LA CRISI POLITICA IN ITALIA – di Costantino Marco

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di Costantino Marco

 

 

 

 

pcdA partire dalla costituzione della Repubblica, la storia politica dell’Italia si sviluppa come un processo critico, segnato da fasi più o meno lunghe e significative che vanno dal centrismo fino alla cd. “seconda Repubblica”, attraverso il centro-sinistra, il penta-partito, l’emergenza terroristica, l’affaire Moro, tangentopoli, il tandem Lega Nord- Berlusconi e infine la cogestione delle larghe intese tra partiti antagonistici. Lo stesso movimento di protesta delle “Cinque Stelle”, con la sua critica ai partiti organizzati e la sua guida carismatica elettoralmente non responsabile, non fa che accentuare il processo di privatizzazione della politica tipico del regime repubblicano, che pure verbalmente contesta, e che la figura di Berlusconi ha portato al parossismo, concentrando sulla “sua” politica l’attenzione di molta parte della magistratura, impegnandola sul fronte della legalità politica non meno che su quello della criminalità organizzata.

Ogni decennio di questa Repubblica è stato contrassegnato da una qualche “svolta” politica, cioè da un riassetto del potere partitocratico, che periodicamente trova equilibri più congeniali alla sopravvivenza di un regime parlamentaristico fondato sul compromesso politico-ideologico di quelle oligarchie socio-culturali che, in nome della comune ideologia anti-fascista, hanno definito a propria immagine ideale e misura politica il nuovo Stato democratico, di cui la Costituzione è il testo formale.

La tara d’origine della Repubblica, da cui discendono tutti i vizi politici e le storture storiche del regime, è nella stessa struttura ideologica della Costituzione, la quale comprende nelle sue diverse sezioni le diverse visioni ideologiche dei movimenti che l’hanno patrocinata, secondo un criterio compromissorio e di reciproca tolleranza, che rappresenta il modello dei futuri rapporti parlamentari tra i partiti democratici che l’hanno redatta, sottoscritta e difesa.

La prima, per ordine cronologico e d’importanza storica, anomalia politica del regime repubblicano è stata, dopo l’esautorazione della Monarchia, l’identificazione dello Stato con il sistema parlamentare, e delle sue funzioni amministrative e di governo con l’attività dei partiti, cioè di organizzazioni private aventi una informale ma sostanziale funzione pubblica. La conseguenza di questa identificazione di uno scopo privato con una funzione pubblica è stata la progressiva privatizzazione della vita politica nazionale, con la sostituzione inevitabile degli interessi particolari con quelli generali e comuni. Da questa privatizzazione della politica discendono sia la perenne condizione di guerra civile tra i partiti elettoralmente concorrenti, che la conseguente instabilità dei governi parlamentari costituiti su un precario compromesso dei diversi interessi sociali rappresentati dalle relative parti politiche, sicché l’intera attività politica dello Stato si costituiva come la ricerca di un temporaneo quanto precario equilibrio di interessi particolari politicamente componibili ai fini della costituzione di una  maggioranza di governo. Questa ricerca compromissoria e l’esito di essa sono indicati nell’Italia repubblicana come “attività politica” e, rispettivamente, “attività di governo”, coi risultati che abbiamo sotto gli occhi.

Il risultato istituzionale è stato la destrutturazione dello Stato, divenuto non la casa comune ma una cittadella da assaltare come un “forno” manzoniano, al fine di consolidare gli interessi delle truppe elettorali, con la sostituzione di fatto, ma sancita per principio, della politica degli interessi privati concorrenti in vista del potere pubblico, con l’esercizio del governo della cosa pubblica secondo l’etica del bene comune.

Il risultato civile è stato la sostituzione di ogni etica pubblica con il partitismo amorale delle fazioni politicamente organizzate. La privatizzazione della funzione politica, con la conseguente scomparsa della autonoma funzione di governo di un organismo non rappresentativo di interessi di parte, rigorosamente escluso dalla Costituzione repubblicana, ha provocato la dissoluzione nelle nuove generazioni italiane di ogni senso etico comune, fondativo della comunità civile e regolativo della moralità pubblica, la cui portata pedagogicamente devastante è paragonabile solo alla similare devastazione della civiltà europea perpetrata dalle altre forme di democrazia istituite dalle ideologie socialistiche nei paesi d’oltre cortina, che ripresero con rinnovato vigore iconoclastico l’opera annichilente della rivoluzione francese. Non a caso motivi razionalistici e socialistici tanta parte hanno nella definizione ideologica della Costituzione della repubblica, nei motivi programmatici e nella sua struttura istituzionale.

Il risultato economico è stato la sovrapposizione di una amministrazione politicamente controllata dello sviluppo nazionale a una autonoma struttura produttiva in grado di valutare tempi e modi della crescita economica complessiva di una realtà storicamente frastagliata come quella italiana, con la conseguenza persistenza delle contraddizioni regionali e la sostituzione del criterio dell’assistenza pubblica al sottosviluppo politicamente controllato a quello di una autonoma crescita politicamente assistita.

Il risultato sociale è stato il cronico divario tra un’Italia legalmente controllata dall’amministrazione pubblica degli interessi privati, e un’Italia autarchicamente gestita dai medesimi interessi privati, inevitabilmente illeciti. Queste due Italie sociali hanno potuto politicamente convivere in ragione, la prima, della assistenza economica fornita dallo Stato attraverso l’elefantiasi del settore pubblico e l’erogazione per la copertura relativa di enormi risorse finanziarie che hanno garantito, col reddito assicurato a milioni di impiegati pubblici, il consenso elettorale al regime politico; e, la seconda, della garanzia politica di una sostanziale anarchia di ampi settori economici che ha consentito il loro sviluppo parallelo a quello legale, oscillante variamente dalla piccola frode fiscale a scopo di sopravvivenza alla mastodontica organizzazione criminosa di portata affaristica internazionale.

Il risultato culturale è stato l’impoverimento intellettuale progressivo delle nuove generazioni a seguito della maldestra gestione politica del patrimonio della memoria ideale collettiva – della “cultura” appunto – da parte di una classe dirigente dedita all’attività politica professionale in ragione della sua povertà culturale, e perciò selezionata sulla base dei suoi interessi privati a sostenere un tale regime anti-culturale, che si è caratterizzato per aver distrutto il patrimonio culturale nazionale. A partire dalla scuola pubblica, diventata ricettacolo di ogni mediocrità intellettuale, funzionale, per un verso, a garantire l’occupazione massiccia di personale docente e amministrativo altrimenti disoccupato e perciò politicamente incontrollabile, e per l’altro a neutralizzare l’intelligenza critica dei giovani attraverso l’opposta pedagogia della rassegnata mediocrità all’intrascendibile presente, e della protesta inconcludente in vista di un eterno futuro.

In una tale situazione, prodottasi nel corso di lunghi decenni di sistematica devastazione del patrimonio morale italiano e della sua civiltà – da parte di una dirigenza politica culturalmente inconsapevole, perché barbara per origine sociale, quasi esclusivamente popolare, e per formazione intellettuale, quasi sempre di prima generazione e meramente ideologica -, parlare di “crisi economica” dell’Italia, significa misconoscere per insipienza o scientemente occultare i veri problemi nazionali, che si compendiano tutti nella necessità di superare la parentesi storica rappresentata dal regime politico repubblicano attraverso: a) la ridefinizione di un nuovo assetto istituzionale dello Stato, radicalmente nuovo rispetto a quello disegnato dalla Costituzione vigente, ideologicamente anacronistica già al tempo del suo varo perché trascrittiva di istanze ideali appartenenti ai due secoli precedenti il Novecento, b) la formazione di una nuova classe dirigente che sia valida interprete della realtà internazionale in cui l’Italia si trova oggi inserita, sollevando la società nazionale dalla sua attuale dipendenza cronica dal potere politico ed economico partitocratico, in vista di una rinascita locale non politicamente assistita ma in grado di costituire una autonoma risorsa nazionale.

All’uopo, il motivo politico è indissolubilmente congiunto a quello culturale, per cui non ci potrà essere rinascita politica senza rinascita spirituale. L’Italia ha bisogno, non di nuovi partiti, ma di una nuova idea della politica, ossia di una rinnovata visione degli interessi pubblici, che soltanto una nuova definizione di Stato, di società e di cittadinanza potranno fornire.

Trattandosi di un nuovo rinascimento spirituale e civile dell’Italia, a questo compito, intimamente religioso perché coinvolgente ogni dimensione della vita morale e pratica delle persone e dei gruppi sociali, locali e nazionali, non può sottrarsi la Chiesa, rappresentativa della stessa identità spirituale dell’Europa, e la cui vocazione cattolica è intimamente legata all’universalismo della civiltà europea.

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