e il temperamento dei cattolici.

Nella sola definizione irriducibile al pensiero totalitario, quella tradizionale, il popolo, già organizzato in società, decide di delegare alle istituzioni pubbliche alcune funzioni, che sono utili a sostenere, a sussidiare, l’azione dei privati in vista del bene prescelto.

In questo caso la costituzione non è altro che lo specchio dell’identità nazionale e della sua idea di sviluppo.

L’essenza delle costituzioni sta nell’enunciazione dei princìpi nel preambolo, censimento non creazione dei criteri, che indirizzano gli organi la vita della nazione.

Ora è chiaro che la politica d’ispirazione cristiana non può non riconoscersi nella cultura plebiscitaria. Il fatto che il plebiscitarismo sia ferocemente contestato dalla sinistra oligarchica, è un segnale forte, che sarebbe stoltezza disattendere.

Del resto plebiscito, termine composto da plebs e scitum (da sciscere, in-vocare, esigere, comandare) è un termine che – da solo – esprime l’obiezione formidabile allo stato d’animo prodotta dalla filosofia hobbesiana: sono l’autorità del popolo e la tradizione le fonti dell’ordine politico.

Le obiezioni antihobbesiane di Vico, pertanto, hanno una funzione decisiva nella costruzione della politica dopo la modernità.

In opposizione alla cultura plebiscitaria, la sinistra postmoderna sostiene, e non per caso, l’origine extra storica ed extra popolare dei princìpi, che sono invece dettati – octroyés – dai clubs esclusivi o dal partito unico, oracolo dello Spirito del Tempo e demiurgo del mondo dei valori nuovi e sconosciuti al volgo. Come aveva puntualmente sostenuto Antonio Gramsci nelle pagine dei “Quaderni dal carcere”, che trattano del pensiero dei semplici.

La cultura della sinistra, oggi come nel XVIII secolo, è un formicaio di sedicenti padri della nazione.

I venerati guru, Bobbio, Dossetti, Scalfaro, Scalfari, Valiani, Bocca, Galante Garrone, Galli della Loggia, Ottone, Lerner ecc. hanno imposto una sapienza esclusiva, intesa a riscattare lo spregevole [e spregiato da Gramsci] popolo italiano, a salvarlo dalla deriva plebiscitaria, per condurlo nei sicuri e felici asili del diritto antitaliano e nel falansterio.

La verità è che la neosinistra rappresenta fedelmente l’unione ipostatica dell’autoritarismo deteriore (Hobbes, De Maistre, Schmitt ecc.) e dell’anarchia libertina e francofortese.

Purtroppo un cortese sedativo qualunquista copre di foschia il contrasto tra le due scuole: il dibattito sulle riforme, conseguentemente, si è smarrito nel tedioso sussurro della bicamerale, e nell’evasivo fruscio della televisione colta.

Nell’attuale congiuntura storica, il problema delle riforme costituzionali è falsificato da quel partito invisibile, la radunata dei poteri forti – supermassoneria, banca mangia uomini, club dei miliardari, centri studi mondialisti, lobby e cartelli del vizio – che stanno tentando, con ogni mezzo, e senza avere alcun mandato, di arginare l’insorgenza popolare.

Il primo successo di questa rivoluzione culturale, che procede del tutto inavvertita, è la metamorfosi del movimento marxista: da partito dei lavoratori in partito radicale di massa. Trasformazione avviata con successo dalle sette iniziatiche, dalle case editrici sublimi, dalle cattedra ausiliarie, dai media influenti e ultimamente dalla neodestra illuminata dal niccianesimo di risulta.

I promotori del libertinismo hanno bisogno di guadagnare tempo, per colmare la distanza, che separa il loro pensiero, intrinsecamente nichilista e antitaliano, dalle aspirazioni e dai placebo progressivi, generosamente assunti dagli elettori di sinistra.

Gli elettori delusi, pur fedeli al vecchio partito, non amano la nuova ideologia libertina, che effonde l’odore sgradevole e superbo del boudoir. E’ necessario assuefarli, somministrando caute dosi di permissivismo e di diritti civili. Ma non è facile appagare il desiderio di un mondo migliore proponendo ai danneggiati una politica finalizzata al contenimento del danno da trasgressione.

Ora è impensabile che gli agenti di tale mistificazione, nel momento della loro estrema vulnerabilità, convengano in un serio dibattito sulla costituzione.

Il problema delle false avanguardie non è la costituzione, ma il depistaggio dei critici, ossia anestetizzare la delusione, affondare le inquietudini nella gora delle ciarle televisive.

In effetti la discussione in atto sulle riforme assomiglia ad un vaporoso tip-tap, ritmato da inni evasionistici alla taumaturgia bipolare e altalenante. Le argomentazioni astruse e i cavilli dei costituzionalisti con la paglietta, girano intorno agli spettatori come statue di Dedalo, e procurano un’uggia comatosa. L’effetto desiderato dai superiori occulti.

fcCosì il progetto di cambiare le regole del gioco, fingendo consenso sui valori scritti nella polverosa costituzione del 1948, svanisce come abbaglio in un pensiero notturno.

Il problema delle riforme rimarrà chiusa nell’armadio degli anestetici fino a quando non sarà a tutti chiaro che la strada è ostruita dai rottami della dissolta cultura laica e marxista. E dai poteri forti, guardiani inflessibili sulla soglia del vero ordine civile.

Nel poliverso della sinistra sedotta dai libertini, irretita dagli ecologisti post umani e addomesticata dai pensatori deboli in uscita dalla falsa destra, non c’è spazio per una costituzione divergente dall’ideologia radical-chic, che considera l’autorità quale garante dell’anarchia prossima ventura.

Sotto la protezione grondante del perdonismo a senso unico, l’ex sinistra è destinata a trasformarsi in chiesa della neoreligione, in contraltare del cattolicesimo.

La saturnale contraddizione della sinistra è rappresentata dal potere repressivo – infuriante a senso unico nella patria di Beccaria – e dal concomitante mito della tolleranza, che tutto ammette fuorché la forza della legge morale.

Grazie alla suggestione, che settari diffondono mediante un’implacabile macchina culturale, la tolleranza del male, astro baluginante per l’assenza d’ogni altro principio, è già il valore supremo degli intellettuali dell’ex sinistra e dei loro adepti.

Non appena la filosofia permissiva, invasati gli elettori della sinistra, supererà gli argini storici, la politica sarà posto sopra il piedistallo inattaccabile del relativismo, dell’assoluta, sofistica indifferenza davanti al bene e al male.

Non a caso i messaggi, che la sinistra culturale indirizza alla destra, si traducono in inviti a capire, a tollerare e condividere le trasgressioni.

Un opinionista del mensile “Area” [2], quasi in previsione della metamorfosi gaucciana di Fini, notava che la cultura del nichilismo ebbe un’importanza soverchiante alle origini della destra moderna, prima di diventare “una sorta di ponte, di motivo d’incontro tra destra e sinistra”.

Malauguratamente quest’incontro non ha per oggetto le istanze popolari, ma le dissolventi idee del salotto. Non senza valide ragioni Lucio Colletti definiva i dialoganti di destra “ascari di Cacciari”.

La posizione dei neodestri è speculare a quella degli scolari bolognesi di Maritain e Dossetti, i quali s’illudono di andare incontro al popolo… tendendo le mani all’intellettualismo di Bloy, un autore risplendente nella bacheca di Adelphi.

E’ finalmente visibile la perfetta chiusura del circolo nichilista, da destra a sinistra. La fragilità mentale dei neodestri, non avendo colto l’essenza crepuscolare e sconfittista del pensiero francofortese, attribuisce, infantilmente, un significato politico ad un dialogo che verte sul nichilismo e sull’apolitica.

Cacciari non getta un ponte tra destra sociale e sinistra postcomunista, ma costruisce il circuito della corsa nel vuoto mistico.

L’unanime intonazione di proclami permissivistici, dalle diverse tribune, dei supermassoni, degli intellettuali postmoderni, della primedonne post fasciste, e delle vergini folli del cattocomunismo, rivela, per ora al livello del piccolo teatro babilonese, l’unica possibile armonia di quella destra con quella sinistra.

E’ impossibile non accorgersi che il linguaggio del buonismo cacciariano coincide con quello della permissività radicale: Dio non esiste, anzi si è sdoppiato e pertanto tutto è consentito ai buoni. La ferale Politeia di Cacciari è fondata sulla bontà. Siate buoni, spirituali e spalmati come la placida Nutella.

Ecco: lo spettacolo virtuale fa nuove e virtuose tutte le cose. Scroscia l’applauso, e la vita diventa spettacolo d’intrattenimento, dove il Conduttore Incognito cava armonie dall’effervescenza conformistica e dalla vertigine in passerella.

La condivisione si riduce ad effetto speciale, chi non beve con i buoni/duoni peste lo colga. La repubblica apocalittica di Cacciari sarebbe la rappresentazione tragica dei pensieri profondi del cabaret. Un maquillage del nichilismo, eseguito con belletto lagunare.

Oggi è ridicolo credere nell’esistenza di princìpi condivisibili, come quelli posti a fondamento della costituzione del 1947.

Allora il conflitto tra cattolici e marxisti fu composto grazie ad un compromesso verbale, che poneva il lavoro a fondamento della repubblica.

Il compromesso, poi, reggeva su una finzione, in pratica sull’occultamento delle diverse e incompatibili nozioni di lavoro: per i cattolici il lavoro era (ed è) l’adempimento del comando divino “dominate la terra”; per i comunisti la distruzione dell’esistente da parte dell’umanità ateista. Ma all’interno dell’armoniosa finzione un accordo era possibile.

Oggi è quella finzione a venir meno: il dilagante radicalismo ha affondato i comunisti in una religione atea e regressiva, impiantata nel cabaret di Vendola.

Dal deserto è esclusa anche la mitologia operaista, sistematicamente sottoposta ad una critica stizzosa e implacabile, da parte dei neopagani, diventati padroni della cultura pidiessina.

La prima parte della costituzione del 1948 è un feticcio al quale presta fede solamente la diafana comunità dossettiana.

Il vuoto, la forbice tra l’ideologia invasata e l’elettorato di sinistra, offre un formidabile strumento di propaganda al Matteo Renzi, prodiano mascherato da nuovo.

Ora l’alternativa al regime crepuscolare sta nel sentimento della gente comune, nella popoulace [3], che, nei secoli bui della rivoluzione, ha vittoriosamente contrastato lo spurgo del boudoir.

La questione delle riforme deve essere strappata all’oligarchia e portata nel cuore vivo della piazza italiana, dove i princìpi tradizionali ricevono il consenso della maggioranza, refrattaria all’ideologia nichilista.

Nelle piazze verrebbe fuori la verità, che il palazzo vuole ad ogni costo costringere sotto la coperta del tecnicismo giuridico: le idee del partito radicale di massa sono condivise da una risibile minoranza di snob, nutriti dalle quisquilie adelphiane di Repubblica.

 



[1] Cfr. “Le radici dell’ordine americano”, a cura di Marco Respinti, Leonardo Mondadori, Milano, ottobre 1996, pag. 37.

[2] Nicola Ponte, “Attenti alle sirene del grande Nulla”, in “Area”, anno I, n. 7, ottobre 1996, pag. 83-85.

[3] L’ingente folla che ha partecipato alla marcia romana per la vita, ad esempio.

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