LA FEDE E IL DUBBIO. OSSERVAZIONI SU ALCUNE DICHIARAZIONI DEL CARD. GIANFRANCO RAVASI – di P. Giovanni Cavalcoli, OP

di P. Giovanni Cavalcoli, OP


 

ic1Ne L’Osservatore Romano del 9 marzo scorso è apparso un articolo del Card. Ravasi dal titolo “Il dubbio è un buon cane da guardia”, dove l’illustre Articolista intenderebbe spiegare la natura dell’atto di fede e purtroppo bisogna notare quell’impostazione dubitazionista, se così posso esprimermi, che ho già criticato di recente in questo sito a proposito della concezione della fede nel Card. Martini.

In questo suo scritto il Card. Ravasi fa sfoggio, come è il suo solito, di numerose citazioni dai più disparati Autori, cosa che certamente è l’eco di molte letture e mostra una notevole  erudizione, ma anche purtroppo una certa carenza di linearità e rigore speculativi, che finiscono  più che per far chiarezza, con l’impressionare il lettore sommergendolo sotto un gran cumulo di riferimenti brillanti ma spesso non pertinenti e tali da mandare fuori strada. La prosa non eccelle per vigore argomentativo in una tema così grave, ma abbondano le frasi ad effetto, più da letteratura che da teologia

L’equivoco di fondo che percorre tutto lo scritto di Ravasi è dato dalla confusione che egli fa tra quel dubitare che normalmente precede e segue l’atto di fede, quello che chiamerei “dubbio esterno” e un dubitare che egli pone all’interno stesso dell’atto di fede, presentandolo come pregio dell’atto di fede e come “componente dialettica della fede”.

E’ quello che potremmo chiamare “dubbio interno” o che più comunemente si può dire o vien detto “dubbio di fede”, segno, per la verità, di una fede debole e difettosa, tanto che chi ha pratica di confessionale, sa bene come i penitenti giustamente ogni tanto si accusano di questi “dubbi di fede”. E poveretto quel confessore che invece di confermarli nella fede avesse la disgraziata idea di scagionarli o magari di approvarli! Che dirà il Card. Ravasi ai suoi penitenti? Gli dirà forse: “Bravo, continua così”?

L’Articolista, infatti, citando Louis Evely, afferma che la fede “è un intreccio di luce e di tenebra: possiede abbastanza splendore per ammettere, abbastanza oscurità per rifiutare, abbastanza ragioni per obiettare”. Che la verità di fede presenti ad un tempo luce ed ombra si può anche ammettere, per la sua caratteristica di illuminare la ragione nel mentre che la trascende; e del resto tale osservazione si trova già nel grande teologo domenicano del secolo scorso, il Padre Réginald Garrigou-Lagrange.

Ma Evely, approvato da Ravasi,  va più in là sostenendo che la “fede” avrebbe uguali ragioni sia per acconsentire alla Parola di Dio che per respingerla. Certamente all’interno di questa fede entrerebbero omnes oves et boves et pecora omnia. A questo punto anche un ateo può aver fede. Ma io mi domando: a qual prezzo per la verità della stessa fede e per le coscienze? Sarebbe questo il dialogo tra credenti e non-credenti? Dunque allora, mi domando, l’ammettere e il rifiutare stanno alla pari? Si può scegliere ciò che si preferisce, tanto ci salviamo tutti?

La proposizione di fede è una proposizione indecidibile? E’ un’eterna perplessità, che poi assomiglia al doppio gioco? E’ un eterno “forse che sì, forse che no”? E’ un non impegnarsi mai del tutto, come avviene in quello che Kierkegaard chiama lo “stadio estetico” dell’“ironia” o diciamo meglio del commediante?

E’ vero che la dottrina di fede ha un aspetto di oscurità, ma oscurità non significa necessariamente falsità. Fu questo lo sbaglio del razionalismo cartesiano, per il quale sono vere solo le idee “chiare e distinte”. Ravasi dimentica che esistono anche delle verità oscure, che non per questo cessano di essere verità. E la verità di fede ha proprio questa caratteristica. Ed è logico che sia così, trattandosi di verità soprannturali e divine che superano la comprensione della nostra limitata ragione, la quale non può non ignorare ciò che va oltre tale sua capacità. Questo, Ravasi lo riconosce, ma poi non è coerente nel sostenerlo, come se mistero di fede volesse dire dubbio o incertezza.

Eppure la ragione, appunto illuminata dalla fede, si fida della Parola di Cristo, sa che è vera anche se non sa come e perché è vera. Non ha l’evidenza, perché non può dimostrare l’assunto di fede; tuttavia non ha dubbi, perché sa che Cristo non l’inganna. E’ questa la vera fede. E, come sappiamo, Cristo giustamente tiene moltissimo per la nostra salvezza a che gli si creda in questo modo, come ce ne dà chiara testimonianza per esempio nell’episodio di Pietro che camminando  sulle acque, ad un certo punto affonda e Gesù lo rimprovera: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.

E’ certo comunque che il dubbio, un dubitare spontaneo e ragionevole, può e deve benissimo avere a che fare con la fede. Ma allora si tratta di un dubitare estrinseco all’atto di fede, che, se è vera fede, di per sé non dubita, ed anzi è certezza assoluta e invincibile, perché sostenuta dalla forza divina della grazia.

Invece dubbio legittimo può esser quello che precede l’atto di fede e ad esso introduce, o lo prepara, anche se naturalmente la sua soluzione non può propriamente causare lo stesso atto di fede, perché il vero e proprio atto di fede divina e teologale, cioè il credere in Cristo e nella sua dottrina, è dono soprannaturale dello stesso Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, e quindi non è effetto della soluzione di un dubbio, che è atto esclusivamente proprio della ragione umana con le sue tipiche debolezze ed incertezze.

Come ci narrano i Vangeli, tutti coloro che hanno incontrato Cristo ed cominciato a frequentarlo o hanno udito parlare di lui per la prima volta, sentendo poi e vedendo quanto faceva, come agiva o quanto insegnava, si sono chiesti: ma chi è mai costui per compiere o dire queste meraviglie? “Che cosa è questa sapienza che gli è stata data?”, “comanda agli spiriti immondi e gli obbediscono!” e così via, in tal modo sono sorti dei dubbi, degli interrogativi, e bene a ragione.

Riflettendo però su questi fatti, gli onesti sono giunti alla conclusione irrefutabile che Gesù non poteva essere semplicemente un uomo come gli altri, ma godeva di una potenza divina e di una specialissima comunione con Dio. A questo punto hanno ricevuto da Dio il dono della fede, fede nelle sua parole, nelle sue promesse, nella sua persona, nelle sue istituzioni, nei suoi comandamenti. Hanno capito e creduto che Gesù è il Figlio di Dio.

Dunque il dubbio di fede non è un “cane da guardia”, ma semmai un cane miope, imbranato, tentennante e sdentato. Il cane da guardia ha la vista buona e sicura, è vigile per poter avvistare i malviventi e aggredirli. Ora la fede è veramente un cane da guardia; ma proprio per questo essa è assoluta certezza e nulla ha a che vedere col dubbio. Essa certo può esser provata dal dubbio, ma grazie alla sua fortezza essa lo scaccia.

Noi Domenicani, per la nostra proverbiale stima per la virtù della fede e per la Parola di Dio, siamo stati chiamati da qualcuno “cani da guardia”, Dominici canes. Ma indubbiamente, se nella storia gloriosa di otto secoli dell’Ordine avessimo dovuto basarci sul concetto di fede che il Card. Ravasi ci presenta, non avremmo avuto le schiere di santi evangelizzatori, missionari, mistici, predicatori, prelati, teologi e martiri che abbiamo avuto. Senza contare i Santi Pontefici[1].

Il “cappello” dell’articolo di Ravasi parla di una fede che “si conquista solo attraverso una lotta contro le proprie incertezze”. Questo è vero, ma poi quanto Ravasi scrive nell’articolo non svolge né dimostra questo assunto, ma lo smentisce parlando di una fede che non toglie l’incertezza ma la coltiva o di una certezza forzata priva di validi motivi. Non c’è dubbio che la fede dev’essere provata dal dubbio e dall’incertezza; ma appunto la vittoria si ottiene non crogiolandosi nel dubbio quasi sia un aspetto normale della fede, ma scacciando energicamente e con intelligenza il dubbio che spesso ha le apparenze del vero e prendendo coscienza con chiarezza di tutta la sua irragionevolezza e vanità.

La fede è principio di azione e di lotta contro il male; se essa è dubbiosa e vacillante, non avrà la forza sufficiente per questa lotta, ma scenderà inevitabilmente a compromessi, col rischio di estinguersi del tutto. Se nella fede, come dice Ravasi, “sono in gioco fattori di incertezza”, che ne è del suo motivo formale che è l’autorità di un Dio che non s’inganna e non inganna? Come il fedele, soprattutto se vescovo o cardinale o papa, potrà dar certezza a chi non ce l’ha e ne ha bisogno? A che pro Cristo avrebbe detto a Pietro confirma fratres tuos? Quali azioni coraggiose si costruiscono sull’incertezza? Dove sarebbe l’eroismo dei santi se essi non avessero una fede saldissima e a tutta prova? Ovvero, con quale buon senso i martiri dovrebbero dare la vita per una fede incerta?

Vana è anche la distinzione che Ravasi fa tra “dubbio scettico e dubbio creativo” all’interno dell’atto di fede, come nota dell’atto di fede. La vera fede, come ho detto, non ammette nessun dubbio, scettico o creativo che sia. Non si tratta di creare niente, lasciamo le creazioni ai poeti o agli stilisti di moda, si tratta semplicemente – nè più ma neanche di meno – di aderire fedelmente ed assolutamente alla verità già data, che non è frutto di umana creatività, ma della divina sapienza comunicataci da Cristo per il tramite della dogmatica ecclesiale.

Esiste semmai e deve esistere un dubbio conseguente all’atto di fede e alla recezione della verità di fede, motivato dalla stessa fede e fatto certamente per irrobustire la fede ed esplicitare le verità contenute implicitamente nello stesso dato di fede, ciò che i teologi chiamano il “rivelato virtuale”, messo in luce dalla scienza teologica, soprattutto la dogmatica e la sistematica, mentre il dubbio che introduce alla fede è l’oggetto dell’apologetica o teologia fondamentale o iniziazione alla fede, compito soprattutto degli evangelizzatori e dei catechisti.

Questo dubitare, esterno all’atto di fede e conseguente ad esso, sollecitato dalla stessa fede, non tocca la fede come tale, ma una problematica logicamente e naturalmente connessa con le indubitabili ed immutabili verità di fede. Tale dubbio o tale interrogativo sorge proprio sulla base della certezza del dato di fede ed è giustificato da tale dato. Facciamo un esempio.

La stessa domanda che Maria pone all’angelo che le aveva annunciato la prossima maternità divina pur restando vergine. Maria, osserva S.Tommaso, crede fermamente e senza dubitare alle parole dell’angelo. Per questo viene lodata da Elisabetta per la sua fede. Eppure fa una domanda, domanda che non verte assolutamente circa il perché di quanto ha detto l’angelo, ma semplicemente chiede come avverrà questo concepimento e questo parto verginale. E’ questo il terreno nel quale sorgono dubbi legittimi ed è lodevole porsi degli interrogativi, la risposta ai quali potrà fare nuova luce sulla verità di fede, farla meglio comprendere ed esplicitare le sue virtualità nascoste.

Ben diversa è la risposta di Zaccaria all’angelo che gli annuncia la nascita del Battista. Qui Zaccaria dubita e domanda, ma evidentemente non da credente ma da scettico, poiché il dubbio attiene a ciò stesso che l’angelo ha detto. Qui allora evidentemente non siamo a un dubbio che consegue alla fede, come nel caso della Madonna, ma si tratta di un dubbio circa quanto dovrebbe essere oggetto della fede. Ciò sembra bensì equivalere alla fede-dubbio di Martini e Ravasi, ma in realtà, come è attestato dal fatto che Zaccaria è punito, si tratta di una volontaria incredulità. Altro che fede!

Inoltre il Card. Ravasi parla bensì di una “fede robusta, un’ancora solida”, che però comporterebbe il dovere di “interrogarsi e di ricercare”. Ma interrogarsi e ricercare su che cosa? Sull’oggetto della fede? Ma allora siamo daccapo: se siamo incerti o dubitiamo circa questo oggetto, circa ciò che dovremmo credere, come facciamo ad avere una fede “robusta”?

Da dove verrebbe questa saldezza? Non sarebbe forse del tutto immotivata e irrazionale? Come è possibile fissarsi saldamente a qualcosa che tocca il senso della nostra vita, ma di cui siamo incerti se è vero o falso? Possiamo giocarci con così tanta disinvoltura il senso della nostra vita? La nostra vita vale così poco?

Del resto, in simili condizioni psicologiche, come sfuggire al rischio del fanatismo, del fideismo o del fondamentalismo, che pure Ravasi giustamente aborrisce e che tanta cattiva fama hanno procurato e procurano al credo cattolico presso gli ambienti non credenti ma onesti? Come è riprovevole lo scetticismo sistematico e “sarcastico” – e qui Ravasi ha senz’altro ragione -, così è giusto il bisogno di certezza; ma non si deve aver fretta nel trovare la sua soddisfazione.

Qui vale il detto di Cristo: “chi cerca, trova”. Meglio un’incertezza ragionevole che una certezza forzata. Meglio un procedere lento e prudente che una conclusione affrettata e infondata. Ma qui la fede non c’entra. Si tratta solo del cammino verso la fede, che è altra cosa. E’ già con Cristo chi è sulla strada che a Lui conduce.

Se Ravasi però oscilla nel presentare ai non credenti la fede ora come saldezza ora come incertezza, coloro che tra di essi cercano la verità, gli diranno: decìditi, dunque: lo sai o non lo sai che cosa credi? Ne sei convinto o no? Credi veramente a quel Cristo del quale ci parli?

La vera fede non è quella di chi non ha trovato ed è in ricerca. Questo atteggiamento è degno di ogni rispetto, ma non è ancora quello del credente. Il vero credente non ha bisogno di cercare, perché ha già trovato. Chi ha trovato Cristo che cosa ancora deve cercare? Qualcosa di meglio di Cristo? E’ vero che Pascal parla di un “cercare” chi si è già trovato, ma questo cercare allora non si riferisce alla fede, ma alle conseguenze della fede in Colui che già si è trovato.

La fede certo dev’essere robusta, ma non di una robustezza forzata, immotivata. Non bisogna confondere la certezza col dogmatismo. Chi, non avendo ancora la fede, per motivi di coscienza non ha la certezza che Cristo è Dio (tutto il contenuto della fede si riassume in questa convinzione), non solo è dispensato dal credere, ma non deve credere. Si salva lo stesso, sempre per mezzo di Cristo, anche se non lo sa. Questo lo dice S.Tommaso d’Aquino, il quale non si può dire certo che non insista sul dovere e l’importanza di credere in Gesù Cristo.

Ma qui Tommaso si mostra estremamente moderno nell’evidenziare la libertà e la responsabilità della coscienza e come l’ossequio di fede, per dirla con S.Paolo (Rm 12,1), dev’essere libero e ragionevole, ragionato, prudente, sofferto, sincero, ponderato e motivato, anche se in fin dei conti l’atto di fede in se stesso non dipende da una ragionamento – e qui Ravasi  senz’altro dice bene – ma dal “dono di Dio”, del quale Cristo parla alla Samaritana.

La ricerca, come il dubbio, certo attiene alla fede, ma non per mettere in dubbio l’oggetto o la verità della stessa fede, bensì per preparare o introdurre alla fede o in quanto l’oggetto della fede, che si riassume nella divinità di Cristo, una volta saldamente posseduto e accettato, stimola a cercare non se Cristo è o non è Dio, perché questo ormai è noto ed assodato (se no dov’è la fede?), ma ad approfondire e chiarire le insondabili, inesauribili e meravigliose ricchezze di Cristo Dio già creduto,  nel quale, per dirla con S.Paolo, sono racchiusi tutti i tesori della scienza e della sapienza. E qui abbiamo il progresso continuo del dogma, della teologia e della spiritualità e, di conseguenza, della stessa vita e santità cristiane.

Dobbiamo dire infine che ci pare assai infelice la citazione che Ravasi fa, alla fine del suo articolo, di una famosa dichiarazione di Dostoevskij: “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, che veramente la verità non è in Cristo, ebbene , io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità!”.

Questo non è, come dice Ravasi, “un procedere per absurdum[2]: è puramente e semplicemente un assurdo ed anzi una grave irriverenza nei confronti di Cristo. Vorrei domandare pertanto a Dostoevskij: Vorresti stare con Cristo contro la verità? E’ ammissibile un Cristo contro la verità? Quando è proprio Lui che ha detto “chiunque è dalla verità ascolta la mia parola” e: “Io sono la Verità”, tanto per citare alcune poche sue parole che ci mostrano all’evidenza il nesso inscindibile tra Cristo e la verità. La fede può essere un’adesione a Cristo a prescindere dalla verità? Posso aderire a Cristo infischiandomi della verità? Ricordo che l’opposto del vero è il falso: se si dovesse preferire Cristo al vero, vorrebbe dire che Cristo è nel falso, il che è una vera e propria bestemmia.

Viene oggi da molti presentato ed auspicato il Card. Ravasi come possibile nuovo Pontefice; tuttavia dobbiamo dire con tutta filiale franchezza e pieno rispetto per il noto e dotto Porporato, che con queste sue ultime dichiarazioni egli non si prepara certo il terreno più favorevole per essere assunto ad un ufficio così alto come quello di custode della fede – serva depositum – a nome di Cristo per tutto il Popolo di Dio.

Nel presente Anno della Fede, opportunissimamente indetto dal venerato Papa Benedetto XVI, dobbiamo dire che da un Principe della Chiesa, nel prestigioso quotidiano L’Osservatore Romano, il comune fedele, spesso provato, tentato, sviato, frastornato da incertezze, dubbi, equivoci e falsità nel campo della fede, si attenderebbe non discorsi fumosi e approssimativi che favoriscono pericolosi fraintendimenti e inveterati pregiudizi, bensì parole di chiarimento e conforto, tali da sostenere quella “buona battaglia” per la quale, liberi dalle tenebre dell’errore accediamo alla luce di Cristo.

Infine vogliamo formulare, con rispetto e fiducia nei confronti della Redazione de L’Osservatore Romano, considerando la sua illustre tradizione ed alta responsabilità relativa alla sua vicinanza alla S.Sede, la seguente domanda: mi chiedo cioè se nel venerabile Collegio dei Cardinali che si preparano ad eleggere il nuovo Papa non c’è forse qualcuno che sappia trattare meglio dell’Em.mo Card. Ravasi un tema così fondamentale come quello della fede, circa il quale tutti ci attendiamo una nuova poderosa luce dal futuro Pontefice per il progresso della Chiesa e l’evangelizzazione dei popoli?

 

 


[1] Il Beato Innocenzo V nel sec.XIII, il Beato Benedetto XI nel sec.XIV, S.Pio V nel sec.XVI e il Servo di Dio Benedetto XIII nel sec.XVIII.

[2] In buona logica il procedere o il dimostrare per assurdo è una conclusione la cui certezza è data dal fatto che la proposizione contraria è assurda. Ma qui tale procedere non c’entra per nulla e siamo invece davanti a una pura assurdità.

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