Oggi siamo malati di parole, perché siamo sommersi dalle parole in tutte le direzioni: stampa, radio, televisione… con le risorse infinite della tecnica che ci bombardano di parole da ogni parte, non ci lasciano neppure un cantuccio per l’intimità della gioia e del dolore, della speranza e della disperazione. Ormai non potremo difenderci più dalle parole, che si sono fatte più penetranti e corrosive delle termiti, perché hanno la penetrazione affine all’energia primordiale della materia che le veicola all’anima indifesa e incapace di porre un valido argine.
Cornelio Fabro
di Piero Vassallo
Quando la realtà avanza, l’illusione rincula, quasi eseguendo una mossa del rituale massonico: l’iniziato di classe sociale inferiore risponde con un passo indietro al movimento dell’iniziato di rango superiore, che gli si fa democraticamente incontro.
Il linguaggio ridiventa lo specchio della realtà, il pensiero ideologico si barrica nel cabaret, tra scurrili lazzi e frizzi deprimenti.
Fausto Gianfranceschi, nel magnifico “Elogio della nostalgia”, ha rammenta che l’ultima parola della modernità è discarica, il contenitore dei pensieri fossili e degli uomini antiquati.
Con la rivoluzione dell’Ottantanove, osservava dal suo canto Riccardo Pedrizzi, il linguaggio è diventato lo strumento di un moto perpetuo, indirizzato alla trasformazione magica della società: “Nacque un linguaggio del tutto nuovo al servizio del progetto politico rivoluzionario, che aveva lo scopo unico di riformare la natura umana, di rendere migliore la società, di rigenerare la nazione” [1].
Nel regno della mitologia rivoluzionaria, ultimamente si aggirano i moncherini/spezzatini dei proclami, che tuonavano nell’inebriante e imperiosa cinematografia sovietica.
Non segni di concetti, ma suoni disarticolati/sgangherati, fluttuano tra l’oscenità, la flatulenza deodorata dal piccolo schermo e il rictus.
Il razionalismo fu. Ultimamente ne parla, con frizzante/sferzante ironia, la delusione di Raffaele Perrotta: “Il LogoCentrismo non sta più nella pelle, vuole capovolgere altezze e sottostrati della dialettica in ad infinitum: non vuole sentir ragioni, è esso stesso la Ragione del disporsi al Caso alto semantema” [2].
L’inquieta pelle delle parole, agitandosi, squarcia la rilegatura e mette a nudo l’idiozia del Sommo Libro.
Che cosa ne è, infine, dell’aureo volume che tramandava le magiche sentenze del LogoCentrismo, l’enciclopedia illuminante/folgorante dell’imparruccato monsieur Jean-Baptiste Le Rond d’Alambert?
Braccate dal delirio sadiano, le incipriate parole abbandonano i libri del secolo vanaglorioso e scendono nel torbido cabaret postmoderno.
La storia dell’apostasia, ultimamente scivola sul pentagramma del parolame, sculettante e vaselinoso.
Geniale e beffardo esploratore della profondità vertiginosa in cui sono cadute le parole della burocrazia intellettuale, Raffaele Perrotta incalza: “E la filosofia? Suo distinguersi in altezzosità. filosofia su quel tratto che va da filia a sofia: e ritornare di parole a parole, parole e corrusche tempestosamente. ¡come è sfilacciato questo tuo volume senza una sosta perché possa riassumersene la lettura!” [3].
Le parole del 1789 si disperdono in dis-ordine, come i soldati del maresciallo Pietro Badoglio l’otto settembre del 1943. Tutti a casa, ma dove abitano – adesso – i fonemi che non hanno più né capo né coda?
L’utopia, travestita da annuncio messianico, dominava un imponente arco babilonese, esteso dal putrido salotto alla sacrestia sgangherata.
Adesso l’utopia è ridotta a mal partito dall’impeto dei concetti in libera uscita dal suo ventre molle.
La politica italiana si chiude in una oscura, scomposta sciarada o meglio in un fluttuante valzer di statuine. Il presepe ateista snocciola una sciarada surreale e sgangherata: Monti – la Banca mangiauomini – l’avarizia del clero progressista – il pio Alfredo Mantovano – il liberaltradizionalismo dei viennesi – Fini palombaro – Gaucci nel talamo vuoto – la nuda proprietà a Montecarlo – la destra nudista – il card. Bertone – il laicismo da salotto – l’on. Tronco della Vedova – la Destra dei rinoceronti sull’asfalto – il pio Vendola – l’Osservatore romano – Marco Taradasch – Rosy Bindi- Matteo Renzi – il bianco fiore appassito – la bandiera rossa – il replicante Tabacci – il fantasma della vecchia Dc – l’antipapa Melloni – l’ateologia di Odifreddi – Marco Pannella santo subito – il dialogante cardinale Ravasi – il patriota Benigni – il romanziere Aldo Busi – il fantasma di Peppone.
Frantumato l’impero ideologico, dove, secondo la magistrale definizione di Augustin Cochin, l’opinione sostituiva l’essere, alle porte del cabaret ideale risuona la patetica, assordante filastrocca di Pablo Neruda: “Oh, Unione Sovietica, se si potesse raccogliere tutto il sangue che hai dato, come Madre, al mondo, avremmo un nuovo oceano per annegarvi chi ti ha offeso … Madre degli uomini liberi”.
Sul capolinea delle rivoluzioni incombe il romanzo “Petrolio”, capolavoro coprologico di Pier Paolo Pasolini, il poeta della discarica, appunto.
Spogliate della splendida corona cromatica, che le avvicinava al futuro, le ammalianti parole del dizionario illuminato ora scendono nel sottosuolo, dove è al lavoro l’alacre popolo dei mangiatori di estinte parole: eleusini di risulta, intellettuali con la chioma turchina e i tacchi a spillo, energumeni altoparlanti in clargyman, registi con patente pirandelliana, agitatori nomadi sotto la livrea del nulla, apostoli dell’urofilia, pianisti leziosi e soporiferi, figuranti filosofici in parrucca giacobina e culottes con oblò, grotteschi agitatori di manette, tradizional-nudisti, comici lacrimosi, stelline attempate in reggipetto, presentatrici cocainomani, sindacalisti con l’ermellino e giuristi riscaldati dal tifo per il boia.
Sotto i loro denti affilati le parole della lingua ideologica si sbriciolano e diventano “satira” da lupanare. Dalla sontuosa, imbattibile filosofia di Kant, discendono infine il cabaret politico e scherzi a parte. Dopo Kant, Platinette.
“Capitalismo”, parola un tempo bersaglio di furori verbali e di roventi maledizioni trova intanto riparo sotto l’ombrello dei poteri forti e nell’atrio della Banca, Vacca sacra venerata dai postcomunisti e degli incappucciati.
Se non che gli operatori economici, vista la rovina del muro berlinese, stanno scoprendo che il compito dell’economia non è la guerra di tutti contro tutti ma la produzione di beni e servizi.
Dopo Monti/Sachs, ritorneremo alla realtà? Forse, domani si potrà dire che capitalismo, la parola inventata dalla rivoluzione, si è perduta nelle praterie del disinganno. E che, al suo posto, si è stabilito il segno delle cose economiche in carne ed ossa: il lavoro, fonte del capitale separato dalle ideologie. Forse l’umanesimo del lavoro sta sostituendo il codazzo dei pregiudizi manichei al seguito dell’utopia assassina.
Giacomo Bernardi, imprenditore erudito, che presiede la fondazione intitolata al filosofo Luigi Stefanini osserva, in sintonia con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che l’errore dei comunisti consisteva nell’ostinato rifiuto di riconoscere che al processo economico si doveva chiedere solo quello che gli è proprio: la creazione di ricchezza.
La scienza economica si esaurisce nella produzione; quel che viene dopo, il problema delladistribuzione, compete esclusivamente all’etica [4].
La parola etica è una banalità? Non si direbbe banalità, quando si contassero i kulaki che furono vittime dell’olocausto trascurabile – milioni di innocenti sacrificati ai dogmi di quella pseudo scienza economica, che ispirava le imprese delle agenzie per la giustizia distributive, attive nell’Urss: Ceka, Nkvd, Kgb. E le candide poesie di Elja Ehrenburg intorno alla dannata razza dei kulaki.
Alla memoria si riaffacciano le figure della prosperità capitalistica generata dalla cultura cattolica nell’Italia del XIV secolo. L’Italia che impose la mordacchia agli strozzini e obbligò gli artigiani a rispettare il principio del giusto prezzo.
Si riscopre infine l’ingente opera di Giuseppe Toniolo e del suo allievo Werner Sombart, mentre il saggio di Amintore Fanfani sulla fondazione cattolica del capitalismo dal volto umano ridiventa attuale.
Intellettuali in via d’estinzione sostengono che la filosofia di Marx era del tutto estranea alla sanguinaria prassi sovietica.
Durante la celebrazione dell’ottantesimo anniversario del partito comunista italiano, il rifondatore Fausto Bertinotti tenne un discorso circolare a due piste, inteso, per un verso, a rivendicare l’eredità della buona filosofia di Marx per quello opposto a rigettare Stalin e la storia delle sue cattive opere.
Se non che gli orribili delitti di Lenin e di Stalin, l’epurazione del 1918, la carestia del 1921 e lo sterminio dei kulaki del 1929, furono commessi da esecutori legittimi, intesi ad attuare la rigorosa utopia e non a deviare da essa.
Non è necessario mettere in dubbio la sincerità degli stati d’animo che hanno dettato le dichiarazioni d’intenti del segretario del pallido partito rifondazionista, quando san Tommaso ha dimostrato che la phantastica illusio degli erranti, l’ambizione di conseguire l’impossibile – quale è, appunto, l’utopia comunista – discende dalla sciocca superbia (oritur ex superbia vel cupiditate) [5].
D’altra parte non ha importanza sapere se i comunisti erano in buona o in cattiva fede, quando è evidente che, posta l’adesione alla filosofia materialista – e nessuno mette in dubbio l’appartenenza di Marx alla scolastica materialista: Democrito e Epicuro – è impossibile sfuggire a un destino di violenza e di frode.
Anche se l’intenzione dei comunisti fosse pacifica e non fraudolenta, il tentativo di separare l’utopia di Marx dagli atti sanguinari di Lenin & di Stalin e dal Gulag del buon Kruscev, sarebbe (è) un vuoto e ridicolo esercizio da palcoscenico.
Come ha dimostrato esaurientemente Cornelio Fabro, che negli anni di piombo, pubblicò un memorabile saggio sulla trappola del compromesso storico, “il marxismo è, come teoria, un materialismo deterministico e, come pratica, rivendica di essere un partito egemone: un comunismo democratico è un circolo quadrato od un legno di ferro ed un malinteso” [6].
La storia della filosofia, quantunque soffocata dal bianchetto dei progressisti in cattedra e dei teologi ubriacati da Lutero & Heidegger, insegna che, dato il pregiudizio materialista, segue, per una fredda esigenza della logica, la scelta metodologica della frode e della violenza – la carota della Nep e il bastone dello sterminio dei kulaki.
Non si dice cosa nuova rammentando che la filosofia materialista ha origine da Democrito e dal suo scolaro, il sofista Protagora, che le conferì quell’indirizzo soggettivistico e oppressivo, che ha fedelmente conservato attraversa tutti i mutamenti subiti nel corso della sua storia plurisecolare.
Virginia Guazzoni Foà, nella “Storia del pensiero occidentale Dalle origini alla chiusura della scuola di Atene”, edita in Milano da Marzorati, ha dimostrato con rigore filologico irrefragabile che, secondo il sofista Protagora, “la materia è il fondamento e la ragione di tutti i fenomeni in quanto può essere tutte le cose quali appaiono a noi”.
Dal suo canto, Michele Federico Sciacca aveva stabilito l’ispirazione sofistica di quella negazione tracotante della verità che ha dominato la scena del “moderno”. L’opinione che nei fenomeni contempla la sola apparizione della materia ed esclude la forma, implica, appunto, la conclusione soggettivistica, che Platone ha confutato nel discorso intorno ai sofisti:
“Protagora disse che di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che esistono e di quelle che non esistono. … E non viene egli in certo modo a dire questo, che quale ciascuna cosa apparisce a me, tale codesta cosa è per me, quale apparisce a te, tale è per te; e uomini siamo tu ed io?” (Teeteto, 152a).
Protagora, e dopo di lui ogni materialista coerente, nega che la mente umana sia capace di astrarre gli universali dalle cose e perciò di formulare giudizi oggettivamente validi.
Dopo Protagora e fino a Hegel e Marx, intorno al pregiudizio ateista si costituisce un circolo vizioso, che attira la verità nel gorgo delle opinioni fantasiose.
Il vizio del pensiero moderno nasce dalla convinzione secondo cui la sede della verità non è più l’essere ma la nuda parola in libertà.
L’emergenza “totalizzante” del materialismo fa sbiadire l’oggetto trasferendo il colore dell’essere nella mente del paroliberiere.
Lo scoloramento dell’oggetto, però, destituisce il giudizio del soggetto, che tenta di colorarlo a suo modo. La conseguenza è che ci sono tante tinte quanti sono i pittori impegnati a disegnare la realtà.
Risultato del materialismo è l’impero sofistico: se esistono tante verità, tante parole quanti sono le opinioni dei soggetti, verità plausibile sarà soltanto quella del soggetto che riesce a far valere (anche a costo d’ingannare o esercitare violenza) la sua opinione.
Il materialismo sofistico nega gli universali, che sono il fondamento del dialogo e della ricerca e trasforma la filosofia in un ring riservato agli urlatori, ai calunniatori e agli architetti di parola.
Il luogo della verità è occupato da un’opinione verbosa, che s’impone solo mediante argomenti acrobatici, lavaggi del cervello e all’occorrenza minacce, torture e “concentrazioni rieducative”. In caso di refrattarietà è infine prevista l’eliminazione fisica.
A questo punto è già chiaro il dato che è premurosamente confermato dalla storia di tutti movimenti d’ispirazione materialistica: le opinioni conformi al pregiudizio del materialismo sono sempre associate all’uso della violenza e/o della frode elitaria. Le squallide biografie dei comunisti lo confermano puntualmente.
D’altra parte (e non è per un caso) il materialista coerente Karl Marx intimava ai suoi lettori di non fare domande. E non è per un caso che i suoi interpreti sovietici chiudevano i curiosi nei manicomi.
La negazione della verità oggettiva e la consegna della verità all’opinione del più forte o del più abile hanno origine dal convincimento che gli oggetti del conoscere siano costituiti soltanto dalla materia.
Il materialismo e il soggettivismo sono inseparabili, a malgrado dei numerosi tentativi di confondere le acque per mezzo di una disperata scienza dei distinguo.
Il materialismo, infatti, ha potuto calarsi nelle diverse e opposte forme dell’individualismo e del collettivismo, del razzismo darwiniano e del cosmopolitismo, dell’oligarchia hobbesiana e dell’egualitarismo anabattista, del pauperismo e dell’edonismo, della virtù giacobina e del vizio sadiano, dello stalinismo e del maoismo, dell’operaismo e dell’ecologismo cambogiano ma non è mai uscito dal solco della violenza e della frode.
La notizia che i comunisti non sono più comunisti, perché Stalin e Breznev sono usciti dal loro orizzonte verbale, è del tutto vana, fin che rimane la loro adesione ai princìpi del materialismo. E della sofistica alla quale Marx aderì fondando il suo “sistema” sul classico imperativo dei mistificatori: “non fare domande”, non cercare la verità, accontentati della mia autorevole parola.
Il pensiero marxiano e il cattocomunismo oggi sono esiliati nei margini umbratili, dove si nutrono i sogni intorno a quella cervellotica e distruttiva economia del dono – il potlach – che la mente alterata del surrealista Georges Bataille ha escogitato ispirandosi ai costumi dei primitivi.
Il fine perseguito da Bataille era lo scoppio d’una guerra forsennata contro la scienza della produzione e contro la civiltà dell’Occidente cristiano. Una guerra combattuta per deliziare i reduci dell’ideologia, in fuga dalla realtà verso il vuoto mentale e la gnosi eleusina.
L’utopia, dopo Marx, si risolve in consumo metafisico, in mortificazione dei beni materiali, attraverso le opposte e convergenti vie tanatofile: l’ascesi dissolutoria (il cui archetipo è l’endura catara) e la dissolutezza ascetica (il cui archetipo è la baldoria frankista).
Consumare, in questa allucinante prospettiva mistica, significa de-creare, verbo usato dal cacciariano Andrea Emo per definire l’atto della dottrina nichilista formulata da Simone Weil.
La finalità del “consumo” dunque è disgregare l’essere, frantumare la sostanza delle cose per sostituire la immaginaria tirannia del demiurgo con il fittizio regno della libertà assoluta, regno contemplato dalla dottrina degli gnostici, dei manichei, dei bogomili e dei catari [7].
In “Discesa all’Ade e resurrezione”, Elémire Zolla, il più rigoroso e qualificato fra i seguaci del maestro sessantottino Jacob Taubes, ha sostenuto, con argomenti inconfutabili, che l’ultimo orizzonte della rivoluzione è la teologia gnostica di Marcione. “L’omosessuale Marcione” [8], infatti concepì e fondò “una Chiesa di celibi, che affamano il mondo privandolo del seme. La chiesa di Marcione vuole distruggere il mondo. Il matrimonio come sacramento, ben tardo nella Chiesa di Pietro, qui è impossibile. A Gesù non fu mai rivolta la richiesta più naturale, così insistente nell’Antico Testamento: che la donna possa partorire. Il Padre dell’Antico Testamento era giusto, non fu il padre di Gesù. Marcione proclama che il Vangelo è imparagonabile, non se ne può dire e pensare nulla: proviene dal Dio alieno” [9].
L’urlante delirio dell’a-teologo Zolla si è fatalmente perduto nel disperato tentativo di istituire un rapporto tra la teologia di san Paolo (presunto anarco – nichilista) e l’insalata di parole mescolata da Nietzsche (presunto filosofo e maestro avventizio della sinistra adelphiana, dopo Marx).
L’insegnamento di Zolla è una pietra miliare nella storia dell’involuzione filosofica del “moderno” e dell’eclissi dell’intellettuale: segna il punto in cui l’ideologia dei comunisti si è ridotta a supporto dell’insorgenza pauperistica-nichilistica degli ecologisti estremi, dei no-global e dei pederasti, e alla complicità con i distruttori di ricchezze e con i sabotatori del progresso tecnologico.
La scena della sinistra chic adesso è invasa dall’utopia della retroguardia tenebrosa, che continua la guerra di Marx alla civiltà cristiana nascondendo la decadenza della rivoluzione sotto i panni della solidarietà da palcoscenico, panni indossati dalla nuova fauna progressista: stilisti, spogliarelliste, allenatori di calcio, cocainomani d’alto lignaggio, cantanti, affaristi, scialacquatori e pederasti in frac [10].
Nella commedia degli inganni, l’insensata dissipazione dei beni concepita da Bataille e messa a tema da Zolla, inverte l’ordine naturale, proponendo il regresso al puro niente.
Cornelio Fabro ha dimostrato che la filosofia moderna ha compiuto l’arco intero del suo sviluppo con la rivelazione del nulla attivo: “Una volta che la libertà è posta come fondamento intenzionante, essa non può scegliere che sé stessa e fare del proprio nulla la verità intenzionata per lasciarsi essere nel mondo che rimbalza nello stesso nulla che la attraversa da parte a parte” [11].
Di qui la tempestiva risposta del magistero cattolico, che, all’ideologia oppone la concordia di Fides et Ratio.
Il futuro della Chiesa cattolica e della civiltà occidentale adesso dipende dall’esito della sfida in atto tra la sapienza cristiana e il delirio surreale dei postcomunisti.
Intanto la oscena, tragica storia inscenata dal cattocomunismo nella comunità pederastica del Forteto ridisegna il confine invalicabile tra utopia comunista e carità cristiana.
Adesso la sopravvivenza del cattolicesimo sociale dipende dalla soluzione del conflitto tra la pigra nostalgia del compromesso storico e il dinamismo delle avanguardie al seguito del papato che ha sconfitto l’illusione progressista.
La restaurazione della civiltà dell’amore incomincia dalla attitudine a comprendere l’inabissamento gnostico dell’ideologia moderna e dalla volontà di recuperare il lascito della filosofia perenne.
Non c’è niente da inventare: compito degli studiosi cattolici è la semplice lettura degli autori che, in un passato recente, hanno disegnato la mappa degli influssi neognostici nella filosofia moderna. In primo luogo Pio XII, di seguito padre Cornelio Fabro, l’autore cattolico che ha compilato l’esatto inventario dei tracolli filosofici del “moderno”.
Insieme con le opere di padre Fabro sono da riscoprire le pastorali, le conferenze e gli articoli pubblicati dal cardinale Giuseppe Siri nei lontani anni Cinquanta: in quelle pagine l’annuncio profetico dell’immancabile catastrofe comunista è associato alla puntuale indicazione dell’insorgenza neognostica in atto.
Utili strumenti per la fondazione di un’autentica cultura postmoderna, sono anche gli altri autori della grande, ideale biblioteca cattolica: San Tommaso d’Aquino, Antonio Rosmini, Giuseppe Toniolo, Reginaldo Garrigou Lagrange, Edith Stein, Francesco Orestano, Julio Meinvielle, Giorgio Del Vecchio, Antonio Messineo, Carlo Costamagna, Romano Guardini, Antonio Livi, Michele Federico Sciacca, Eric Voegelin, Giuseppe Capograssi, Nicola Petruzzellis, Dario Composta, Carmelo Ottaviano, Marino Gentile, Tito Centi, Raimondo Spiazzi, Agostino Trapé, Brunero Gherardini, Ennio Innocenti, Paolo Paqualucci, Battista Mondin, Alberto Catturelli, Francisco Elias de Tejada y Spinola, Pedro Galvao de Sousa, Miguel Ayuso, Augusto Del Noce, Maria Adeliade Raschini, Pier Paolo Ottonello, Miguel Ayuso, Massimo Borghesi, Serafino Lanzetta o.f.m., Giovanni Turco, Rosa Goglia, Roberto de Mattei, Danilo Castellano, Tomas Tyn, Giovanni Cavalcoli o.p. ecc.
Questi autori hanno previsto e descritto puntualmente la degenerazione del pensiero moderno, confutando tutti gli argomenti escogitati nel tentativo di rinnovare la vita dell’apostasia moderna. Alla luce dei risultati ottenuti della loro analisi cade la maschera progressista del moderno e si svela la vocazione del “moderno” al parolame.
[1] Riccardo Pedrizzi, cfr. “Rivoluzione e dintorni”, Roma 2004, pag. 30.
[2] Cfr.: Raffaele Perrotta, “antro immane la parola ricercata λοjanto”, Marco editore, Lungo di Cosenza 2005, pag. 45
[3] Raffaele Perrotta, op. cit., pag. pag. 59.
[4] Cfr.: “Senso ed etica dell’agire Pensieri di Politica, Economia, Religione”, Armando, Roma 2002.
[5] Sum. theol., II-II, q, 11, a. 1.
[6] Cfr.: “L’inaccettabilità del compromesso storico”, Quadrivium, Genova 1980.
[7] Eric Voegelin nel “Il mito del nuovo mondo”, Rusconi, Milano, 1970, ha dimostrato esaurientemente che l’ideologia comunista ha molti punti di contatto con lo gnosticismo antico.
[8] Marcione (Sinope circa 85 – Roma 165) è l’ispiratore di un vasto movimento di fanatici neopagani intesi a respingere l’Antico Testamento e purificare il Nuovo Testamento eliminando qualunque riferimento al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
[9] Cfr. “Discesa all’Ade e resurrezione”, Adelphi, Milano 2002, pag. 124.
[10] Al riguardo cfr. l’inchiesta di Mario Giordano, “Attenti ai buoni. Truffe e bugie nascoste dietro la solidarietà”, Mondadori, Milano 2003.
[11] Cfr. “L’avventura della teologia progressista”, Rusconi, Milano 1974, pag. 76.