Un momento di lettura distesa, magari impegnativa, ma ristoratrice. Un’idea per trovare un’occasione di svago tra le incombenze della settimana, che quasi mai sono piacevoli per chi abbia a cuore la fede in Cristo e la salvezza delle anime. È quanto Riscossa Cristiana intende offrire ai suoi lettori ogni domenica. Per quanto è possibile, ci piacerebbe richiamare alla memoria di chi l’ha vissuta e far conoscere a chi non ne ha mai avuto neppure il sentore l’atmosfera di quelle belle domeniche in famiglia in cui si andava a Messa, ci si metteva a tavola per il pranzo della festa e poi si leggevano quegli articoli così ben scritti che i giornali ora non pubblicano quasi più. Poi, sarà nuovamente lunedì, ma, come accadeva nelle belle famiglia di una volta, lo guarderemo con occhi diversi. Buona lettura.

 

NOTE SOPRA LA LITURGIA

di Cristina Campo

 

1

Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. “Beato” dice san Francesco “quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose”.

È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi. compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, “come se i fratelli assenti fossero presenti”. E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.

In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta “nell’ora dolcissima di Compieta”, mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il “delicato giovinetto”, “tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo”. Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.

La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga, per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione.

Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

2

Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l'”immensa e delicata” liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole – Cristo – Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam.

In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

3

Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.

La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: “Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me” – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.

“E l’odore si sparse per l’intera dimora”. Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giustamente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. “Ella mi prepara per la mia sepoltura” disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l'”ostia pura, ostia santa, ostia immacolata” pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d’incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: “Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?”.

La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un’operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravita che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

 

Pubblicato con lo pseudonimo di Bernardo Trevisano in «Cappella Sistina», luglio-settembre 1966. Ripubblicato in Cristina Campo, Sotto falso nome, Adelphi, 1998

4 commenti su “La Domenica di Riscossa Cristiana (9)”

  1. Oggi pomeriggio, mentre pedalavo serenamente sulla pista ciclabile vicino casa, mi è tornata in mente quella vecchia canzone dei Nomadi, di tanti anni fa, che diceva più o meno così :
    “sarà una bella societààà / basata sulla libbertààà (1) / però spiegateci perché / se noi non siamo come voi (2) / ci disprezzate come mai / ma che colpa abbiamo noi (3)”,
    e poi così proseguiva :
    “e se noi non siamo come voiii / e se noi non siamo come voiii / una raggione ci sarà / ma se non la sapete voi / ma che colpa abbiamo noi”

    Note:
    (1) avanti, c’è posto per tutti: buddisti, induisti, talmudisti, islamisti, ecc. (ma non cattolici amanti della Tradizione, però, nè?)
    (2) cari Bergoglio, Galantino, Parolin, Paglia, ecc.;
    (3) poveri cattolici tradizionalisti.

    Ecco, questo è il senso di smarrimento che prende un semplice, umile cattolico tradizionalista (cioè rimasto legato, sentimentalmente ma anche dottrinalmente, liturgicamente e pastoralmente, alla Chiesa cattolica preconciliare, ai suoi santi, ai suoi papi, ai suoi sacerdoti) di fronte al disprezzo mostrato nei suoi confronti dal…

  2. ….. clero modernista, dal papa in giù, a scendere, fino al curatino di campagna; domande angosciose alle quali non sa darsi una risposta, né essa gli viene fornita dal clero modernista che lo respinge, lo dileggia, lo emargina, lo demonizza. Insomma, ma qual’è questa ragione? ce la volete dire? oppure fate come con don Minutella, don Pasceddu, don Angelo Mello de Carvalho, e tanti altri? (puniti senza esplicito capo d’accusa, senza possibilità di difendersi, senza appello)

  3. Testo bellissimo, quasi commovente. Per chi come me, per ragioni anagrafiche, non ha mai assistito ad una Santa Messa in rito antico, uno sprone in più per cercare e magari trovare un santo sacerdote che restituisca anche a noi giovani la bellezza, la solennità e la sacralità dovute a Nostro Signore.
    Unico ricordo bello e caro, che mi proietta in tempi passati in cui ancora c’era il senso del sacro e del rispetto, per me rimane quello della mia nonna paterna, donna devotissima, che dolcemente ma fermamente mi ammoniva, spiegandomi che in chiesa non si accavallano le gambe perché siamo alla presenza dell’Altissimo. Insegnamento semplice, ma che mi è rimasto impresso nella memoria, forse perché, nonostante io fossi bambina (sono dell’80), grazie a mia nonna avevo intuito qualcosa di grande; che tristezza, se penso a quante gambe accavallate vedo ogni domen

  4. (Continua)
    Che tristezza, se penso a quante gambe accavallate vedo ogni domenica, sulle quali spesso si posano mani che impugnano un cellulare, neanche fossimo dal parrucchiere.
    Signore, fa’ ch’io possa renderti il dovuto culto, fa’ che la Chiesa tutta torni ad onorarti degnamente.

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