La devozione al Sacro Cuore di Gesù. Magistero del Venerabile Papa Pio XII

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

HAURIETIS AQUAS

SULLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE DI GESÙ

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Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e agli altri Ordinari locali
che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.

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Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

«Voi attingerete con gaudio le acque dalle fonti del Salvatore »(1). Queste parole, con le quali il profeta Isaia simbolicamente preannunziava le molteplici e abbondanti benedizioni di Dio, che l’era messianica avrebbe apportato, spontanee ritornano sulle Nostre labbra, allorché diamo uno sguardo ai cento anni che sono trascorsi da quando il Nostro Predecessore di imm. mem. Pio IX, ben lieto di assecondare i voti del mondo cattolico, si compiaceva di estendere e rendere obbligatoria per la Chiesa intera la Festa del Cuore Sacratissimo di Gesù.

Innumerevoli, infatti, sono le grazie celesti che il culto tributato al Cuore Sacratissimo di Gesù ha trasfuso nelle anime dei fedeli; grazie di purificazione, di sovrumane consolazioni, di incitamento alla conquista di ogni genere di virtù.

Noi pertanto, memori della sapientissima sentenza dell’apostolo S. Giacomo: « Ogni donazione buona e ogni dono perfetto viene dall’alto e scende dal Padre de’ lumi »(2), a buon diritto possiamo scorgere in questo culto, divenuto ormai universale e ogni giorno sempre più fervoroso, il dono che il Verbo Incarnato, nostro Salvatore divino e unico Mediatore di grazia e di verità tra il celeste Padre e il genere umano, ha fatto alla Chiesa, sua mistica Sposa, in questi ultimi secoli della sua travagliata storia. Grazie a questo dono d’inestimabile valore, la Chiesa può agevolmente manifestare l’ardente carità che essa nutre verso il suo Divin Fondatore e corrispondere in più larga misura all’invito che l’evangelista S. Giovanni riferisce come rivolto da Gesù Cristo stesso: « Nell’ultimo gran giorno della festa, Gesù levatosi in piedi, diceva ad alta voce: “ Chi ha sete, venga da me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal ventre di Lui sgorgheranno torrenti d’acqua viva ”. Ciò Egli disse dello Spirito che dovevano ricevere i credenti in Lui(3). Agli uditori di Gesù non fu certamente difficile cogliere in quelle sue parole, che contenevano la promessa di una sorgente di «acqua viva » che sarebbe scaturita dal suo seno, una chiara allusione ai vaticini con i quali i profeti Isaia, Ezechiele e Zaccaria predicevano l’avvento del Regno Messianico, come pure alla tipica pietra che, percossa dalla verga di Mosè, versò acqua in abbondanza(4).

La carità divina ha in realtà la sua principale sorgente nello Spirito Santo, ch’è Amore personale sia del Padre che del Figlio in seno all’augustissima Trinità.

Ben a ragione quindi l’Apostolo, quasi facendo eco alle parole di Gesù Cristo, attribuisce allo Spirito Santo l’effusione della carità nell’animo dei credenti: « La carità di Dio si è riversata nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato »(5).

Questo strettissimo nesso, che secondo le parole della S. Scrittura intercorre tra la carità che deve ardere nei cuori dei cristiani e lo Spirito Santo, ch’è Amore per essenza, ci manifesta in modo mirabile, Venerabili Fratelli, l’intima natura stessa di quel culto che è da tributarsi al Cuore Sacratissimo di Gesù. Se è vero, infatti, che questo culto, considerato nella sua propria essenza, è un atto eccellentissimo della virtù di religione, cioè un atto di assoluta e incondizionata sottomissione e consacrazione da parte nostra all’amore del Redentore Divino, di cui è indice e simbolo quanto mai espressivo il suo Cuore trafitto; è vero parimente, ed in un senso ancora più profondo, che tale culto è il ricambio dell’amore nostro all’Amore Divino. Poiché soltanto per effetto della carità si ottiene la piena e perfetta sottomissione dello spirito umano al dominio del Supremo Signore, allorché cioè gli affetti del nostro cuore in tal modo aderiscono alla divina volontà da formare con essa quasi una cosa sola, secondo che è scritto: « Chi aderisce al Signore forma un solo spirito con Lui »(6).

I

Ma, mentre la Chiesa ha sempre tenuto in alta considerazione il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù, così da favorirne in ogni modo il sorgere e il propagarsi in mezzo al popolo cristiano, non mancando altresì di difenderlo apertamente contro le accuse diNaturalismo e di Sentimentalismo; è da lamentare che non uguale onore e stima, sia nei tempi passati che ai giorni nostri, questo nobilissimo culto gode presso alcuni cristiani e talvolta anche presso alcuni di coloro, che pur si dicono animati da sincero zelo per gli interessi della religione cattolica e per la propria santificazione.

« Se tu conoscessi il dono di Dio »(7). Ecco, Venerabili Fratelli, il paterno monito che Noi, chiamati per divina disposizione ad essere custodi e dispensatori del tesoro di fede e di pietà, che il divin Redentore ha affidato alla sua Chiesa, Ci sentiamo in dovere di rivolgere a tutti quei Nostri figli; i quali, nonostante che il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù, trionfando degli errori e della indifferenza degli uomini, abbia pervaso il Mistico Corpo del Salvatore, nutrono ancora dei pregiudizi a riguardo e giungono persino a ritenerlo meno rispondente, per non dire dannoso, alle necessità spirituali più urgenti della Chiesa e dell’umanità nell’ora presente.

Taluni, infatti, confondendo o equiparando l’indole primaria di questo culto con le varie forme di devozione che la Chiesa approva e favorisce, ma non prescrive, lo stimano quasi come alcunché di superfluo, che ciascuno può praticare o no a suo arbitrio; altri, poi, stimano che questo stesso culto sia oneroso e di nessuno o ben modesto vantaggio specialmente per i militanti del Regno di Dio, preoccupati soprattutto di consacrare il meglio delle loro energie spirituali, dei loro mezzi e del loro tempo alla difesa e alla propaganda della verità cattolica, alla diffusione della dottrina sociale cristiana e all’incremento di quelle pratiche e opere di religione, che giudicano molto più necessarie per i tempi nostri; vi sono inoltre alcuni, i quali anziché riconoscere in questo culto un mezzo efficacissimo per l’opera di rinnovamento e di progresso dei costumi cristiani, sia degli individui che delle famiglie, vi vedono una forma di devozione pervasa piuttosto di sentimento che di nobili pensieri ed affetti, e perciò più confacente al femmineo sesso che alle persone colte.

Vi sono anche altri, i quali, ritenendo questo culto come troppo vincolato agli atti di penitenza, di riparazione e di quelle virtù che stimano piuttosto « passive », perché prive di appariscenti frutti esteriori, lo giudicano senz’altro meno idoneo a rinvigorire la spiritualità moderna, cui incombe il dovere dell’azione aperta e indefessa per il trionfo della fede cattolica e la strenua difesa dei costumi cristiani, in mezzo ad una società inquinata di indifferentismo religioso, incurante di ogni norma discriminatrice del vero dal falso nel pensiero e nell’azione, ligia ai princìpi del materialismo ateo e del laicismo.

Come non vedere, Venerabili Fratelli, lo stridente contrasto tra simili opinioni e le pubbliche attestazioni di stima per il culto al S. Cuore di Gesù, professate dai Nostri Predecessori su questa cattedra di verità? Come giudicare inutile o meno adatta per l’epoca nostra quella forma di pietà, che il Nostro Predecessore di imm. mem. Leone XIII non esitò a definire: « pratica religiosa encomiabilissima »; e nella quale additava il rimedio a quegli stessi mali, individuali e sociali, che anche oggi, e indubbiamente in modo più vasto ed acuto, travagliano l’umanità? « Questa devozione, che a tutti consigliamo, asseriva Egli, sarà a tutti di giovamento ». Ed inoltre, aggiungeva questi ammonimenti ed esortazioni, che ben si addicono anche al culto verso il Cuore sacratissimo di Gesù: « Di fronte alla minaccia di gravi sciagure che già da molto tempo sovrasta, è urgente che si ricorra, per scongiurarle, all’aiuto di colui che soltanto, ha la potenza per allontanarle. E chi altri potrà essere costui, se non Gesù Cristo. l’Unigenito di Dio? Poiché non c’è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspettarci d’essere salvati»(8). « A Lui dunque si deve ricorrere, che  è via, verità e vita »(9).

Né meno degno di encomio e giovevole per fomentare la pietà cristiana riconosceva essere questo culto il Nostro immediato Predecessore di fel. mem. Pio XI, il quale nell’Enciclica Miserentissimus Redemptor affermava: «Non son forse racchiusi in tale forma di devozione il compendio di tutta la religione cattolica e quindi la norma della vita più perfetta, costituendo essa la via più spedita per giungere alla conoscenza profonda di Cristo Signore e il mezzo più efficace per piegare gli animi ad amarLo più intensamente e ad imitarLo più fedelmente? »(10).

A Noi poi, non certamente meno che ai Nostri Predecessori, questa sublime verità è apparsa evidente e degna di approvazione; ed allorché iniziammo il Nostro Pontificato, nel contemplare il felice e quasi trionfale incremento del Culto al Cuore Sacratissimo di Gesù in mezzo al popolo cristiano, sentimmo il Nostro animo ricolmo di gioia e Ci rallegrammo degli innumerevoli frutti di salvezza che ne erano derivati a tutta la Chiesa; e questi Nostri sentimenti Ci compiacemmo di manifestare già nella prima Nostra Lettera Enciclica(11). I quali frutti, in questi lunghi anni del Nostro Pontificato — pieni di calamità e di angustie, ma anche ricolmi di ineffabili consolazioni — non sono andati diminuendo né per numero né per qualità né per bellezza, ma piuttosto aumentando. Infatti, varie sono state le opere felicemente iniziate allo scopo di favorire l’incremento sempre maggiore di questo stesso culto: associazioni cioè di cultura, di pietà e di beneficenza; pubblicazioni di carattere storico, ascetico e mistico pertinenti a tale scopo; pie pratiche di riparazione; e soprattutto crediamo degne di menzione le manifestazioni di ardentissima pietà promosse dall’Associazione dell’« Apostolato della Preghiera », al cui zelo si deve principalmente se famiglie, istituti e talvolta anche Nazioni intere si sono consacrate al Cuore Sacratissimo di Gesù; per le quali manifestazioni di culto non di rado, o mediante Lettere, o per mezzo di Discorsi, o anche servendoCi di Radiomessaggi, abbiamo espresso la Nostra paterna compiacenza(12).

Pertanto, commossi nel veder tanta copia di acque salutari, cioè di effusione celestiale di amore superno, che scaturendo dal Sacro Cuore del nostro Redentore, non senza l’ispirazione e l’azione del Divino Spirito, si è riversata su innumerevoli figli della Chiesa Cattolica, non possiamo astenerCi, Venerabili Fratelli, dal rivolgervi un paterno invito, affinché vi uniate a Noi nello sciogliere un inno di somma lode e di fervidissime azioni di grazie a Dio, largitore di ogni bene, esclamando con l’Apostolo: « A Lui che può far tutto, ben al di là di quel che noi domandiamo, o pensiamo, secondo la virtù che opera in noi, a Lui sia la gloria nella Chiesa, e in Cristo Gesù per tutte le generazioni nei secoli dei secoli. Amen »(13). Ma, dopo aver reso all’Altissimo le dovute grazie, Noi desideriamo con questa Lettera Enciclica di esortar voi e tutti gli amatissimi figli della Chiesa ad una più attenta considerazione di quei princìpi dottrinali, contenuti nella S. Scrittura, nei Ss. Padri e nei teologi, sui quali, quasi su solidi fondamenti, poggia il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù. Siamo infatti pienamente persuasi che soltanto allorché, al lume della divina rivelazione, avremo penetrato più a fondo l’intima ed essenziale natura di questo culto, saremo in grado di convenientemente e perfettamente apprezzarne l’incomparabile eccellenza e l’inesauribile fecondità di ogni sorta di celesti grazie, e per tal modo trarre, dalla pia meditazione e contemplazione dei benefici da esso derivati, motivo a una degna celebrazione del primo centenario dell’estensione della festa obbligatoria del Cuore Sacratissimo di Gesù alla Chiesa universale.

Allo scopo, dunque, di offrire alle menti dei fedeli un pascolo di salutari riflessioni, grazie alle quali essi possano più facilmente comprendere la natura di questo culto e ricavarne più copiosi frutti, Noi ci soffermeremo anzitutto su quelle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, che contengono la rivelazione e descrizione dell’infinita carità di Dio per il genere umano, la cui sublime grandezza mai potremo sufficientemente scrutare; poi accenneremo al commento che ce ne hanno lasciato i Padri e i Dottori della Chiesa; infine, procureremo di porre in evidenza il nesso intimo che intercorre tra la forma di devozione da tributarsi al Cuore del Redentore Divino e il culto che gli uomini sono tenuti a rendere all’amore che Egli e le altre Persone della Santissima Trinità nutrono verso l’intero genere umano. Stimiamo infatti che, una volta contemplati alla luce della S. Scrittura e della Tradizione i fondamenti e gli elementi costitutivi di questo nobilissimo culto, riuscirà più agevole ai cristiani l’attingere « con gaudio le acque dalle fonti del Salvatore »(14), apprezzare cioè tutta l’importanza che il culto al Cuore Sacratissimo di Gesù ha assunto nella Liturgia della Chiesa, nella sua vita interna ed esterna, ed anche nelle sue opere; per tal modo, sarà più facile ad essi raccogliere quei frutti spirituali, che segnino un rinnovamento salutare nei loro costumi, conforme ai voti dei Pastori del gregge di Cristo.

Se vogliamo in primo luogo ben comprendere il valore racchiuso in alcuni testi dell’Antico e del Nuovo Testamento in ordine a questo culto, occorre tener ben presente il motivo del culto di latria che la Chiesa tributa al Cuore del Redentore divino. Orbene, come voi ben sapete, Venerabili Fratelli, tale motivo è duplice. L’uno, cioè, che è comune anche alle altre sacrosante membra del corpo di Gesù Cristo, è costituito dal fatto che il suo Cuore, essendo una parte nobilissima dell’umana natura, è unito ipostaticamente alla Persona del Verbo di Dio; pertanto, esso è meritevole dell’unico e identico culto di adorazione con cui la Chiesa onora la Persona dello stesso Figlio di Dio Incarnato. Si tratta di una verità di fede cattolica, essendo stata solennemente definita nei Concili Ecumenici di Efeso e II di Costantinopoli(15). L’altro motivo, che appartiene in modo speciale al Cuore del Divin Redentore, e che perciò conferisce al medesimo un titolo tutto proprio a ricevere il culto di latria, risulta dal fatto che il suo Cuore, più di ogni altro membro del suo corpo, è l’indice naturale, ovvero il simbolo della sua immensa carità per il genere umano. « È insita nel Sacro Cuore, come osservava il Nostro Predecessore Leone XIII di imm. mem., la qualità di simbolo e di espressiva immagine dell’infinita carità di Gesù Cristo, che ci stimola a ricambiarlo col nostro amore »(16).

È fuor di dubbio che nei Libri Sacri non si hanno mai sicuri indizi di un culto di speciale venerazione e di amore, tributato al Cuore fisico del Verbo Incarnato, per la sua prerogativa di simbolo della sua accesissima carità. Ma questo fatto, se è doveroso apertamente riconoscerlo, non ci deve recar meraviglia, né in alcun modo indurci a dubitare che la carità, la quale è la ragione principale di questo culto, sia nell’Antico, che nel Nuovo Testamento, è esaltata e inculcata con immagini tali, da commuovere potentemente gli animi. Queste immagini, poiché sono contenute nei Libri Sacri che preannunziavano la venuta del Figlio di Dio, fatto uomo, possono considerarsi come un presagio di quello che doveva essere il più nobile simbolo e indice dell’amore divino, cioè del Cuore sacratissimo e adorabile del Redentore Divino.

Per quanto riguarda lo scopo della presente Lettera non crediamo necessario addurre molte testimonianze dei libri dell’Antico Testamento, nei quali sono contenute le prime verità divinamente rivelate; ma stimiamo sia sufficiente far rilevare che l’Alleanza stipulata tra Dio e il popolo eletto e sancita con vittime pacifiche — le cui leggi fondamentali, scolpite su due tavole, furono promulgate da Mosè(17) e interpretate dai Profeti — fu un patto oltre che fondato sui vincoli di supremo dominio da parte di Dio e di doverosa ubbidienza da parte dell’uomo, consolidato e vivificato, anche dai più nobili motivi dell’amore. Infatti, anche per il popolo d’Israele la ragione suprema della sua obbedienza doveva essere non tanto il timore dei divini castighi, che i tuoni e le folgori sprigionantisi dalla vetta del Sinai incutevano negli animi, quanto piuttosto il doveroso amore verso Dio; « Ascolta, Israele: il Signore Dio nostro è il solo Signore. Amerai il Signore Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Queste parole che io oggi ti bandisco, staranno nel tuo cuore »(18).

Non deve pertanto meravigliare se Mosè e i Profeti, che a buon diritto l’Angelico Dottore chiama i « maggiori »(19) del popolo eletto, ben comprendendo che il fondamento di tutta la Legge era riposto in questo comandamento dell’amore, hanno descritto tutti i rapporti esistenti tra Dio e la sua Nazione ricorrendo a similitudini tratte dal reciproco amore tra padre e figli, o dall’amore dei coniugi, piuttosto che rappresentarli con immagini severe ispirate al supremo dominio di Dio, o alla dovuta e timorosa servitù di noi tutti.

Così, ad esempio, Mosè stesso, nel celeberrimo suo cantico di liberazione del popolo dalla schiavitù dell’Egitto, volendo significare che essa era avvenuta per l’intervento onnipossente di Dio, ricorre a queste espressioni ed immagini, che riempiono l’animo di commozione: « Com’aquila che addestra al volo i suoi piccoli e vola sovr’essi, stese le sue ali (il Signore), sollevò Israele, e lo portò sulle sue spalle »(20).

Ma forse nessun altro tra i Profeti, meglio di Osea, manifesta e descrive con accenti veementi l’amore, mai venuto meno, di Dio verso il suo popolo Nel linguaggio infatti di questo eccellentissimo tra i Profeti minori per profondità di concetti e concisione di espressioni, Dio manifesta un tale amore verso il Popolo Eletto, cioè giusto e santamente sollecito, qual’è appunto l’amore di un padre misericordioso e amorevole, o di uno sposo adirato per il suo onore offeso. È un amore, che, lungi dal venir meno alla vista di mostruose infedeltà e di ignobili tradimenti, prende sì da essi motivo per infliggere ai colpevoli i meritati castighi — non già per ripudiarli e abbandonarli a se stessi — ma soltanto allo scopo di vedere la sposa resasi estranea e infedele, ed i figli ingrati, pentirsi, purificarsi e tornare a riunirsi con Lui con rinnovati e più solidi vincoli di amore. « Quando era fanciullo Israele, io l’amai e dall’Egitto ho chiamato il figlio mio… Ed io ho fatto da balia ad Efraim; ho portato essi in braccio, ma non compresero la cura ch’io avevo di loro. Li ho attirati a me con attrattive piene d’umanità e con vincoli d’amore… Io sanerò le loro piaghe, li amerò spontaneamente, perché la mia collera si è da loro allontanata. Sarò come rugiada, e Israele fiorirà come giglio e dilaterà radici come il Libano »(21).

Accenti simili a questi risuonano sulle labbra del profeta Isaia, allorché, impersonando gli opposti sentimenti di Dio stesso e del Popolo Eletto, esce in queste espressioni: « Sion aveva detto: “ Il Signore mi ha abbandonato, il Signore si è scordato di me! ”. Potrà forse una donna dimenticare il suo bambino, da non sentire più compassione per il figlio delle sue viscere? e se pur questa lo potrà dimenticare, io non mi dimenticherò mai di te! »(22). Né meno commoventi sono le espressioni, con le quali l’Autore del Cantico dei Cantici, servendosi del simbolismo dell’amore coniugale, dipinge con vividi colori i legami di vicendevole amore, che uniscono fra loro Dio e la Nazione da Lui prediletta: «Come un giglio fra gli spini, così l’amica mia tra le fanciulle!… Io sono del mio diletto, e il mio diletto è per me, egli che pascola tra i gigli… Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore, inesorabile come gli Inferi la gelosia: le sue fiaccole sono fiaccole di fuoco e di fiamme»(23).

Tuttavia questo tenerissimo, indulgente e longanime amore di Dio, che, pur sdegnandosi per le ripetute infedeltà del popolo di Israele, mai giunse a ripudiarlo definitivamente, benché siasi manifestato come veemente e sublime, non fu in sostanza che preludio di quell’ardentissima carità, che il Redentore promesso avrebbe riversato dal suo amantissimo Cuore su tutti, e che sarebbe dovuta divenire il modello del nostro amore e la pietra angolare della Nuova Alleanza. Solo infatti Colui che è l’Unigenito del Padre e il Verbo fatto carne « pieno di grazia e di verità »(24), essendosi avvicinato agli uomini, oppressi da innumerevoli peccati e miserie, poté far scaturire dalla sua umana natura, unita ipostaticamente alla sua Divina Persona, « una sorgente di acqua viva », che irrigasse copiosamente l’arida terra dell’umanità e la trasformasse in giardino fiorente e fruttifero.

È nel profeta Geremia che si ha un lontano presagio di questo stupendo prodigio, che sarebbe stato l’effetto del misericordiosissimo ed eterno amore di Dio: « D’un amore eterno ti ho amato e perciò ti ho tirato a me pieno di compassione… Ecco che verranno giorni, dice il Signore, e io stringerò con la casa di Israele e con la casa di Giuda una nuova alleanza… Questa sarà l’alleanza che avrò stretta con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Io metterò la mia legge nel loro interno e la scriverò nel loro cuore, e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo…; perché farò grazia alle loro iniquità e del loro peccato non mi ricorderò più »(25).

II

Ma soltanto dai Vangeli veniamo a conoscere con perfetta chiarezza che la nuova Alleanza stipulata tra Dio e l’umanità — di cui si erano avuti la prefigurazione simbolica nell’alleanza sancita tra Dio e il popolo d’Israele per mezzo di Mosè e il preannunzio nel vaticinio di Geremia — è quella stessa che è stata attuata mediante l’opera conciliatrice di grazia del Verbo Incarnato. Questa Alleanza è da stimarsi incomparabilmente più nobile e più solida, perché, a differenza della precedente, non è stata sancita nel sangue di capri e di vitelli, ma nel Sangue sacrosanto di Colui, che quegli stessi pacifici ed irrazionali animali avevano prefigurato come « l’Agnello che toglie il peccato del mondo »(26).

Ebbene, l’Alleanza Messianica, più ancora che l’antica, si manifesta chiaramente come un patto non ispirato da sentimenti di servitù e di timore, ma da quella specie di amicizia, che deve regnare nelle relazioni tra padre e figli, essendo essa alimentata e consolidata da una più munifica elargizione di grazia divina e di verità, conforme alla sentenza dell’Evangelista S. Giovanni: « E della pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto, e grazia su grazia. Perché la legge è stata data da Mosè; la grazia e la verità sono venute da Gesù Cristo »(27).

Introdotti con queste parole del «Discepolo prediletto da Gesù, quegli che durante la cena aveva posato il capo sul petto di Gesù »(28), nel mistero stesso dell’infinita carità del Verbo Incarnato, è cosa degna e giusta, equa e salutare, che noi ci soffermiamo alquanto, Venerabili Fratelli, nella contemplazione di così soave mistero, affinché, illuminati dalla luce che su di esso riflettono le pagine del Vangelo, possiamo anche noi esperimentare il felice adempimento del voto che l’Apostolo formulava scrivendo ai fedeli di Efeso: « Cristo dimori nei vostri cuori per mezzo della fede, e voi, radicati e fortificati in amore, siate resi capaci di comprendere con tutti i santi quali siano la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità, e intendere quest’amore di Cristo che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio »(29).

Il Mistero della Divina Redenzione, infatti, è propriamente e naturalmente un mistero di amore: un mistero, cioè, di amore giusto da parte di Cristo verso il Padre celeste, cui il sacrificio della Croce, offerto con animo amante ed obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante ed infinita per le colpe del genere umano: «Cristo, soffrendo per carità ed ubbidienza, offrì a Dio qualche cosa di maggior valore, che non esigesse la compensazione per tutte le offese a Dio fatte dal genere umano »(30). Inoltre, il Mistero della Redenzione è un mistero di amore misericordioso dell’Augusta Trinità e del Redentore divino verso l’intera umanità, poiché questa, essendo del tutto incapace di offrire a Dio una soddisfazione degna per i propri delitti(31), Cristo, mediante le inscrutabili ricchezze di meriti, che si acquistò con l’effusione del suo preziosissimo Sangue, poté ristabilire e perfezionare quel patto di amicizia tra Dio e gli uomini, ch’era stato una prima volta violato nel Paradiso terrestre per colpa di Adamo, e poi innumerevoli volte per le infedeltà del Popolo Eletto.

Pertanto il Divin Redentore — nella sua qualità di legittimo e perfetto Mediatore nostro — avendo, sotto lo stimolo di una accesissima carità per noi, conciliato perfettamente i doveri e gli impegni del genere umano con i diritti di Dio, è stato indubbiamente l’autore di quella meravigliosa conciliazione tra la divina giustizia e la divina misericordia, che costituisce appunto l’assoluta trascendenza del mistero della nostra salvezza, così sapientemente espressa dall’Angelico Dottore in queste parole: «Giova osservare che la liberazione dell’uomo, mediante la passione di Cristo, fu conveniente sia alla sua misericordia che alla sua giustizia. Alla giustizia anzitutto, perché con la sua passione Cristo soddisfece per la colpa del genere umano: e quindi per la giustizia di Cristo l’uomo fu liberato. Alla misericordia, poi, poiché, non essendo l’uomo in grado di soddisfare per il peccato inquinante tutta l’umana natura, Dio gli donò un riparatore nella persona del Figlio suo. Ora questo fu da parte di Dio un gesto di più generosa misericordia, che se Egli avesse perdonato i peccati senza esigere alcuna soddisfazione. Perciò sta scritto: “ Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre colpe, ci richiamò a vita in Cristo” »(32).

Ma, affinché possiamo veramente, per quanto è consentito a uomini mortali, « comprendere con tutti i santi, quali siano la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità(33) dell’arcana carità del Verbo Incarnato verso il suo celeste Padre e verso gli uomini macchiati di tante colpe; occorre tener ben presente che il suo amore non fu unicamente spirituale, come si addice a Dio, poiché « Iddio è spirito »(34). Indubbiamente d’indole puramente spirituale fu l’amore nutrito da Dio per i nostri progenitori e per il popolo ebraico; perciò, le espressioni di amore umano, sia coniugale che paterno, che si leggono nei Salmi, negli scritti dei Profeti e nel Cantico dei Cantici, sono indizi e simboli di una dilezione verissima ma del tutto spirituale, con la quale Dio amava il genere umano; al contrario, l’amore che spira dal Vangelo, dalle lettere degli Apostoli e dalle pagine dell’Apocalisse, dov’è descritto altresì l’amore del Cuore di Gesù Cristo, non comprende soltanto la carità divina, ma si estende ai sentimenti dell’affetto umano. Per chiunque fa professione di fede cattolica è questa una  verità inconcussa. Il Verbo di Dio, infatti, non ha assunto un corpo illusorio e fittizio, come già nel primo secolo dell’era cristiana osarono affermare alcuni eretici, attirandosi la severa condanna dell’apostolo S. Giovanni: «Poiché sono usciti per il mondo molti seduttori, i quali non confessano che Gesù Cristo sia venuto nella carne. Questo è il seduttore e l’anticristo »(35); ma Egli ha unito alla sua divina Persona una natura umana individua, integra e perfetta, concepita nel seno purissimo di Maria Vergine per virtù dello Spirito Santo(36). Niente dunque mancò alla natura umana assunta dal Verbo di Dio; in verità, Egli la possedette senza alcuna diminuzione, senza alcuna alterazione, tanto nei suoi elementi costitutivi spirituali quanto nei corporali, vale a dire: dotata di intelligenza e di volontà, e delle altre facoltà conoscitive interne ed esterne; dotata parimenti delle potenze affettive sensitive e di tutte le loro corrispondenti passioni. È questo l’insegnamento della Chiesa Cattolica, sanzionato e solennemente confermato dai Romani Pontefici e dai Concili Ecumenici: « Integro nelle sue proprietà, integro nelle nostre »(37); « perfetto nella Divinità ed Egli stesso perfetto nell’umanità »(38); « tutto Dio (fatto) uomo, e tutto l’uomo (sussistente in) Dio »(39).

Non essendovi allora alcun dubbio che Gesù Cristo abbia posseduto un vero corpo umano, dotato di tutti i sentimenti che gli sono propri, tra i quali ha chiaramente il primato l’amore, è altresì verissimo che Egli fu provvisto di un cuore fisico, in tutto simile al nostro, non essendo possibile che la vita umana, priva di questo eccellentissimo membro del corpo, abbia la sua connaturale attività affettiva. Pertanto il Cuore di Gesù Cristo, unito ipostaticamente alla Persona divina del Verbo, dovette indubbiamente palpitare d’amore e di ogni altro affetto sensibile; questi sentimenti, però, erano talmente conformi e consonanti con la volontà umana, ricolma di carità divina, e con lo stesso infinito amore, che il Figlio ha comune con il Padre e con lo Spirito Santo, che mai tra questi tre amori s’interpose alcunché di contrario e discorde(40).

Tuttavia, il fatto che il Verbo di Dio abbia assunto una vera e perfetta natura umana, e si sia plasmato e quasi modellato un cuore di carne, che, non meno del nostro, fosse capace di soffrire e di essere trafitto, questo fatto, diciamo, se non è visto e considerato nella luce, la quale emana non solo dall’unione ipostatica e sostanziale, ma anche dalla verità della umana Redenzione, ch’è, per così dire, il complemento di quella, potrebbe ad alcuni apparire « scandalo » e « stoltezza », come infatti tale sembrò « Cristo Crocifisso » ai Giudei e ai Gentili(41). Orbene, i Simboli della fede, perfettamente concordi con le Divine Scritture, ci assicurano che il Figlio Unigenito di Dio ha assunto la natura passibile e mortale in vista principalmente del Sacrificio cruento della croce, che Egli desiderava offrire allo scopo di compiere l’opera dell’umana salute. È questo del resto, l’insegnamento espresso dall’Apostolo delle genti: « Poiché sia chi santifica sia i santificati provengono tutti da uno; è per questo che non ha scrupolo di chiamarli fratelli dicendo: « Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli ». E ancora: « Eccomi, io e i figlioli che Dio mi ha dato ». Poiché dunque i figliuoli partecipano del sangue e della carne, anch’egli ugualmente ne ebbe parte… « Ond’è ch’egli doveva in tutto essere fatto simile ai suoi fratelli, per diventare misericordioso e fedele sacerdote nelle cose divine, affinché fossero espiate le colpe del popolo. Perché appunto per essere stato provato lui e avere sofferto, per questo può venire in aiuto a quelli che sono nella prova »(42).

I Santi Padri, veridici testimoni della divina rivelazione, ben compresero, dietro il chiaro insegnamento dell’Apostolo Paolo, che il mistero dell’amore divino è in pari tempo il fondamento e il culmine sia dell’Incarnazione, sia della Redenzione. Infatti, nei loro scritti sono frequenti e luminosi i passi, nei quali si  legge che lo scopo per cui Gesù Cristo assunse una natura umana integra e un corpo caduco e fragile come il nostro, fu appunto quello di provvedere alla nostra salvezza e di manifestare a noi nel modo più evidente il suo amore infinito, compreso quello sensibile.

San Giustino, quasi facendo eco alle parole dell’Apostolo, scrive: « Noi adoriamo ed amiamo il Verbo, nato dall’ingenito e ineffabile Dio; Egli in verità si è fatto uomo per noi, affinché, resosi partecipe delle nostre umane affezioni, recasse ad esse il rimedio »(43). San Basilio, poi, il primo dei tre Padri Cappadoci, afferma decisamente che gli affetti sensibili di Cristo furono ad un tempo veri e santi: « Benché sia a tutti noto che il Signore ha assunto gli affetti naturali per confermare la realtà dell’Incarnazione, vera e non fantastica; tuttavia Egli respinse da sé gli affetti disordinati, che inquinano la purezza della nostra vita, perché li ritenne indegni della sua incontaminata divinità »(44). Anche per San Giovanni Crisostomo, il più illustre decoro della Chiesa Antiochena, le emozioni sensibili, cui andò soggetto il Redentore divino, cooperarono mirabilmente a comprovare che Egli aveva assunto una natura umana integra sotto ogni aspetto: « Infatti, se Egli non fosse stato composto della nostra natura, non avrebbe pianto per ben due volte »(45).

Fra i Padri Latini meritano di essere ricordati coloro, che la Chiesa onora oggi tra i principali suoi Dottori. Così Sant’Ambrogio vede nell’unione ipostatica la sorgente naturale delle affezioni e commozioni sensibili, cui andò soggetto il Verbo di Dio fatto uomo: «Pertanto, poiché Egli assunse l’anima, ne assunse parimente le passioni; in quanto Dio, infatti, com’Egli era, non avrebbe potuto né turbarsi né morire »(46). Anche San Girolamo dall’esistenza in Cristo di quelle affezioni sensibili trae l’argomento più persuasivo per asserire ch’Egli aveva realmente assunto l’umana natura: Il Signor nostro, per manifestare che aveva veramente unito alla sua Persona la natura dell’uomo, soggiacque veramente alla tristezza(47).

Sant’Agostino poi con particolare insistenza rileva l’intimo nesso che esiste tra le affezioni sensibili del Verbo Incarnato e il fine dell’umana redenzione: « Ora il Signore Gesù assunse questi sentimenti della fragile natura umana, come la carne stessa che fa parte dell’inferma natura dell’uomo, e la morte dell’umana carne, non spinto da bisogno della sua condizione divina, ma stimolato dalla sua libera volontà di usarci misericordia; allo scopo, cioè, di offrire in se stesso il modello da imitare al suo corpo, che è la Chiesa, di cui si degnò di farsi capo, vale a dire, alle sue membra, che sono i suoi santi e i suoi fedeli; in modo che se ad alcuno di loro, sotto l’assalto delle umane tentazioni, accadesse di rattristarsi e soffrire, non per ciò stimasse di essersi sottratto all’influsso della sua grazia; e comprendesse che tali affezioni non sono di per sè peccati, ma solo indizi dell’ umana passibilità. Così il suo Mistico Corpo, simile ad un coro di voci che s’accorda a quella di chi dà l’intonazione, avrebbe imparato dal suo proprio Capo »(48).

Più concisamente, ma non meno efficacemente dei precedenti, manifestano la dottrina della Chiesa i seguenti testi di San Giovanni Damasceno: «Certamente, tutto Dio ha assunto tutto ciò ch’è in me uomo, e tutto si è unito a tutto, affinché arrecasse la salvezza a tutto l’uomo. Poiché, altrimenti, non avrebbe potuto essere sanato ciò che non fosse stato assunto »(49). « Cristo dunque, assunse tutti gli elementi componenti l’umana natura, affinché li santificasse tutti »(50).

È doveroso tuttavia riconoscere che né gli Autori sacri, né i Padri della Chiesa, sia nei testi riferiti che in molti altri simili, pur affermando chiaramente la realtà delle affezioni sensibili, che commovevano l’animo di Gesù Cristo, e pur mettendo in stretto rapporto l’assunzione dell’umana natura con lo scopo della nostra eterna salvezza prefissosi da Cristo, mai pongono in esplicito rilievo il nesso esistente tra quegli stessi affetti e il cuore fisico del Salvatore, così da indicare in esso espressamente il simbolo del suo amore infinito.

Ma, se gli Evangelisti e gli altri scrittori ecclesiastici non ci rivelano direttamente gli effetti vari che nel ritmo pulsante del Cuore del Redentore nostro, non meno vivo e sensibile del nostro, dovettero indubbiamente produrre le passioni del suo animo e il ridondante amore della sua duplice volontà, divina ed umana, essi mettono però in evidenza l’amore e tutti gli altri sentimenti con esso connessi, cioè: il desiderio, la letizia, la tristezza, il timore, l’ira, secondo che si manifestavano attraverso il suo sguardo, le parole, i gesti. E principalmente il Volto adorabile del Salvatore nostro dovette apparire l’indice e quasi lo specchio fedelissimo di quelle affezioni, che, commovendo in vari modi il suo animo, a somiglianza di onde che si ripercuotono sulle opposte rive, raggiungevano il suo Cuore santissimo e ne eccitavano i battiti. In verità, anche a proposito di Cristo vale quanto l’Angelico Dottore, ammaestrato dalla comune esperienza, osserva in materia di psicologia umana e dei fenomeni ad essi connessi: «Il turbamento prodotto dall’ira raggiunge anche le membra esterne; e soprattutto si fa notare in quelle membra, nelle quali più apertamente si riflette l’influsso del cuore, come negli occhi, nel volto e nella lingua »(51).

A buon diritto, dunque, il Cuore del Verbo Incarnato è considerato come il principale simbolo di quel triplice amore, col quale il Divino Redentore ha amato e continuamente ama l’Eterno Padre e l’umanità. Esso, cioè, è anzitutto il simbolo dell’amore, che Egli ha comune col Padre e con lo Spirito Santo, ma che soltanto in Lui, perché Verbo fatto carne, si manifesta attraverso il fragile e caduco velo del corpo umano, « poiché in Esso abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità »(52). Inoltre, il Cuore di Cristo è il simbolo di quell’ardentissima carità, che, infusa nella sua anima, costituisce la preziosa dote della sua volontà umana e i cui atti sono illuminati e diretti da una duplice perfettissima scienza, la beata cioè e l’infusa(53). Finalmente — e ciò in modo ancor più naturale e diretto — il Cuore di Gesù è il simbolo del suo amore sensibile, giacché il corpo del Salvatore divino, plasmato nel seno castissimo della Vergine Maria per influsso prodigioso dello Spirito Santo, supera in perfezione e quindi in capacità percettiva ogni altro organismo umano(54).

Edotti allora dai Sacri Testi e dai simboli di fede della perfetta consonanza ed armonia regnante nell’anima santissima di Gesù Cristo, e dell’aver Egli diretto al fine della nostra Redenzione tutte le manifestazioni del suo triplice amore, noi possiamo con ogni sicurezza contemplare e venerare nel Cuore del Divin Redentore l’immagine eloquente della sua carità e il documento dell’avvenuta nostra redenzione, come pure quasi la mistica scala per salire all’amplesso di « Dio Salvatore nostro »(55). Perciò nelle parole, negli atti, negli insegnamenti, nei miracoli e specialmente nelle opere che più luminosamente testimoniano il suo amore per noi — come l’istituzione della divina Eucaristia, la sua dolorosa Passione e Morte, la donazione della sua Santissima Madre, la fondazione della Chiesa, la missione dello Spirito sugli Apostoli e su tutti i credenti — in tutte queste opere, ripetiamo, noi dobbiamo ammirare altrettante testimonianze del suo triplice amore; e meditare i battiti del suo Cuore, con i quali sembrò che Egli misurasse gli attimi di tempo del suo pellegrinaggio terreno, fino al supremo istante, in cui, come ci attestano gli Evangelisti: « Gesù, dopo aver di nuovo gridato con gran voce, disse: È compiuto. E chinato il capo, rese lo spirito »(56). Fu allora che il battito del suo Cuore si arrestò, e il suo amore sensibile rimase come sospeso fino all’istante della Risurrezione gloriosa. Unitasi quindi nuovamente l’anima del Redentore vittorioso  della morte al suo corpo glorificato, il Cuore suo Sacratissimo riprese il suo battito regolare e da allora non ha mai cessato né cesserà di significare, con ritmo ormai divenuto per sempre calmo e imperturbabile, il triplice amore che vincola il Figlio di Dio al suo celeste Padre e all’intera comunità umana, di cui è, con pieno diritto, il Mistico Capo.

NOTE

Is., XII, 3.

Iac., I, 17.

Ioann., VII, 37-39.

4 Cf. Is., XII, 3; Ez., XLVII, 1-12; Zach., XIII, 1; Ex., XVII, 1-7; Num., XX, 7-13; I Cor., X, 4; Apoc., VII, 17; XXII, 1.

Rom., V, 5.

I Cor., VI, 17.

Ioann., IV, 10.

Act., IV, 12.

9 Enc. Annum Sacrum, 25 Maii 1899; Acta Leonis, vol. XIX, 1900, pp. 71, 77-78.

10 Enc. Miserentissimus Redemptor, 8 Maii 1928: A.A.S., XX, 1928, p. 167.

11 Cf. Enc. Summi Pontificatus, 20 Octob. 1939: A.A.S., XXXI, 1939, p. 415

12 Cf. A.A.S., XXXII, 1940, p. 276; XXXV, 1943, p. 170; XXXVII, 1945, pp. 263-264; XL, 1948, p. 501; XLI, 1949, p. 331.

13 Eph., III, 20-21.

14 Is., XII, 3.

15 Conc. Ephes., can. 8; cf. Mansi, Sacrorum Conciliorum Ampliss. Collectio, IV, 1083 C.; Conc. Const. II, can. 9; Cf. ibidIX, 382 E.

16 Cf. Enc. Annum sacrumActa Leonis, vol. XIX, 1900, p. 76.

17 Cf. Ex., XXXIV, 27-28.

18 Deut., VI, 4-6.

19 Sum. Theol., II-II, q. 2, a. 7; ed. Leon., tom. VIII, 1895, p. 34.

20 Deut., XXXII, 11.

21 Os., XI, 1. 3-4; XIV, 5-6.

22 Is., XLIX, 14-15.

23 Cant., II, 2; VI, 2; VIII, 6.

24 Ioann., I, 14.

25 Ier., XXXI, 3; 31. 33-34.

26 Cf. Ioann., I, 29; Hebr., IX, 18-28; X, 1-17.

27 Ioann., I, 16-17.

28 Ioann., XXI, 20.

29 Eph., III, 17-19.

30 Sum. Theol., III, q. 48, a. 2; ed. Leon., tom. XI, 1903, p. 464.

31 Cf. Enc. Miserentissimus RedemptorA.A.S., XX, 1928, p. 170.

32 Eph., II, 4; Sum. Theol., III, q. 46, a. 1 ad 3; ed. Leon., tom. XI, 1903, p. 436.

33 Eph., III, 18.

34 Ioann., IV, 24.

35 II Ioann., 7.

36 Cf. Luc., I, 35.

37 S. Leo MagnusEpist. dogm. « Lectis dilectionis tuae » ad Flavianum Const. Patr., 13 Iun., a. 449; cf. P.L., LIX, 763.

38 Conc. Chalced., a. 451; cf. MansiOp. cit. VII, 115 B.

39 S. Gelasius Papa, tract. III: « Necessarium » de duabus naturis in Christo, cf. A. ThielEpist. Rom. Pont. a S. Hilaro usque ad Pelagium II, p. 532.

40 Cf. S. Thom., Sum. Theol., III, q. 15, a. 4; q. 18, a. 6; ed. Leon. tom. XI, 1903, p. 189 et 237.

41 Cf. I Cor., 1, 23.

42 Hebr., II, 11-14; 17-18.

43 Apol., II, 13: P.G., VI, 465.

44 Epist. 261, 3: P.G., XXXII, 972.

45 In Ioann., Homil. 63, 2: P.G., LIX, 350.

46 De fide ad Gratianum, II, 7, 56: P.L., 594.

47 Cf. Super Matth., XXVI, 37: P.L., XXVI, 205.

48 Enarr. in Ps. LXXXVII, 3: P.L., XXXVII, 1111.

49 De Fide Orth., III, 6: P.G., XCIV, 1006.

50 Ibid., III, 20: P.G., XCIV, 1081.

51 SumTheol., I-II, q. 48, a. 4; ed. Leon., tom. VI, 1891, p. 306.

52 Col., II, 9.

53 Cf. Sum. Theol., III, q. 9, aa. 1-3: ed. Leon., tom. XI, 1903, p. 142.

54 Cf. Ibid., III, q. 33, a. 2 ad 3m; q. 46, a. 6: ed. Leon. tom. XI, 1903, pp. 342, 433.

55 Tit., III, 4.

56 Matth., XXVII, 50; Ioann., XIX, 30.

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fonte: Sito della Santa Sede

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