Per gentile concessione del direttore, prof. Brunero Gherardini, pubblichiamo qui il testo inalterato di un articolo del prof. Pasqualucci, apparso sul n. 2 – 2011 della rivista Divinitas, alle pp. 163-187.
di Paolo Pasqualucci
primo capitolo
1. È lecito ridiscutere le ambiguità del Vaticano II? Sembra che molti ancora oggi ritengano impossibile persino proporre una domanda del genere, per il semplice motivo che l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II dovrebbe considerarsi dogmatico. Perché ha definito nuovi dogmi o semplicemente in quanto Concilio ecumenico? Se non per il primo, per il secondo motivo, si dice. Infatti, due costituzioni del Vaticano II si fregiano del titolo di “dogmatiche”, ma la cosa appare inspiegabile dal momento che esse non definiscono nuovi dogmi, non condannano solennemente errori né vogliono espressamente conferire la nota della dogmaticità al loro insegnamento complessivo.
Resta allora il secondo motivo. Ma può l’insegnamento di un Concilio ecumenico che ha voluto essere dichiaratamente solo pastorale (Nota praevia in calce alla Cost. “dogmatica” Lumen gentium) assumere per noi credenti la stessa autorità di un concilio espressamente dogmatico, quale ad esempio il Tridentino o il Vaticano primo? E per di più un Concilio che ha voluto proporre una pastorale insolita, dato che essa mirava espressamente ad “aggiornare” la dottrina, la pastorale, la prassi stessa della Chiesa al modo di sentire del mondo moderno, promuovendo a questo fine una riforma radicale di tutta la Chiesa militante, a cominciare dalla Liturgia?
Questo Concilio è sempre apparso a molti del tutto atipico, e non tanto perché solo pastorale quanto per via dell’intenzione cui la sua pastorale mirava. E la sua atipicità sembra confermata dal fatto che si fatica (mi sembra) ad inquadrarne l’insegnamento nella categoria tradizionale (quella del magistero straordinario) che il diritto canonico applica alla dottrina dei concili ecumenici, se è vero, com’è vero, che fonti autorevoli hanno dovuto descriverla, questa dottrina, in modo del tutto anodino, come “magistero autentico non infallibile”(1).
Il mio studio, di prossima pubblicazione, del quale sono onorato di poter offrire qui una breve sintesi, prende in esame la cristologia del Vaticano II. Ad essa il Concilio non ha dedicato alcun documento specifico. Tuttavia, l’art. 22 della costituzione conciliare Gaudium et spes sulla Chiesa ed il mondo contemporaneo, articolo il cui tema è: “Cristo, l’uomo nuovo”, ricapitola la cristologia sempre insegnata dalla Chiesa, mettendo a fuoco, in particolare, il significato che bisogna attribuire alla natura umana del Signore. Questo significato non può naturalmente esser concepito in contraddizione con il dogma della fede. Ma il concetto di Incarnazione che si ricava dall’art. 22 GS è sempre apparso a non pochi interpreti notevolmente ambiguo. Nel mio studio, pertanto, cerco, per quanto sta alle mie capacità, di dipanare questa ambiguità, approfondendo al massimo l’analisi filologico–grammaticale del testo, sino al riscontro di tutti i rinvii alle fonti citate in nota al testo stesso.
2. Una nuova ed ambigua concezione dell’Incarnazione. Nell’art. 22.2 della Gaudium et spes, si afferma che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo Se univit). Come si giunge ad una simile proposizione, che colpisce per la sua novità nonché per una certa, immediata ambiguità, derivante a prima vista dall’uso dell’avverbio “in certo modo”? Se Nostro Signore si è unito solo “in certo modo”, dobbiamo intendere quest’unione unicamente in senso simbolico, ovvero morale? E se sì, che cosa vorrebbe dire ciò, che ognuno di noi è stato in certo modo divinizzato dall’Incarnazione di Nostro Signore? Ma anche senza l’inciso in questione, l’idea stessa dell’incarnazione di Nostro Signore come “unione con ogni uomo” appare tutt’altro che chiara, dal momento che, secondo il dogma, noi sappiamo essersi Egli unito (nell’unione ipotastica) esclusivamente alla natura umana di quell’uomo che è stato l’ebreo Gesù di Nazareth; unita, quindi, la Sua divinità (pur mantenendosi essa indivisa e distinta) alla natura umana di un solo uomo, in un unico individuo, un uomo in carne e ossa, la cui esistenza storica è stata ampiamente provata. Come mai il Concilio, in modo del tutto atipico, ci viene a parlare dell’Incarnazione come di un’unione di Nostro Signore “con ogni uomo”? Che significa?
L’art. 22 GS è incluso nel cap. I di quella costituzione, dedicato alla “Dignità della persona umana” (artt. 12-22). L’articolo vuol connettere la dignità della persona umana alla divinità di Cristo, il quale costituisce, come sappiamo, il modello dell’uomo nuovo ovvero del cristiano, in quanto peccatore pentito che si rigenera vivendo secondo l’insegnamento dello stesso Cristo (Gv 3, 3-8). L’argomento dell’articolo è in effetti: “Cristo, l’uomo nuovo”. Si tratta di una terminologia tradizionale, che il testo conciliare, seguendo comunque la tradizione, più che al Vangelo di Giovanni riconduce alla Lettera ai Romani, al suo cap. 5, nel quale S. Paolo enuncia il dogma del peccato originale, contrapponendo il primo Adamo (“figura di Colui che doveva venire”) a Cristo, che è allora il “nuovo Adamo”, come ripete l’art. 22 GS, nel primo paragrafo.
“Reapse nonnisi in mysterio Verbi incarnati mysterium hominis vere clarescit. Adam enim, primus homo, erat figura futuri [Rm 5, 14; Tert., De carnis resurr.,6] scilicet Christi Domini. Christus, novissimus Adam, in ipsa revelatione mysterii Patris Eiusque amoris, hominem ipsi homini plene manifestat eique altissimam eius vocationem patefacit. Nil igitur mirum in Eo praedictas veritates suum invenire fontem atque attingere fastigium” (GS 22.1).
Afferma, dunque, il Concilio che, in questo “nuovo Adamo”, Cristo, rivelando il mistero del Padre e del Suo amore per l’uomo, “svela anche pienamente l’uomo a se stesso”. Svelandolo a se stesso, “gli manifesta la sua altissima vocazione”. Si intende: “l’altissima vocazione” dell’uomo. Ciò stabilito, prosegue il testo, diventa allora evidente “la sorgente” delle “verità esposte intorno all’uomo”. Di quali verità si tratta? Di quelle enucleate nei paragrafi precedenti del cap. I della costituzione, dall’art. 12 in poi. La prima verità è quella che l’uomo è stato “creato ad immagine di Dio”: per questo motivo, esso possiede la sua “dignità e vocazione”. La dignità dell’uomo appare poi dalla “dignità della sua intelligenza e saggezza”, che lo conducono “a cercare e ad amare il vero” (art. 15); dalla dignità della propria “coscienza morale” (art. 16) e dalla “grandezza della sua libertà” (art. 17).
Questa vera e propria esaltazione della “dignità” e della “grandezza” dell’uomo, l’art. 22.1 la innesta sulla tradizionale dottrina di Cristo come “nuovo Adamo”. Ma è lecito un simile connubio? La domanda mi sembra del tutto legittima perché la celebre frase–chiave: “rivelando il mistero del Padre e del Suo amore, Cristo svela anche l’uomo a se stesso e gli rivela la sua altissima vocazione”, non proviene da S. Paolo, né come frase né come concetto. Proviene, invece, solo leggermente modificata, da Catholicisme di de Lubac, che la ricava da un’interpretazione distorta di Gal 1, 15-16.
Come è noto, la frase di cui sopra è già stata criticata efficacemente dal cardinale Siri, in Getsemani. Il cardinale accusava giustamente de Lubac di manipolazione del testo sacro, di voler annullare la distinzione tra la natura ed il Soprannaturale, divinizzando in tal modo l’uomo. La critica di Siri a de Lubac è considerata del tutto pertinente anche da Johannes Dörmann, il quale sosteneva che la formulazione del testo di GS 22.1 risaliva in ultima analisi proprio ad Henri de Lubac(2). Quest’idea dello “svelamento dell’uomo a se stesso” tramite Cristo, non come peccatore destinato alla riprovazione eterna se non si redime in Cristo, ma, al contrario, come portatore di una dignità che ne manifesterebbe “l’altissima vocazione”, costituisce un concetto–chiave dell’art. 22 e, a ben vedere, dell’intera pastorale deuterovaticana. Con quest’idea si inizia il discorso che si conclude alla fine con il peculiare concetto di Incarnazione che si è visto.
1) Sull’assurdità teologica del voler considerare dogmatico il Vaticano II, vedi le fondamentali precisazioni di B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. UN DISCORSO DA FARE, Casa Mariana Ed., Frigento (AV), 2009, pp. 23-24. Vedi anche i cap. 2 – Valore e limiti del Vaticano II (pp. 47-65) e 5 – La Tradizione nel Vaticano II (pp. 109-133).
2) G. Siri, Getsemani, 2a ed., Ediz. della Fraternità della Santissima Vergine Maria, Roma, 1987, pp. 55-56; J. Dörmann, Der theologische Weg Johannes Pauls II, Sitta Verlag, Senden, 1990, I, p. 92 ss., 112 ss.