Un momento di lettura distesa, magari impegnativa, ma ristoratrice. Un’idea per trovare un’occasione di svago tra le incombenze della settimana, che quasi mai sono piacevoli per chi abbia a cuore la fede in Cristo e la salvezza delle anime. È quanto Riscossa Cristiana intende offrire ai suoi lettori ogni domenica. Per quanto è possibile, ci piacerebbe richiamare alla memoria di chi l’ha vissuta e far conoscere a chi non ne ha mai avuto neppure il sentore l’atmosfera di quelle belle domeniche in famiglia in cui si andava a Messa, ci si metteva a tavola per il pranzo della festa e poi si leggevano quegli articoli così ben scritti che i giornali ora non pubblicano quasi più. Poi, sarà nuovamente lunedì, ma, come accadeva nelle belle famiglia di una volta, lo guarderemo con occhi diversi. Buona lettura.

 

L’EPICA MODERNA DI MOBY DICK

di Paolo Gulisano

 

L’epoca moderna non ha perso il gusto dell’avventura, e nell’Ottocento, secolo della scienza e della tecnologia, del trionfo delle macchine, un uomo dal cuore sognante, malinconico e avventuroso, scrisse un grande classico della letteratura, un libro complesso all’apparenza semplice.

Quest’uomo si chiamava Herman Melville, e il romanzo, scritto nel 1851, Moby Dick. Un libro che continua ad essere pubblicato, letto, magari reinterpretato nel cinema, nel teatro, nella musica.

La storia è ben nota: la caccia a una balena bianca di nome Moby Dick da parte di un capitano di nome Achab che conduce la sua nave, il Pequod, e il suo equipaggio della sua nave, in un folle, allucinato inseguimento del cetaceo per i mari di tutto il mondo.

Il libro in realtà è molto più profondo di quanto possa sembrare all’apparenza, assumendo una dimensione mitica.

Tutto in Moby Dick sembra essere fuori dal tempo e dallo spazio: la caccia sembra non finire mai, il Pequod veleggia sulle acque di oceani senza fine, tutto sembra muoversi e stare fermo allo stesso tempo.

Moby Dick non è un libro facile anche perché il suo autore, l’americano Herman Melville lo infarcisce continuamente di nozioni sia riguardanti la caccia alle balene e le baleniere sia riguardanti le balene stesse. A volte non sembra un romanzo ma un manuale, oppure un documentario scritto. Ci sono capitoli che riguardano i singoli attrezzi delle baleniere, come sono fatti e a cosa servono, i ruoli dell’equipaggio di una baleniera, i metodi per cacciare la balena e come tagliarla per ricavarne l’olio, e così via. Ci sono interi capitoli che riguardano le balene, la loro classificazione, l’etimologia, le rappresentazioni delle balene sbagliate e i motivi per cui sono sbagliate e le loro rappresentazioni più corrette.

Tutto il libro comunque parla di avventura, di ricerca, e di fede. Lo aveva compreso perfettamente il primo traduttore italiano del capolavoro di Melville, Cesare Pavese: “Leggete quest’opera (Moby Dick) tenendo a mente la Bibbia e vedrete come quello che vi potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, vi si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano”.

La grandiosa versione di Pavese, datata 1932, sebbene porti oggi inevitabilmente i segni del tempo, rappresenta la vera e propria vulgata italiana di Moby Dick, da cui è impossibile prescindere. Lo scrittore torinese era rimasto profondamente colpito dall’opera di Melville, tanto che non sapeva staccarsene. Nove anni dopo la prima traduzione, nel 1941, infatti ne propose una seconda versione. L’Italia era in guerra, e lui era un uomo completamente diverso, con alle spalle la pubblicazione di due libri coraggiosi e travagliati come Lavorare stanca e Paesi tuoi.

Pavese ritorna all’opera titanica che tanto lo aveva affascinato e ne rivede la traduzione. La Balena, che inizialmente per Pavese rappresentava il vuoto, il nulla mostruoso, ora sottende il mito, un conflitto cosmico ancestrale accettato stoicamente.

“La coerenza del libro si celebra proprio in questa tensione che l’ombra fuggente del mistico Moby Dick induce nei suoi ricercatori. (…) La ricchezza di una favola sta nella capacità che essa possiede di simboleggiare il maggior numero di esperienze. Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia di inseparabili. Dopo tante disquisizioni, tanti trattati e tanta passione, l’annientamento davanti al sacro mistero del Male resta l’unica forma di comunione possibile.”

Così scrive in “La letteratura americana e altri saggi”.  Pavese aveva colto di Moby Dick l’aspetto di sacralità di questa opera. Un sacro che riconduce alla Divinità, in una forma misteriosa, celata, tutta da decifrare, e alle sue manifestazioni, che agli occhi dell’uomo possono apparire anche negative, oltre che incomprensibili.

Il racconto della voce narrante dell’opera, che è quella del marinaio Ismaele, prende il via da una tentazione di auto-distruzione. Il motivo infatti per cui il giovane Ismaele decide di imbarcarsi sul Pequod e di diventare così testimone della sua febbrile e folle caccia alla balena, non è il desiderio di gloria, o di successo, o di potere, o la ricerca di una sorta di Santo Graal, ma più drammaticamente e freddamente il tentativo di sfuggire alla noia, al tedium vitae, e rappresenta una sorta di alternativa al suicidio: “Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente- avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. (…) Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare.”

Il viaggio di Ismaele è una fuga, una scelta alternativa all’autodistruzione, un tentativo scettico di trovare una soluzione al doloroso mistero del vivere. Ismaele diverrà il testimone di una grandiosa avventura umana, e il suo racconto diverrà inevitabilmente epico. Epico in quanto racconto sacro.

Un poema epico infatti è un’opera esemplare che narra le gesta, storiche o leggendarie, di un eroe o di un popolo, mediante le quali si conserva e tramanda la memoria e l’identità di una società o di una civiltà.

L’epica narra il mythos, cioè il racconto di un passato glorioso di guerre, e di avventure. L’epica rappresenta la prima forma di narrativa, e spesso costituisce anche una sorta di sintesi del sapere religioso, culturale e politico di una civiltà.

Melville realizzò l’epica della giovane America dell’800 che aveva conquistato con la forza l’indipendenza, distaccandosi dalle sue radici britanniche ed europee, lanciandosi alla conquista di nuove frontiere. È l’epica di una nazione ma anche di un tempo, l’800 positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli.

Con Melville il racconto epico torna a fare capolino nella letteratura, dopo qualche secolo di eclisse. Così l’epica dimenticata di Moby Dick, espressione della modernità occidentale, della sua ricerca, dei suoi dubbi e delle sue follie, deve tornare a stupire il lettore e ad interrogare la sua coscienza.

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