di P.Giovanni Cavalcoli, OP
“Il vero – dice Hegel in un famoso passo della Fenomenologia dello Spirito[1] – è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro”. Infatti per lui, come dice poco prima (p.27), compito della filosofia è “infondere spirito nell’individuo, togliendo i pensieri determinati e solidificati”, perché “a sostanza ed elemento della loro esistenza quelle determinazioni hanno l’Io, la potenza del negativo o l’effettualità pura”. Per Hegel la filosofia non ha il compito di rispettare un reale presupposto e indipendente, ma quello di “negarlo” e di distruggerlo per riaffermarlo sotto l’impulso dello “Spirito”. Ma ci chiederemo quale “spirito”.
Così, continua Hegel, “i pensieri divengono fluidi quando il puro pensare, questa immediatezza interiore, si riconosca come momento” (dell’azione dello Spirito) “o la pura certezza di sé astragga da sé”; l’Io “deve abbandonare il fisso del suo autoporsi: in tal modo le determinazioni” (“i differenti”), “posti nell’elemento del puro pensare, partecipano di quella incondizionatezza dell’Io. Mediante siffatto movimento, i puri pensieri divengono concetti e soltanto allora sono ciò che veramente sono: automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali” (ibid.).
La “circolarità” (vedi l’antico simbolo della svastica) – fatta passare per “progresso” – è una caratteristica del procedere filosofico hegeliano, per cui nulla si dà di definitivo o di conclusivo, nulla di ultimo che non sia anche primo, ma tutto è sempre rimesso in discussione, mentre l’unica stabilità, l’unica “quiete”, l’unico “Assoluto”, come dice lo stesso Hegel, è appunto l’assolutizzazione e l’eternità di questo moto inquieto, inconcludente ed esasperante. Un moto tragico, una lotta mortale, per cui il sistema hegeliano è stato chiamato anche “pantragismo”. Hegel ci chiede di star tranquilli (o fingere di esser tranquilli) in questa inquietudine di fondo, ma è un esercizio snervante che a lungo andare, ci dice l’esperienza, provoca le neurosi.
“Questo movimento – continua Hegel – in se stesso esprime l’Essenza assoluta come Spirito; l’Essenza assoluta che non viene attinta come questo movimento, è solo una parola vuota. Dacchè i suoi momenti vengono presi nella loro purezza, essi sono i concetti irrequieti, l’essere dei quali sta solo in ciò, che essi sono in se stessi il loro contrario ed hanno la loro quiete nell’Intero”[2].
Così i concetti cozzano tra di loro, si rincorrono e si annullano gli uni con gli altri, in un vorticoso concatenamento “dialettico”, creando un’“identità nella contraddizione”, che nell’intento di Hegel vorrebbe esprimere il dinamismo concreto della “vita” e la potenza irrefrenabile dello “Spirito”. Con evidente forzatura del significato delle parole, questa identità nella contraddizione sarebbe per Hegel addirittura l’“amore”, prendendo a pretesto la metafora dell’essere “una sola cosa di due persone diverse”.
Infatti “la vita dello Spirito”, secondo Hegel, sta nell’attività “separatrice” e “negatrice”, dalla quale sorge, per l’“immane potenza del negativo”, la ricomposizione e l’identità nella semplicità e della quiete iniziale dell’Io. Così lo Spirito “guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione”. “Lo Spirito è questa forza solo perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere”(p.26).
Il pensare appare dunque un’operazione “magica”, una specie di potenza divina, un “negare assoluto” dal quale, per la potenza stessa del negativo, che nega se stesso, ritorna il positivo, senza che tuttavia l’uno si separi dall’altro, ma anzi identificandosi tra di loro, giacchè per Hegel il vero e il falso stanno necessariamente assieme e costituiscono una “circolarità” per la quale essi dialetticamente si richiamano e si negano a vicenda: il positivo non respinge sic et simpliciter il negativo, ma “si sofferma presso di esso”. Vero e falso non sono “particolari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra sta di là rigidamente isolate e senza reciproca comunanza”, ma anche il falso entra nella “verità” del Tutto (p.30). Sarebbe questa per Hegel “la vita dello Spirito”.
La Fenomenologia dello Spirito si conclude con l’indicazione della “meta” dello Spirito, per la quale “lo Spirito si sa come Spirito” e la “via” per questa meta è la “storia secondo il lato della sua organizzazione concettuale”, ossia la Storia identificata con l’Assoluto. Essa comporta il “calvario dello Spirito Assoluto, l’effettualità, la verità e la certezza del suo trono, senza del quale Egli sarebbe l’inerte solitudine; soltanto al calice di questo regno fa spumeggiare la sua infinità” (p.305).
Dopo aver letto queste sparate retoriche, ci sarebbe da chiedersi qual è la natura precisa di questo “Spirito”, così sconvolto e sconvolgente, se finito o infinito, se umano o divino, se buono o cattivo, se pacifico o bellicoso. La cosa non è affatto chiara. Hegel collega indissolubilmente in questo “Spirito” l’essere col non-essere, il vero col falso, il bene col male. Del resto egli non parla mai di Spirito Santo, benchè egli, stando alle sue stesse dichiarazioni, intenda dare un’interpretazione del cristianesimo secondo la sua fede luterana.
Tuttavia in Hegel, almeno in quello maturo[3], non appare mai esplicitamente né il nome di Cristo né il nome di Gesù: il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione sono allusivamente descritti secondo le categorie panteistiche dell’“unificazione e della compenetrazione delle due nature”[4]. Hegel non tratta mai dei dogmi cristiani esplicitamente, perché per lui sono solo figure mitiche o “rappresentazioni” (Vorstellung) del “puro Pensiero” (denken).
Nell’Incarnazione, per Hegel (p.262), “la natura divina è la stessa che la natura umana”. In tal modo “il Sé dello Spirito esistente nell’elemento dell’esserci ha con ciò la forma della completa immediatezza” (p.260). “Questo farsi uomo dell’Essenza divina, ovvero che l’Essenza divina abbia essenzialmente e immediatamente la figura dell’Autocoscienza, è il contenuto semplice della religione assoluta” (p.261), ossia della religione cristiana. Viceversa, il “concetto” dell’Autocoscienza, ossia di Dio stesso, è la conquista della filosofia.
Per quanto riguarda la Redenzione, essa, dice Hegel (p.276), “vien presentata” (dal dogma della fede) “come un operare volontario, ma” (nel sapere filosofico) “la necessità della sua alienazione sta nel concetto che l’In Sè Essente” (cioè il Verbo), “che è determinato così soltanto dall’opposizione, proprio perché non ha sussistenza verace” (per Hegel è solo un Dio “astratto”), “quel termine dunque cui vale come essenza non l’essere per sé, ma il Semplice, è quello che aliena se stesso, va alla morte e perciò riconcilia con se stesso l’Essenza assoluta.
“Perché in tal movimento esso si presenta come Spirito; l’Essenza astratta è a Sé estraniata; ha esserci naturale ed effettualità per se stessa; questo suo esser-altro o la sua presenza sensibile” (l’umanità terrena di Cristo) “viene ripresa mediante il secondo farsi-altro” (la risurrezione di Cristo), “e vien posta come tolta, come universale; così l’Essenza in questa presenza sensibile si è fatta a se stessa; l’esserci immediato dell’effettualità ha cessato di essere estraneo o esteriore all’Essenza perché è tolto, è universale” (l’universalità della salvezza operata da Cristo); “questa morte quindi è il suo sorgere come Spirito” (p.276). Cristo, risorgendo, secondo Hegel, diventa Spirito.
“La morte del mediatore colta dal Sé è il superamento della sua obbiettività e del suo esser-per-sé particolare: questo esser-per-sé particolare si è fatto Autocoscienza universale” (Salvatore del mondo). “Proprio perciò, d’altro canto, l’universale è Autocoscienza e lo Spirito puro o ineffettuale del mero pensare” (=il Verbo) “si è fatto effettuale” (=uomo) (p.282).
L’attingere a questi contorti pensieri per elaborare la cristologia o l’etica cristiana, come molti oggi fanno, non porta nulla di buono, ma allontana dalla verità evangelica e conduce a costruire sistemi gnostici che costituiscono delle droghe dello spirito e sorgente di cattiva condotta morale.
Per Hegel infatti, come abbiamo visto, il falso non va respinto in nome del vero, ma, come “positivo” (vero) e “negativo” (falso) concorrono assieme alla costituzione della “sostanza”, ossia dell’“Assoluto”: “il falso – egli dice (p.31) – è l’altro, il negativo della sostanza, la quale, in quanto contenuto del sapere, è il vero. Ma la sostanza stessa è essenzialmente il negativo, vuoi come distinzione e determinazione del contenuto, vuoi come semplice distinguere, ossia come Sé e sapere in genere”. Hegel confonde l’alterità e la determinatezza con la contraddizione. Egli, sul piano morale, è così un creatore di animi bellicosi ed ipocriti, oggi purtroppo assai numerosi. Oppure, all’opposto, è l’iniziatore di quel buonismo qualunquista, per il quale tutto viene giustificato e permesso.
Così per Hegel, contrariamente a quanto dice S.Paolo (II Cor 6,15), c’è accordo fra Cristo e Beliar ed il parlare non dev’essere, come insegna Cristo, “sì, sì, no, no” (Mt 5,37), ma esattamente ciò che S.Paolo proibisce, ossia “sì e no” (cf II Cor 1,18), il che, direbbe Cristo, “appartiene al diavolo” (Mt 5,37). Eppure Hegel osa affermare che “falso e cattivo non sono mica perfidi come il diavolo”, ma sono “soltanto degli universali pur avendo l’uno rispetto all’altro una propria natura” (p.31). Ci domandiamo allora qual è lo “Spirito” che anima la filosofia di Hegel, se essa si fonda sulla negazione e sull’opposizione? Da quale spirito viene questa doppiezza se non da quello spirito di divisione che la Bibbia chiama diàbolos, appunto il “divisore”?
In Hegel si nota da una parte un’istanza di razionalità troppo pretenziosa, per cui tutto dev’essere racchiuso nel “Concetto”, anche perché l’essere si risolve nel concetto, per cui l’“Io”, come già aveva teorizzato Fichte, è l’estremizzazione dell’Io cartesiano che pone l’essere come essere pensato (“Idea”). Da qui il “panlogismo” hegeliano. La “ragione” svela i “misteri” della religione e respinge la “mistica” come irrazionale; ma d’altra parte il vortice della negazione dialettica trascina lo spirito in un movimento vertiginoso dove manca quella sobrietà che sola garantisce la calma della vera razionalità, tanto che il Kroner, grande conoscitore di Hegel, ha definito il sistema di Hegel come uno dei più irrazionali della storia.
L’apparente rigore logico della “speculazione” hegeliana dà in realtà l’impressione della seriosa e posticcia maschera di un oscuro impulso spirituale sotterraneo, atematico, magmatico e trascinatore, anzi direi travolgente, che non è affatto dominato e rischiarato dal procedere dei concetti e dei ragionamenti, ma che al contrario guida e domina l’andamento razionale, il quale pertanto perde il suo proprio ordine e la sua propria chiarezza – così evidente per esempio nella dottrina di un S.Tommaso d’Aquino -, non obbedisce alle consuete regole della logica e della struttura del linguaggio, ma le sconvolge in ottemperanza alle esigenze tenebrose, conturbanti e fascinose ad un tempo, come il “Sacro” di Rudolf Otto, di un oscuro fuoco interiore o “preconscio”, che trascina ed entusiasma il filosofo in un andamento convulso che ci fa ricordare appunto il furore bacchico o le òrghia dei misteri pagani.
La filosofia orgiastica non ricava dunque il vero da una lucida adequatio, da un’obbedienza e da un’attenzione intelligenti al reale, ma pone il vero in un’operazione della mente – l’“idea”, il “concetto” – che invece di assentire al reale, lo nega, fa come quell’Israele rimproverato dal profeta Geremia, il quale esce con questa accusa: “Hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e hai detto: non ti servirò” (Ger 2,20). E di fatti nella visione dell’idealismo hegeliano la sottomissione realistica dell’intelletto alla res, è un’offesa alla “libertà”, senza rendersi conto che, come dice Cristo, è proprio questa obbedienza al reale che ci dà la verità ed è solo la verità che rende liberi.
Invece l’idealista, pur sapendo che il reale non l’ha creato lui, si illude di poterlo sostituire con le proprie idee in conformità non alle esigenze dell’oggetto, ma alle “libere” decisioni del soggetto o dello “spirito”, il quale così si pone in antitesi col Creatore negandogli l’obbedienza della mente prima che della volontà. In antitesi a questo atteggiamento mentale improntato alla superbia e alla falsità, tipico di Satana, abbiamo quello di Cristo, nel quale, benchè Figlio di Dio, come dice S.Paolo, non c’è stato il “sì e il no”, ma soltanto il “sì”(II Cor 1,19).
Hegel è il grande maestro, l’eroe prometeico, il mitico vate e il mago raffinato di questa filosofia che chiamerei “orgiastica”, non tanto nel senso corrente di disordine erotico (che però non è escluso), quanto piuttosto nel suo senso originario, appunto legato al culto di Bacco, dio della frenesia orgiastica e della divinazione furiosa, ribelle alla disciplina del vero oggettivo, e trasportato dal torrente fangoso che esce dall’intimo di un cuore impuro.
In Hegel esplode il furor dell’antico paganesimo ormai da tempo risorto col Rinascimento in combutta con la mitologia germanica, manifestazione bacchica, dove lo sfogo contro natura, il contorcimento, il tormento e l’irrazionalità, celati da una falsa “quiete” del “concetto”, ma pronta ad esplodere nella violenza brutale, sfiorano il limite della pazzia, quella falsa manìa poetica, della quale parla già con antipatia anche Platone, eccitazione emotiva nella quale non si capisce dove giunge l’esaltazione del veggente e dove comincia l’escandescenza del soggetto invasato dal nume.
Questa è la conturbante ambiguità tipica dell’antica religione pagana: non si capisce da quale spirito o genius o daimon è mosso il vate, se si tratta di profezia poetica, o di oracolo sibillino o di ispirazione diabolica o di potere ipnotico o di estremismo emotivo. E’ il fervore della presenza divina o è il furore dello spirito delle tenebre? Questa ambiguità è possibile perché nell’antico paganesimo lo stesso concetto della divinità è ambiguo e contradditorio. Occorre il Dio d’Israele e di Cristo per poter far luce in queste tenebre che da sempre tormentano ed illudono gli uomini. Ma purtroppo non possiamo aspettarci da Hegel questa luce, nonostante certe dichiarazioni apparentemente cristiane.
La religiosità hegeliana ha solo una patina di cristianesimo, ma se la studiamo a fondo[5], ci mostrerà una sostanziale dimensione di irrazionale e morbosa esaltazione fantastica, che ben poco ha a che vedere col vero fuoco dell’entusiasmo cristiano, come lo constatiamo nei santi e nei mistici approvati dalla Chiesa, vale a dire con quella disciplina emotiva e con l’oscurità luminosa, ragionevole e soprannaturale, che sono connesse col mistero e col linguaggio del cristianesimo autentico. E’ interessante al riguardo che il “protestante” Hegel, nelle opere della maturità, non citi mai la Bibbia, se non per oscure allusioni al servizio del suo sistema gnostico. In questo arbitrario uso della Bibbia egli si rivela veramente “protestante”.
Ma i protestanti ortodossi e più seri, all’apparire del pensiero hegeliano nell’Ottocento, si accorsero subito della sua falsità, e ci vuole proprio la stoltezza dei tempi di oggi per vedere non solo protestanti ma addirittura cattolici asserviti supinamente all’impostura hegeliana[6], solo per qualche sprazzo di genialità, del resto ben superato dal genio di un S.Tommaso d’Aquino o di un S.Agostino o di uno qualunque dei Padri e dei Dottori della Chiesa.
Hegel certo è irripetibile, è un vero artista, in questo suo stile, nessuno è più riuscito come lui nella docilità a questo “Spirito” travolgente ed ammaliatore che lo aveva invasato[7], anche se molti, moltissimi sono stati e sono tuttora i suoi discepoli ed imitatori. Il messaggio che esce da questa prosa impressionante, audace e dirompente lo conosciamo tutti: è l’idealismo panteistico storicistico di Hegel.
Ben diverso è lo spirito che anima una filosofia come quella di un S.Tommaso d’Aquino, profondamente radicata non solo e non tanto nei grandi greci Platone ed Aristotele, dovutamente corretti e purificati, quanto piuttosto nella sapienza biblica sin dalle sue radici veterotestamentarie, come per esempio il libri profetici e sapienziali, e nutrita della ricchissima letteratura cristiana occidentale ed orientale. Questa sublime e limpida sapienza del “Sole d’Aquino” obbedisce alla norma di S.Pietro: “fratelli, siate sobri e vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli forti nella fede” (I Pt 5,8-9).
L’ebbrezza della spiritualità tomista non è quella di Bacco, di Dioniso o delle Sibille, disordinata e scomposta, sfrenata e violenta, ma è quella che S.Gregorio di Nissa, con efficace ossimoro nel quale, da mistico esperto, è maestro, chiama sobria ebrietas, dove l’impulso dello Spirito Santo, agendo fortiter et suaviter, genera nell’intimo dell’anima e della coscienza uno slancio, una gioia ed un fervore che trasportano e guidano senza violentare promovendo la stessa libertà del volere, dove la proprietà e la chiarezza del linguaggio e dell’espressione, anche se simbolici, innalzano ordinatamente lo spirito all’elevatezza del Mistero divino che solleva l’anima alla percezione velata della verità soprannaturale ed all’amore appassionato – il pati divina di Dionigi l’Areopagita – delle realtà celesti, dal che consegue l’esemplare esercizio di tutte le virtù.
In Tommaso la lucidità e la potenza straordinaria della ragione non vien mai meno anche quando essa, senza eccedere in empie presunzioni, ma sollevata, grazie alla sua umiltà, dal soffio dello Spirito Santo, vola possente e libera nel cielo dei valori incomprensibili ed ineffabili della Parola di Dio e della vita della grazia.
Come sappiamo dalla tradizione, anche Tommaso fu mosso da uno spirito, ma questi era una potenza benefica e celeste, era il suo angelo custode o forse lo stesso Spirito Santo, che spesso egli invocava e che lo illuminava facendogli distinguere le vere dalle false luci, l’essere dal pensiero, il bene dal male, il vero dalla falsa apparenza, in una meravigliosa sintesi di ragione e di fede. Per questo uno degli appellativi del Dottore Comune della Chiesa è anche quello di Doctor Angelicus, patrono di tutti coloro che desiderano entrare pie et sobrie, come prescrive il Concilio Vaticano I, nel sublime segreto del pensare cristiano.
Bologna, 22 aprile 2012
[1] Vol.I, p.38, Edizioni La Nuova Italia, Firenze 1988.
[2] Fenomenologia dello Spirito, vol.II, p.269.
[3] Il nome di Cristo appare in opere giovanili dopo che lo Hegel aveva studiato nel seminario teologico protestante di Tubinga. Ma già in queste opere giovanili si nota un’impostazione illuministica che preannuncia quello che sarà il razionalismo assoluto dell’Hegel maturo. Per cui c’è anche da chiedersi come Hegel abbia potuto considerarsi “luterano”, quando è ben noto il pessimismo di Lutero nei confronti della ragione.
[4] Fenomenologia dello Spirito, vol.II, p.254.
[5] Per esempio nelle sue Lezioni sulla filosofia della religione.
[6] Con tutta la vergognosa mitologia del Dio che “si contraddice”, che “soffre”, “diviene” e “muore” e cose del genere.
[7] Precisiamo che questo tono oracolare ed orgiastico appare evidente nella Fenomenlogia dello Spirito, mentre le altre opere lo nascondono sotto paludamenti raziocinanti, anche se pure in esse non è difficile rintracciarlo in trasparenza.